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Jean Louis Ska "Una abbagliante tenebra"

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Jean Louis Ska

Piano di lavoro 2018/19

2 - Una abbagliante tenebra
Giovanni 3,1-21



1. Per leggere e comprendere

Nicodemo è un personaggio che appare solo nel quarto vangelo e in tre circostanze diverse.
Prima, nell’episodio che ci occupa ed è quello più sviluppato. In seguito, riapparirà in Gv 7,51-52, ove prende la difesa di Gesù contro un gruppo di farisei, proponendo di sentirlo prima di giudicarlo. La reazione è poco favorevole: nessun profeta può provenire dalla Galilea. Infine, lo ritroviamo al momento della sepoltura di Gesù in Gv 19,39, con Giuseppe di Arimatea. È lui che porta “una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre”. Come vedremo, è più che probabile che Nicodemo sia presente in questo momento per essere testimone di quello che sarà la “nuova nascita”, o “la nascita dall’alto” di cui Gesù gli ha parlato nel nostro capitolo (Gv 3,3). L’incontro di Gesù con Nicodemo è, nel vangelo di Giovanni, la prima lunga conversazione di Gesù con un interlocutore. È anche il primo esempio di un discorso esteso, un fenomeno più frequente nel quarto vangelo che non negli altri vangeli. Il filo del discorso non è sempre facile da individuare perché segue una logica poco cartesiana. Ritroviamo esempi di dibattiti simili, tuttavia, nella letteratura rabbinica. Molto spesso, una parola richiama un’altra per associazione. Non abbiamo quindi uno sviluppo logico, con una tesi, gli argomenti, le obiezioni e le risposte alle obiezioni. Proveremo a seguire lo sviluppo della conversazione in funzione dei criteri appena accennati, vale a dire a partire da associazioni o raggruppamento di parole simili o apparentate.

Una prima lettura del testo: tre domande, tre risposte

Notiamo in primo luogo che, dopo il versetto di introduzione, vi sono tre interventi di Nicodemo con tre risposte o reazioni di Gesù di Nazaret: 3,2-3; 3,4-8; 3,9-21. Gli interventi di Nicodemo sono tutti brevi (3,2.4.9) e quelli di Gesù sempre più lunghi: il primo conta un solo versetto (3,3), il secondo quattro (3,5-8) e il terzo addirittura dodici (3,10-21). Riprendiamo le tre parti della conversazione nell’ordine e proviamo a rintracciare il “filo rosso” dell’insieme.
Nicodemo, ed è importante, non inizia con una domanda, bensì con una affermazione: “Sappiamo che tu sei venuto da Dio” e ne fornisce la prova: i segni compiuti da Gesù dimostrano che è stato inviato da Dio. La reazione di Gesù sorprende assai perché l’asserzione di Nicodemo assomiglia molto a una confessione di fede. Gesù replica tuttavia introducendo un altro registro, quello della “nascita”. Al “sapere” di Nicodemo oppone il “divenire” di una nuova nascita. Possiamo osservare che la posizione di Nicodemo è abbastanza statica, mentre Gesù propone un processo dinamico. La differenza è fondamentale.
Nicodemo, però, si trova destabilizzato dalla reazione di Gesù e pone una domanda proprio sul termine nuovo introdotto nella discussione: “nascere”. Sarà il termine chiave della seconda parte della conversazione ove il termine riappare ben sette volte.
Un altro termine è legato al primo: “spirito”. “Nascere di nuovo” o “nascere dall’alto” (le due traduzioni sono possibili) significa “nascere dallo spirito” e non “dalla carne”.
Lo spirito designa, nell’Antico così come nel Nuovo Testamento la vita, la forza, l’energia divina. La carne, invece, designa ciò che è fragile, effimero, transitorio in questo mondo e nella natura umana. La nuova nascita significa quindi un passaggio da questo mondo fragile e precario al mondo di Dio, un mondo solido e duraturo.
Notiamo che il verbo “sapere” riappare in conclusione della seconda parte: “tu non sai da dove [lo spirito] viene e dove va”. Nicodemo affermava di sapere, però sembra ignorare alcune cose essenziali.
La terza parte della conversazione inizia con una domanda di Nicodemo: “Come possono avvenire questi fatti?” (3,9). Il testo greco, forse, gioca sulla parentela sonora fra diversi verbi: “nascere” (greco biblico: genna-ô), “divenire” o “avvenire” (greco biblico: ginomai) e “conoscere” (greco biblico: ginôscô). In italiano, esiste anche una parentela sonora fra “nascere” e “conoscere”. Nella sua risposta, Gesù introduce nuove tematiche tutte centrate, però, sul “credere”. Il verbo è usato anch’esso sette volte nel capoverso. Il passaggio è preparato dall’uso dei verbi “conoscere” e “sapere” in 3,10-11:

“Tu sei maestro in Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto, ma voi non accogliete la nostra testimonianza.”

