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Rosalba Manes "Una Scrittura feconda e materna"

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del 23 novembre 2019

Un gran numero di madri sono protagoniste della storia sacra. Ma la capacità di concepire figli non è mai scontata. Anna, Sara, Rachele...

«Le lettere ebraiche sono femminili. Il corpo scritto della Torah, affidato all’albero di trasmissione maschile, è composto di cellule femminili, perciò è vivo e mette fuori getti nuovi a ogni lettura, in ogni generazione.
Perfino la scrittura sacra, l’ambito più strettamente maschile, è costituito di vita femminile grazie alle lettere» (E. De Luca, Le sante dello scandalo, Giuntina, Firenze 2011, 8).

Stando a quanto scrive De Luca, oltre che parlare di maternità e fecondità nella Bibbia dovremmo parlare di maternità e fecondità della Bibbia. Essa è una scrittura feconda, sempre gravida, capace di produrre senso e di generare vita. Perciò venire in contatto con il testo biblico significa incontrare un corpo vivo che respira e che porta in gestazione una vita sempre nuova, per effetto dello Spirito Santo che ha sposato la parola umana e l’ha «canonizzata» come «Parola di Dio»; significa sentirsi avvolti dalla sua maternità e nutriti da una cura premurosa e integrale che vuole farci crescere e maturare: «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tm 3, 16-17).

La Bibbia, oltre ad essere un corpo materno, racconta anche la vicenda di un gran numero di madri, protagoniste, al pari degli uomini, della storia sacra. Guardando alle storie del Primo Testamento, si apprende che la capacità di concepire e partorire figli è ritenuta la qualità più importante di una donna, che però non è mai scontata. Il travaglio della donna sterile che desidera ardentemente essere feconda appare all’inizio del primo libro di Samuele (1 Sam 1, 1-18). Lì incontriamo Anna (il cui nome significa «grazia») che, a causa della sua sterilità, diviene bersaglio di cattiverie gratuite da parte della sua rivale in amore. Suo marito Elkanà («Dio acquisisce»), infatti, ha un’altra moglie, Peninnà («Perla») che, diversamente da Anna, ha generato figli e figlie. Anna non solo non ha figli, ma è anche priva dell’esclusività che ogni donna desidera da parte del suo uomo.

Ogni anno dalla città di Rama, sui monti di Efraim, Elkanà si reca con la famiglia in pellegrinaggio al santuario di Silo, sede dell’arca dell’Alleanza prima che questa giungesse a Gerusalemme e, dopo la sosta al tempio per adorare il Dio d’Israele e per l’offerta dei sacrifici, la festa continua con momenti di gioia e un banchetto imbandito con molte pietanze. Durante uno di questi pellegrinaggi, Anna ha una crisi: quando il marito distribuisce la carne del sacrificio, lei riceve una sola porzione, mentre Peninnà ne riceve diverse, in base al numero dei suoi figli. Questo gesto acuisce il dolore della sterilità e richiama quello di Sara, che si sente umiliata da Agar (cfr. Gen 16), e quello di Rachele, umiliata da Lia (cfr. Gen 29–30). Queste tre donne, Anna, Sara e Rachele, sono le preferite dei loro mariti, ma vivono il dramma di non poter dare loro una discendenza.

Anna piange e non vuole mangiare e suo marito cerca di consolarla: «Non sono forse io per te meglio di dieci figli?» (1 Sam 1, 8). Elkanà ha la presunzione di bastare a sua moglie, ma l’amore per uno sposo e l’amore per i propri figli non sono intercambiabili. A questo punto, ad Anna non resta che sfogare il suo dolore davanti a Dio e, come il popolo d’Israele in Egitto (cfr. Es 2, 23), innalza una preghiera piena di fervore e scevra da egoismo. Chiede a Dio un figlio non per colmare un vuoto, ma per consacrarlo a Dio: «Lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita» (1 Re 1, 10). Anna non vuole che la vita scorra in lei come ripicca verso la rivale, ma per servire il popolo santo di Dio. Dio ascolta la sua preghiera e Anna diventa madre, una madre che, libera da se stessa, compie la promessa fatta al Signore di offrirgli suo figlio. La gioia della sua maternità esplode in un canto di lode, che ispirerà anche il Magnificat, e che celebra l’agire onnipotente di un Dio capace di sorprendere le sue creature con la tecnica del capovolgimento, per cui la donna feconda può sfiorire e la sterile partorire persino sette volte (cfr. 1 Sam 2, 1-10).

Nel Nuovo Testamento la maternità si colora di una nuova sfumatura e acquista una connotazione piuttosto spirituale. Quattro donne del Primo Testamento (Racab, Tamar, Rut, Betsabea) entrano nella genealogia di Gesù in qualità di madri del Messia (cfr. Mt 1, 1-17). L’anziana Anna, che accoglie il bambino Gesù nel tempio, è una vedova che manifesta una speciale maternità verso il popolo nell’indicare in quel corpicino indifeso la presenza del redentore di Israele (cfr. Lc 2, 36-38). Maria, la madre di Gesù, diviene madre anche dei discepoli del Figlio suo (cfr. Gv 19, 25-27) e della comunità dei credenti che nasce a Pentecoste (cfr. At 1, 14; 2,1). Anche nella comunità cristiana si sperimenta la maternità spirituale di donne che trasmettono la fede (cfr. Loide ed Eunice in 2 Tm 1, 5) e che si prendono cura della vita dei credenti e degli apostoli (cfr. la mamma di Rufo in Rm 16, 13). La maternità emerge poi in tante immagini che manifestano l’aspetto materno sia dell’amore di Dio in Cristo (il riferimento al grembo, ta splánchna, è ricorrente, cfr. Mt 9, 36) sia dei cristiani, membri di una comunità, la Chiesa, destinata a essere madre e a generare molti figli (cfr. 1 Ts 2, 6-8). La Scrittura ci porta così a scoprire la vocazione «materna» di tutti i battezzati perché «se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo» (Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca 2, 26).

di Rosalba Manes
Consacrata dell’ordo virginum e biblista (Pontificia Università Gregoriana)
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