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Enzo Bianchi "L’urgenza della gioia"

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La santità deve essere cercata nella vita quotidiana, non ispirata a modelli ideali, astratti, sovraumani e raccontata come perfezione raggiunta. Ognuno ha una propria strada per la santità, strada tracciata dal Signore e che può essere percorsa anche in mezzo a imperfezioni e cadute, ma strada illuminata e fatta percorrere dalla grazia del Signore…

Papa Francesco ha donato alla chiesa universale un’esortazione apostolica, la terza dopo Evangelii gaudium (2013) e Amoris lætitia (2016), sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Questa esortazione porta significativamente il titolo Gaudete et exsultate, dunque è un invito alla gioia e all’esultanza rivolto a tutti i cristiani. Anche solo in questo titolo risuona un’urgenza evangelica alla quale Papa Francesco è molto attento, perché la ritiene decisiva nella vita dei discepoli di Gesù: l’urgenza della gioia, che è gioia del Vangelo, letizia dell’amore, esperienza gioiosa della comunione con il Signore Gesù.

Conosciamo i rimproveri rivolti a noi cristiani in particolare da Friedrich Nietzsche all’inizio del secolo scorso, sul nostro volto che sovente appare triste, stanco, depresso, astenico e addirittura cinico. Siamo schiacciati dal peso dei precetti, in profonda contraddizione con il messaggio del Vangelo che è “buona notizia”, annuncio che dovrebbe destare gioia ed esultanza: la gioia che nasce da un incontro che dà senso all’esistenza; la gioia della scoperta di un tesoro incalcolabile; la gioia della liberazione, della pienezza di vita che il Signore offre a chi accoglie il suo amore, che mai deve essere meritato. I cristiani dimenticano purtroppo che la gioia è un comando apostolico, rivolto da Paolo alla chiesa: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi!» (Filippesi 4, 4).

Dimenticano che la gioia è un esercizio da compiersi nella lotta contro l’accidia, contro la tristezza mondana; che la gioia è una confessio laudis che canta l’azione di Dio in noi e nella storia; che la gioia è il dono del Risorto che niente e nessuno può rubare (cfr. Giovanni 15, 11; 16, 20-22). È significativo che già Paolo VI aveva avuto l’audacia di scrivere un’esortazione apostolica intitolata Gaudete in Domino (1975), chiedendo ai cristiani che la loro vita fosse capace di mostrare la gioia della fede, della speranza e dell’amore che abitano nei loro cuori.

Francesco sottolinea dunque che la via della santità deve innanzitutto essere contrassegnata dalla gioia, quella gioia «frutto dello Spirito» (Galati 5, 22), che è stata manifestata dai santi nella loro vita ed è stata buona notizia per i loro fratelli e le loro sorelle. Sì, noi discepoli e discepole di Gesù sulle vie del mondo siamo circondati da una moltitudine di testimoni (cfr. Ebrei 12, 1), non siamo soli, ma siamo immersi in una comunione di vita, di sentimenti e di preghiera che ci rende amici di Dio, insieme.

All’interno di questa visione della grande nuvola di testimoni, Papa Francesco ricorda che la chiamata alla santità è rivolta a tutti i cristiani e che, certi di questa chiamata universale, dovremmo essere capaci di fare discernimento dei «santi della porta accanto», che magari incontriamo sullo stesso pianerottolo, sul lavoro o per le strade: santi quotidiani, uomini e donne che, nella semplicità di una vita che non appare e non si impone, tuttavia hanno dei tratti in comunione con Gesù e sono, pur con tutti i limiti e le debolezze umane, conformi a lui, fino a essere con la loro vita un riflesso della presenza di Dio in mezzo a noi. Anonimi, sconosciuti per la gente, ignorati dai poteri di questo mondo, sono veri discepoli di Gesù, alla sua sequela.