In poche parole, Gesù insiste sul fatto che Nicodemo sia “ignorante” di molte cose essenziali. Egli aveva iniziato l’incontro con uno strepitoso “sappiamo” e deve riconoscere che, al contrario, rimane all’oscuro di alcune verità essenziali sull’esistenza umana sebbene sia un “maestro” in Israele. Gesù, invece, può affermare di “sapere” perché viene da Dio e può testimoniare di quanto ha visto. Da lì il passaggio al “credere”, vale a dire fidarsi di chi parla con cognizione di causa. Chi non sa non può che fidarsi di chi sa e “credere” quando dà la sua testimonianza.
Il terzo capoverso è più lungo, tuttavia, e si sviluppa su diverse linee di pensiero. Prima, Gesù spiega perché può essere “credibile” (3,10-15): lui può parlare di realtà celesti perché è “disceso dal cielo” (3,13). La prova è che ritornerà in cielo (sarà “innalzato”) al momento della sua morte e risurrezione, prefigurata nell’episodio del serpente di bronzo (3,14; cf. Numeri 21,4-9), un passo difficile sul quale torneremo più tardi.
In secondo luogo, Gesù aggiunge che la sua morte e risurrezione apre la via della vita eterna a chiunque crede in lui. Egli, che è disceso dal cielo, ci mostrerà la via per giungere alla vita eterna (3,15). È proprio lo scopo della sua “discesa” dal cielo: Dio ha mandato suo figlio per salvare, non per condannare (3,15-21). Il discorso, a partire da questo momento, verte in gran parte sul “giudizio”. Il verbo “giudicare” appare tre volte e la parola “giudizio” una volta in 3,17-19. Perché parlare di “giudizio”? In realtà, dobbiamo ricordarci che la speranza nella venuta di un messia era, per molti, legata alla speranza di un giudizio definitivo, una specie di grande pulizia nella quale i giusti sarebbero salvati e gli iniqui finalmente condannati e castigati. Sono le immagini usate, ad esempio, da Giovanni Battista nella sua predicazione: “La scure sta già sulla radice degli alberi; perciò ogni albero che non porta buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10) o “[il messia annunziato] ha nella mano il ventilabro per mondare la sua aia; raccoglierà il suo frumento nel granaio e brucerà la pula con fuoco inestinguibile” (Mt 3,12). Sono immagini di una distinzione definitiva fra due gruppi, i giusti e gli iniqui. Il verbo “giudicare” ha proprio questo significato nel vangelo: si fa una separazione, una distinzione fra buoni e cattivi, fra innocenti e colpevoli. Il discorso di Gesù è diverso da quello di Giovanni Battista, come sappiamo (si parlerà di Giovanni Battista proprio alla fine del nostro capitolo, in Gv 3,22-36). Il giudizio avrà luogo, però non nel mondo aspettato.
Lo scopo della missione di Gesù, in effetti, non è di giudicare e di condannare, bensì innanzitutto di salvare: “Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (3,16-17). Vi sarà, però, un giudizio ed è ciò che è esplicitato in 3,18-21. Il criterio (parola che contiene la radice greca del verbo “giudicare”) del giudizio è proprio la fede. La salvezza viene dalla fede in colui che merita questa fede perché viene da Dio, viene dal cielo. La condanna viene dalla mancanza di fede: chi non crede si condanna da se stesso.

La missione di Gesù

In quest’ultima parte del discorso su fede, giudizio e vita eterna, ci imbattiamo in un tema caro al quarto vangelo, quello della luce e delle tenebre (3,19-21). In tre versetti la parola “luce” appare cinque volte e la parola “tenebre” una volta. “Luce” è sinonimo di “bene” e di salvezza, “tenebre” è sinonimo di “male” e di condanna. Anche su questo tema torneremo più tardi.
In riassunto, il discorso di Gesù a Nicodemo prova a dimostrare una verità essenziale: Gesù di Nazaret è stato mandato da Dio per salvare l’umanità, non per condannarla. Chiunque accetta il messaggio di Gesù di Nazaret e crede in lui sarà salvato. Chi non crede si esclude sé stesso dalla salvezza e si condanna. Per arrivare a questa verità sulla salvezza e giungere alla vita eterna, vi è una sola via: seguire Gesù Cristo e “rinascere” dallo spirito, nella sua morte e risurrezione. Tutto ciò non è il frutto di un “sapere”, è invece il frutto di un processo di ringiovanimento, di un nuovo inizio, di una nuova nascita in un mondo diverso, non quello della “carne”, bensì quello dello spirito.
In due parole, il racconto oppone due tipi di sapere o di sapienza. Nicodemo, come i farisei, pensa di detenere una sapienza completa e perfetta. Il mondo dei farisei (quelli descritti nel vangelo) è un mondo ove tutto è regolato: c’è una norma per ogni azione, per ogni gesto e ogni passo della giornata. Gesù propone a Nicodemo un altro tipo di sapienza e lo invita – così come i lettori del vangelo – a entrare in un processo di scoperta progressiva e costante, a iniziare un cammino di rinnovamento, a “nascere di nuovo” e a vivere una vita più avventurosa e, forse, anche più rischiosa, però più esaltante. Il vangelo propone di iniziare un viaggio, sotto la guida di uno spirito imprevedibile, verso terre sconosciute. Un viaggio, però, che permette di scoprire “la vita eterna”.

