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Enzo Bianchi "Cosa significa vivere da stranieri"

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La Repubblica - 29 giugno 2020
dal sito del Monastero di Bose

Da sempre l’essere umano vive un profondo legame con la porzione di terra sulla quale viene al mondo e in cui abita: per questo la definisce patria, terra dei padri, e la sente come sua propria. Di fronte a questa realtà, dello stesso ordine dei legami di sangue, vi è però un’altra possibilità di considerare il mondo: vivere da stranieri, da pellegrini, fino a manifestare nella compagnia degli uomini una "differenza" rispetto agli altri.

Solo un esempio, al riguardo: si è dimenticato ben presto che i cristiani, all’inizio della loro vicenda storica e sociale, si chiamavano "quelli della via" ( Atti degli apostoli 9,2) e amavano definirsi "stranieri e pellegrini" ( Prima lettera di Pietro 2,11), ossia "quelli che abitano presso", che costantemente montano e smontano la tenda, consapevoli di non avere una patria. E come dimenticare ciò che l’A Diogneto, mirabile testo del II secolo, dice a proposito dei cristiani? "Abitano una loro patria, ma come stranieri ( pároikoi). Ogni terra straniera ( xéne) è patria per loro e ogni patria è terra straniera ( xéne)".

Ma questa dinamica attiene in modo più generale all’humanitas, alla vita umana sulla terra. Ovvero,
vivere una "stranierità" antropologica di fondo consente di misurarsi quotidianamente con l’irriducibile dialettica tra appartenenza e differenza, tra convivenza civile e alterità. Scrive la grande pensatrice francese Julia Kristeva: "Lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità. Lo straniero è in noi stessi.

Se fuggiamo lo straniero e lo combattiamo, combattiamo contro il nostro inconscio. Lo straniero vive in me, dunque noi tutti siamo stranieri". Ed Edmond Jabès faceva eco: "Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero. La distanza che ci separa dallo straniero è quella stessa che ci separa da noi".

Se dunque "ognuno di noi è straniero a se stesso", la stranierità è una dimensione costitutiva dell’umano. Vivere da stranieri in questo mondo non equivale a evadere dalla storia, ma è un modo altro di discernere il mondo e le relazioni: significa non lasciare posto a logiche nazionalistiche o localistiche; non lasciare che il legame con la propria terra produca rifiuto degli altri, delle loro culture, fedi, etiche… Significa percepirsi come ospiti in ogni porzione di terra, chiamati a renderla insieme, nel dialogo difficile ma imprescindibile, più bella e abitabile.

Stranierità vuol dire rinuncia a essere "padroni di casa", abbandono dell’autosufficienza che genera l’esclusione dell’altro. In positivo, si manifesta come solidarietà e soprattutto condivisione (vero nome della carità intelligente), praticata da chi ha rinunciato a possedere la terra per sé. Da chi, sentendosi sempre straniero, pellegrino e viandante, può ricominciare ogni giorno animato da una convinzione: "Mai senza l’altro". Sempre in cammino, sempre in ricerca, semplice amante della bellezza e della gioia condivise.
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