Per secoli la chiesa ha proclamato santi dei papi, vescovi, presbiteri, monaci e religiosi, ma molti di più sono stati santi: semplici cristiani, padri e madri che hanno conosciuto il duro mestiere di vivere, hanno vissuto fedelmente l’amore, hanno saputo accogliere il frutto del loro amore, i figli, e li hanno fatti crescere con cura e sollecitudine; poveri che hanno dovuto lavorare per sfamare le loro famiglie; oppressi che non avevano voce ma non si sono piegati all’ingiustizia e al potere della violenza; malati e ultimi che hanno conosciuto soprattutto fatica e sofferenza… Nell’ultimo secolo si è avvertita nella chiesa questa sete di santità “ordinaria” e un’intera stagione di letteratura cattolica, in particolare in Francia (Malègue, Mauriac, Bernanos, Green), ha cercato di renderla eloquente nella narrazione di vite di semplici cristiani: santità reale, vissuta in modo ordinario, eroica nella perseveranza e nell’umiltà, non in azioni straordinarie.

I santi — dicevano i padri del deserto — non sono quelli che fanno miracoli o risuscitano i morti, ma quelli che si riconoscono peccatori e mendicano da Dio la sua misericordia, cercando di vivere nella carità. C’è un episodio nella tradizione dei padri del deserto che ben illustra la santità indicata da Francesco. Si narra che Antonio, il padre dei monaci, dopo decenni di ascesi e di lotta spirituale ebbe una visione. Un giorno abba Antonio pregava nella sua cella e gli giunse una voce che disse: «Antonio, non sei ancora giunto alla misura di quel ciabattino di Alessandria». L’anziano si alzò di buon mattino, prese il suo bastone di palma e andò a trovare il ciabattino. Entrò, lo abbracciò, sedette accanto a lui e gli disse: «Fratello, dimmi quello che fai». Ed egli rispose: «Non so che cosa faccio di buono, abba. Semplicemente, al mattino, quando mi alzo e mi metto al lavoro, mi dico che tutti gli abitanti di questa città, dal più piccolo al più grande, entreranno nel Regno a motivo delle loro opere di giustizia, io solo riceverò il castigo per i miei peccati. E di nuovo, la sera, prima di addormentarmi, mi ripeto la stessa cosa». A queste parole l’anziano disse: «In verità, come un buon orafo che sta seduto a lavorare in pace a casa sua, tu hai ereditato il regno dei cieli; io invece, che non ho discernimento, anche se dimoro sempre nel deserto, non ti ho raggiunto» (Detti dei padri del deserto, Serie anonima, Nau 490).

Ecco la «santità della porta accanto», la santità possibile a tutti coloro che non rifiutano la grazia del Signore, sempre preveniente e immeritata. Questa santità, come quella di chi spende la vita per gli altri o perde la vita a causa della sua fede in Cristo, travalica certamente i confini della chiesa: è ecumenismo del sangue di quanti, pur all’interno di confessioni diverse, diventano martiri a causa di Cristo; è testimonianza di gratuità e di umanità data a tutti anche da parte di chi non è cristiano ma ha dedicato l’intera sua vita al bene comune e al servizio dell’altro. Questa santità è vissuta su tante vie differenti, perché «la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro» (n. 11); perché, se la chiamata alla santità è rivolta a tutti, a ciascuno Dio fa un dono particolare e a ciascuno compete “la sua strada”, “il suo cammino” verso il Regno: non isolato, mai senza gli altri, ma facendo obbedienza al proprio corpo, alla propria storia, alla propria collocazione nel mondo e nella chiesa, alla propria coscienza. Sempre nei cristiani opera la grazia battesimale, ma mai nell’omologazione, mai esigendo un’imitazione, ma chiedendo solo la sequela del Signore Gesù ovunque egli vada (cfr. Apocalisse 14, 4), in modo da essere immersi nella sua morte per risorgere con lui a vita nuova (cfr. Romani 6, 4; Colossesi 2, 12), nella santità che Dio dona ai suoi figli.

