Clicca

Enzo Bianchi: «Ora vivo isolato, ma la mia solitudine è sempre abitata»

stampa la pagina
6 ottobre 2020 
di Gabriele Guccione 

Enzo Bianchi, come sta? 
«Sto bene». 

Fino a pochi giorni fa il confinamento sembrava un lontano ricordo, ma adesso la paura del contagio si riaffaccia sulla realtà. Lei come ha passato i mesi della quarantena? 
«Molto isolato, data la mia età. Ho 77 anni e quando tutto è iniziato rientravo da luoghi in cui la malattia era assai attestata. Sono rimasto solo per tre mesi, ma è stata una solitudine abitata». 

Abitata da chi? 
«Ho avuto la possibilità di sentire molta gente per telefono e di ascoltare persone sole e vecchie — alcune nemmeno le conoscevo —, che si trovavano in una condizione di angoscia e avevano bisogno di urlare il loro grido di aiuto. Questo mi ha dato la possibilità di avvertire tutto lo spessore della fragilità, ma anche di una umanità che chiede aiuto. Non dimenticherò mai quel periodo». 

Sulla pandemia, papa Francesco, nella sua ultima enciclica Fratelli tutti, ha messo in chiaro: «Non è un castigo divino, è la realtà che geme e si ribella».
«No, certo che non è un castigo divino. Dirlo sarebbe una bestemmia, una perversione dell’immagine di Dio». 

Il confinamento ha insegnato qualcosa? 
«Io credo di sì. Il prezzo pagato dai malati è stato enorme e non dobbiamo dimenticarlo: molte di queste persone sono state strappate alle loro famiglie e sono morte lontano dall’abbraccio e dal conforto dei loro cari. È stata un’esperienza contraria all’umanità. E anche chi è rimasto esente dalla malattia si è fatto molte domande, ha vissuto angosce terribili, immerso in una condizione di vita che in molti casi si è rivelata come una prigionia, una cattività». 

Prima il coronavirus, che tutt’ora colpisce. Poi, in questi giorni, l’alluvione in Piemonte. Se non un castigo divino, che cos’è? 
«C’è un proverbio piemontese che dice: “Dio perdona sempre, gli uomini perdonano qualche volta, ma la terra non perdona mai”. Quell’immagine della casa strappata dal torrente, ma costruita proprio sulla sponda, a Limone Piemonte, ci interroga sulle nostre responsabilità: non è solo una fatalità, ma una irresponsabilità degli uomini nel permettere che si costruisca dove prima o poi la natura tornerà a riappropriarsi dei propri spazi. Se rispettiamo la terra, allora la terra ci ricompensa, ma se la maltrattiamo, la terra si vendica». 

È dunque un disastro tutto umano, questo? 
«Il clima è ormai intaccato nei suoi equilibri, e per responsabilità dell’uomo. E in un mondo malato a causa nostra, pensiamo di essere esenti dalla malattia?». 

Di questi tempi qualcuno potrebbe essere tentato di cedere a letture apocalittiche... 
«Non hanno senso. Qui c’è in gioco la nostra responsabilità. È venuto il tempo in cui tutti dobbiamo compiere un profondo cambio di atteggiamento, altrimenti ci ritroveremo in una terra non abitabile». 

Lei crede che anche gli uomini e le donne, non solo la «realtà» di cui parla Francesco, debbano «ribellarsi» a questo stato di cose? 
«Non è facile arrivare a un cambiamento di paradigma. Ognuno deve cominciare da sé, immettere nella propria vita la dimensione della sobrietà, del rispetto della natura, dell’eliminazione dello scarto. L’oceano della crisi è immenso, il piccolo apporto di ognuno può sembrare inutile, eppure solo rinnovando le nostre consuetudini personali possiamo riuscire a fare in modo che le nostre azioni abbiano una ricaduta nella politica, nel vivere sociale». 

La voce del Papa, quando parla di «conversione ecologica», viene ascoltata? 
«Io ho l’impressione che queste giuste voci di protesta giungano molto in ritardo, quarant’anni fa erano profetiche ma allora non sono state colte dalle chiese. E ora le chiese non sono più ascoltate come un tempo, hanno perso gran parte della loro forza propulsiva. La loro è davvero una voce che grida nel deserto in un mondo secolarizzato dove non c’è un terreno fertile in cui queste ammonizioni possano germinare e fruttificare. La voce della chiesa è debole, e dobbiamo tenerne conto con realismo». 

Con il Covid il male, il dolore, la morte, questo «gemere» della terra, sono tornati d’un tratto a essere più vicini? 
«Non so se sia già nata una nuova consapevolezza. Di certo quel sentimento di onnipotenza, dovuto soprattutto alla tecnica, per cui non ci sentivamo più degli esseri fragili, è stato inficiato». 

È questa la lezione della pandemia? 
«È una lezione di fragilità. In una situazione in cui siamo prigionieri nel vero senso della parola e assaliti da paure e angosce, dobbiamo interrogarci sul nostro futuro. E sul fatto che ci si salva tutti insieme».
stampa la pagina



Gli ultimi 20 articoli