Chiamata alla santità — si faccia attenzione — non significa appiattimento, vita nella tiepidezza, ma chiamata alla carità, all’amore pienamente vissuto: e per l’amore non c’è misura! A questo proposito Papa Francesco può essere mal interpretato, perché la sua visione umanissima del santo non corrisponde a canoni presenti nella tradizione o ai modelli classici dell’agiografia e della devozione. In verità Francesco non privilegia nessuna via di santità, ma chiede con forza di riconoscerla anche in vite che non emergono, non si impongono e non sembrano avere nulla di straordinario o di eroico. Da parte di chi ancora crede che vi siano vie istituzionali o corsie privilegiate contraddistinte da perfetta carità — come si diceva della vita religiosa — questa visione della santità può non essere compresa nella sua verità: quella che riconosce che i santi sono tutti peccatori, che non ci sono persone perfette, superuomini, e che Dio può riempire della sua grazia il peccatore pentito più dell’osservante fiero di se stesso. I santi non sono l’aristocrazia dello spirito, ma le “moltitudini” per le quali Gesù ha sparso il suo sangue, che hanno risposto all’amore di Dio credendo e vivendo l’amore!

La santità deve essere cercata nella vita quotidiana, non ispirata a modelli ideali, astratti, sovraumani e raccontata come perfezione raggiunta. Ognuno ha una propria strada per la santità, strada tracciata dal Signore e che può essere percorsa anche in mezzo a imperfezioni e cadute, ma strada illuminata e fatta percorrere dalla grazia del Signore.

Lo aveva ben capito il giovane Angelo Roncalli, poi diventato papa Giovanni XXIII, quando nel suo Giornale dell’anima scriveva il 16 gennaio 1903, a 22 anni: «A forza di toccarlo con mano mi sono convinto di una cosa: come cioè sia falso il concetto che della santità applicata a me stesso io mi sono formato. Nelle mie singole azioni, nelle piccole mancanze subito avvertite, richiamavo alla mente l’immagine di qualche santo cui mi proponevo d’imitare in tutte le cose minute, come un pittore copia esattamente un quadro di Raffaello (…) Avveniva però che io non arrivavo mai a raggiungere quanto mi ero immaginato di poter fare e m’inquietavo (…) Io non sono san Luigi, né devo santificarmi proprio come ha fatto lui, ma come lo comporta il mio essere diverso, il mio carattere, le mie differenti condizioni». E Francesco riecheggia queste parole affermando: «Dio non vuole per tutte le anime una stessa e uguale perfezione!».

In ogni via di santità ciò che è determinante è l’amore per gli altri, l’amore del prossimo, la carità che uno vive verso il fratello che vede e non quella che vanta di vivere verso Dio che non vede (cfr. 1 Giovanni 4, 20). La vita del cristiano deve conoscere ed esercitare il silenzio e la contemplazione, ma non come esenzione dalla fatica di vivere, non come fuga dai fratelli e dalle sorelle, non come rifugio in una gnosi spiritualistica, non come privilegio rispetto alla condizione dei poveri e della gente che vive lavorando e faticando. Dobbiamo porci seriamente una domanda: «Una certa vita, definita contemplativa e dichiarata meritoria, non è stata a volte un’evasione dalla storia e dalla condizione umana?». La spiritualità cristiana — e questo oggi va affermato con forza — non può avere come obiettivo ultimo la pace interiore, tanto meno il ben-essere con se stessi, ma l’amore verso gli altri, la carità vissuta quotidianamente e concretamente.

Quando il pontefice, nel secondo capitolo dell’esortazione, mette in guardia dai rischi dello gnosticismo e del pelagianesimo, chiede soprattutto di aderire al realismo cristiano del Vangelo e non a canoni di spiritualità che comunque devono sottostare al giudizio del Vangelo stesso. Non la conoscenza intellettuale o spiritualistica salva, e neppure il confidare nella propria volontà, nelle proprie opere, nell’adempimento puntuale di leggi, precetti e metodi indicati dalle molte spiritualità: solo l’amore di Dio salva! Sicché, «anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dall’alienazione del peccato, dobbiamo ritenere che Dio è presente nella sua vita» (n. 42). Sì, perché la grazia, amore gratuito di Dio, Spirito che rimette i peccati, opera sempre, anche in modi che noi non conosciamo e fuori dei confini che noi tracciamo. In verità — come afferma sant’Agostino — Dio invita ogni persona a fare quello che può e a chiedere quello che non può (cfr. n. 49) sulla via della sequela del Signore. La salvezza, infatti, viene solo dal Signore, e ogni essere umano, ogni cristiano «riconosce di essere privo della vera giustizia e di aspettare la giustificazione, attraverso la fede, solo da Cristo» (n. 52).

Questo il messaggio più nuovo dell’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità, che tuttavia è affermazione del messaggio eterno del Vangelo: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Romani 13, 8) e «tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Levitico 19, 18)» (Galati 5, 14).

Al centro dell’esortazione, nel capitolo terzo, il papa delinea il volto di Gesù, il volto del primo destinatario delle beatitudini, perché è proprio lui che le ha vissute pienamente, traendo da questa esperienza l’autorevolezza, l’exousía nel proclamarle. Per Francesco le beatitudini sono illustrazione della santità cristiana (cfr. n. 63), sono proclamazione della felicità, della beatitudine che il discepolo di Gesù conosce vivendole e mostrando così i tratti della santità.

Il pontefice commenta le otto beatitudini nella versione di Matteo (cfr. Matteo 5, 3-12). Le sue parole non vogliono essere le ultime e neppure la sola interpretazione di questo testo che in ogni secolo ha ispirato commenti, dai padri della chiesa ai commentatori dei nostri giorni. In questa illustrazione delle beatitudini si sente la sua spiritualità ignaziana, e non poteva essere diversamente. D’altronde, questa esortazione è il frutto di tutta la sua vita spirituale, vissuta in un tempo preciso, ispirata a una spiritualità precisa e in una terra che è la sua. Noi cogliamo dunque nelle sue parole una traccia di lettura delle beatitudini tra le tante percorse, testimoniate e messe per iscritto da numerosi altri testimoni di Cristo.

Al papa non interessa che si leggano le beatitudini solo nella sua ottica, ma piuttosto che non si dimentichi questo annuncio così decisivo e riassuntivo dei tratti richiesti dalla sequela di Gesù. È significativo che al discorso della montagna venga accostato il discorso del Signore sul giudizio universale (cfr. Matteo 25, 31-46), in cui la salvezza è decisa dal comportamento tenuto dal cristiano nella storia, di fronte al fratello e alla sorella nel bisogno. Proprio nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, in chi è nudo, nel malato e nel prigioniero Cristo va cercato, contemplato, amato e servito. Il cristiano è chiamato a leggere le pagine delle beatitudini e del giudizio accogliendole sine glossa, senza edulcorarle, ma ritenendole illustrazione della necessaria misericordia da vivere e praticare come «il cuore pulsante del Vangelo» (n. 97).

La santità cristiana non è un’impresa personale da vivere e portare a pienezza solo davanti a Dio, ma è santità che nella pratica della fraternità umana scopre e confessa la paternità di Dio. Mai senza gli altri è possibile un cammino verso Dio; mai senza gli altri è possibile la comunione con Cristo; mai senza gli altri si può essere mossi dallo Spirito santo. Anzi, proprio l’amore verso il prossimo può testimoniare la presenza dell’amore per Dio, perché amare Dio significa assolutamente compiere il suo comandamento, che è l’amore del prossimo. Un santo che non conosca i poveri, che non si senta solidale con gli ultimi, che non viva la compassione con i sofferenti, è una menzogna (psèudos) di santità. Potrà essere un uomo ascetico, un osservante di pratiche religiose e spirituali, ma non sarà un discepolo di Gesù, dunque non sarà un cristiano.

Lo sappiamo: i poveri non sono belli, gli stranieri ci possono fare paura e ci complicano la vita, i malati spesso sono insistenti e pretenziosi, disturbando così la nostra quotidianità, ma questi sono «la carne di Cristo», sono il suo primo sacramento nel mondo. L’ideale di santità cristiana non ignora l’ingiustizia che è nel mondo, non passa oltre le vittime del potere e della violenza, non rivendica un’oasi di pace e di esenzione dal duro mestiere di vivere, ma sa discernere il povero e il bisognoso (cfr. Salmi 40 [41], 2 secondo la Settanta), sa prendersene cura, sa assumere la loro difesa e la responsabilità della liberazione dalle loro oppressioni. Questo è il culto gradito al Dio di Gesù, perché egli non vuole offerte e sacrifici ma vuole che la nostra vita sia spesa e offerta per gli altri (cfr. Romani 12, 1), vuole la misericordia e il discernimento della sua presenza nei nostri fratelli e sorelle (cfr. Osea 6, 6).

Dopo questa illustrazione della centralità del messaggio delle beatitudini e della memoria del giudizio di Dio sul nostro operare nella storia, nel capitolo quarto papa Francesco indica alcune caratteristiche della santità nel mondo di oggi. Egli mette a fuoco cinque manifestazioni dell’amore cristiano, per richiamare i credenti in Gesù Cristo a quelle che paiono urgenze avvertite soprattutto oggi. Di questo capitolo bisogna sottolineare innanzitutto l’appello alla fede, la fede salda che certo è un dono di Dio ma va sempre chiesto, custodito e rinnovato nella vita cristiana. Chi ha fede (pìstis), adesione al Signore, può diventare affidabile (pistós) davanti agli altri e così testimoniare la fedeltà di Dio che non viene mai meno.

Un’altra urgenza indicata — come già si diceva all’inizio — è quella della gioia: il pontefice parla addirittura dell’importanza del senso dell’umorismo, perché «essere cristiani è “gioia nello Spirito santo” (Romani 14, 17)» (n. 122), perché la gioia narra la prossimità fedele di Dio, il suo amore, il suo compiere sempre meraviglie nella vita di ciascuno e nella storia dell’umanità. Certo, non si tratta della gioia mondana, individualista e senza gli altri, ma della gioia della comunione (cfr. n. 128).

Non poteva poi mancare l’urgenza della parrhesìa che tanto sta a cuore a Francesco: parrhesìa come non avere paura, dunque audacia della fede; parresìa come libertà vissuta per non cadere sotto il peso della Legge; parresìa come convinzione salda che vince ogni mancanza di fervore, ogni esitazione e ogni paralisi nei confronti delle cose nuove che Dio ci prepara e ci offre (cfr. Isaia 43, 19). La parresìa è la vittoria sulla sindrome di Giona, il profeta tentato da paura, sfiducia e gelosia per la propria identità, esitante nell’accogliere la misericordia di Dio e perciò incline a un ministero di condanna della povera umanità e delle creature tutte, delle quali Dio ha compassione.

Il papa insiste poi in modo particolare sull’urgenza di una santità comunitaria, cioè di un cammino comunitario da compiere sempre insieme, con gli altri e mai da soli. Va confessato che veniamo da secoli nei quali la spiritualità è stata spesso vissuta in modo individualistico, senza che si delineasse per il discepolo l’orizzonte comunitario. È significativo che il pontefice citi come esempi vicini a noi solo santi manifestati nel martirio in terre di missione, fino ai sette monaci trappisti dell’Atlante algerino. Eppure è la comunità, la koinonìa cristiana, il luogo in cui si sperimenta il Cristo risorto, si riceve il dono dello Spirito santo, Spirito di unità e di diversità riconciliate, si conosce la pratica essenziale del comandamento nuovo dato da Gesù ai suoi (cfr. Giovanni 13, 34; 15, 12) e indicato come unico segno della qualità cristiana dei suoi discepoli (cfr. Giovanni 13, 35).

La comunità familiare o religiosa non è un accidente nella vita cristiana: è la forma della sequela di Cristo, che volle vivere la sua vocazione in una vita comunitaria di uomini e donne discepole e che indicò la comunità familiare come narrazione dell’alleanza fedele di Dio con il suo popolo. Vivere in comunità richiede l’esercizio di un amore sincero, quotidiano, concreto, non ideale ma capace di accogliere le difficoltà, le tensioni, i conflitti e di superarli nella comunione che lo Spirito sempre edifica. No all’individualismo spirituale dunque, tentazione oggi tanto presente perché l’individualismo culturale dominante ispira purtroppo, nella spiritualità e in presunte vie di santità, atteggiamenti che non sono conformi alla koinonìa, alla comunione che è Dio stesso e che Gesù ha voluto narrarci e vivere in mezzo a noi.

Vi è infine l’urgenza della preghiera, cioè lo stare alla presenza di Dio, l’ascoltare la sua parola, il dare del tu al Signore per dirgli semplicemente “amen” e per invocare il suo Spirito santo e la sua misericordia. Senza la preghiera, eloquenza della fede (cfr. Giacomo 5, 15), la fede stessa non vive ma finisce per morire.

L’ultimo capitolo, quello sulle vie della santificazione, è dedicato a tre temi classici per la spiritualità cristiana, temi centrali già per i padri del deserto e da allora sempre rinnovati e riattualizzati. Innanzitutto la lotta spirituale, lotta contro le tentazioni del demonio. La vita è una lotta (cfr. Giobbe 7, 1) e la vita cristiana è lotta non contro la carne e il sangue ma contro le potenze idolatriche alienanti, che ci seducono e ci rendono schiavi (cfr. Efesini 6, 12). È una lotta il cui protagonista resta il Signore, che così possiamo invocare: «Nella mia lotta sii tu a lottare!» (Salmi 43, 1; 119, 154). È una lotta in cui si può sperimentare la gioia per la presenza del Signore che non ci abbandona alla tentazione ma la vince in noi e ci rende partecipi della sottomissione del demonio che egli fa arretrare. Il demonio è una potenza, il diavolo è il divisore, Satana è l’accusatore, è il principe di questo mondo, ma nella fede sappiamo che Gesù l’ha vinto per sempre. Il demonio è però ancora attivo e non dobbiamo credere nella sua presenza, perché la sperimentiamo nelle tentazioni, ma possiamo essere certi che il Signore Gesù lo vince sempre in noi e che la grazia ci libera dal suo potere tenebroso e alienante.

Questa lotta richiede la vigilanza. «Chi è il cristiano?», si chiedeva san Basilio (ritratto nell’icona). E rispondeva: «Colui che ha uno spirito vigilante». Sulla via della santità risuonano i ripetuti appelli di Gesù: «Vigilate, vegliate». Occorre restare svegli, non cedere all’intontimento spirituale, non abituarsi mai alle cadute, ma sempre accogliere la parola di Dio che impedisce al nostro cuore di diventare calloso, indurito, insensibile alla volontà del Signore e dunque preda della corruzione spirituale.

L’ultima urgenza della vita spirituale ma anche nella vita della chiesa oggi, come il papa spesso avverte e sottolinea, è il discernimento. Il discernimento è quell’operazione che viene dallo Spirito santo, il quale si innesta nel nostro spirito umano permettendoci di cogliere, giudicare e operare ciò che è secondo la volontà del Signore, dunque è il nostro bene, e ciò che invece contraddice la vita buona, bella e beata del cristiano. Il discernimento è un tema molto esplorato, fin da Origene e dai padri del deserto, quindi dai padri della chiesa indivisa e dalle tradizioni spirituali di oriente e di occidente. Sant’Ignazio di Loyola ne ha fatto un punto centrale del cammino spirituale vissuto e poi tracciato per i suoi discepoli e ne ha fornito un’interpretazione propria, che però non esaurisce la ricchezza della meditazione ecclesiale su questo tema. Certo, papa Francesco, da gesuita, si riferisce soprattutto a questa tradizione da lui ricevuta, ma non vuole che si dimentichi tutta la dottrina spirituale dei padri al riguardo, molto più variegata e ricca, che definisce il discernimento come la madre di tutte le virtù, il dono e l’esercizio decisivo per il cammino di sequela di Cristo verso il Regno.

In ogni caso, il discernimento è uno dei sette doni dello Spirito santo, essenziale nella vita spirituale cristiana, perché ci permette di ascoltare il Signore e non noi stessi né tantomeno le pulsioni che vengono dal demonio. Il discernimento ci permette di giudicare con lo sguardo di Dio ciò che è bene e ciò che è male, ci dà la possibilità di scorgere i segni dei tempi e dei luoghi, al fine di vivere oggi la sequela di Cristo nella compagnia degli uomini e nella comunione della chiesa.

Questi sono solo spunti, indicazioni offerte alla chiesa con nuovi accenti o con particolare insistenza. Ma l’esortazione va letta e rimeditata come un dono che ci fa capire che non “ci facciamo santi” ma che il Signore ci fa santi nella sua misericordia infinita, se noi accogliamo come dono gratuito il suo amore preveniente e mai da meritare.
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