Per approfondire

“Nascere dallo spirito e dall’acqua” (Gv 3,5)

Abbiamo visto che il capitolo 3 di Giovanni è molto costruito dal punto di vista dello stile.
Una parola, tuttavia, rimane “fuori gioco”: la parola “acqua”. Essa appare solo nel v. 5 poi sparisce completamente dal resto del discorso. Come spiegare la cosa? Molti vedono nella “nascita dallo spirito e dall’acqua” un accenno abbastanza chiaro al battesimo. Possiamo ricordare, ad esempio, le parole di Giovanni Battista in Mt 3,11:

“Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”.

Il battesimo nell’acqua era conosciuto in Israele. Il battesimo nello spirito è l’innovazione proposta dal vangelo. Da lì l’insistenza sullo spirito, il “proprio” del vangelo.
Rimane però da spiegare la cosa con più precisione. In questo caso, così come in tanti altri, il contesto può fornire elementi importanti per chiarire la cosa. Lo spirito di cui parla Gesù a Nicodemo si oppone alla “carne”, la debolezza umana. Paolo, in un passo ben conosciuto, oppone lo spirito alla lettera: “la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2Corinzi 3,2). Gesù propone a Nicodemo di lasciarsi guidare dallo spirito: 

“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8).

Si tratta, in poche parole, di abbandonare la via sicura tutta tracciata dalla “lettera” della legge per inoltrarsi in un mondo nuovo tutto da scoprire, il “regno di Dio” (espressione usata da Giovanni solo due volte, in 3,3.5). Sarà forse utile, per capire meglio il messaggio del vangelo di Giovanni, riprendere le immagini del regno di Dio presenti negli altri vangeli. Giovanni Battista, come abbiamo visto, parla dell’avvenimento del regno dei cieli come di un giudizio finale. Fra le immagini che usa, troviamo quella della trebbiatura:

[“Il messia è vicino] tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,12).

Stiamo quindi alla fine di un processo: la mietitura e la trebbiatura sono finite, si tratta ora di separare il buon grano dalla pula. Le immagini usate da Gesù sono ben diverse.
Nella parabola del seminatore, la prima parabola del regno e la più significativa, stiamo all’inizio, non alla fine del processo: “Ecco, il seminatore uscì a seminare” (Mt 13,3). Tutto deve ancora germogliare, crescere, maturare, tutto è ancora da venire, da costruire, da creare, da inventare, seguendo lo spirito del vangelo. Semina e nascita hanno in comune di essere l’inizio di un processo. Per tornare al nostro brano, Nicodemo sarà sensibile all’invito di Gesù perché prenderà la sua difesa in Giovanni 7 e soprattutto sarà presente al momento della sepoltura di Gesù.

Chi è sceso dal cielo?

Per giustificare la sua pretesa a proporre una sapienza diversa da quella dei farisei, Gesù afferma di essere disceso dal cielo. Il prologo di Giovanni aveva affermato, in anticipo, che il Verbo fatto carne era da tutta l’eternità presso Dio, e che aveva partecipato attivamente alla creazione dell’universo (Gv 1,1-3). Tutto ciò lo sa il lettore, Nicodemo invece no.
Alcuni testi dell’Antico Testamento permettono di aggiungere qualche ragguaglio a quanto detto finora. Il primo testo proviene dal libro dei Proverbi 30,4:

Chi è salito al cielo e ne è disceso? Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le acque nel mantello? Chi ha fissato tutte le estremità della terra? Qual è il suo nome? Qual è il nome di suo figlio? Lo sai?

Notiamo che diversi termini presenti in Giovanni 3 appaiono in questo testo: salire al cielo e discendere dal cielo, il vento, l’acqua, il figlio. La risposta a tutte le domande retoriche del brano è, tuttavia, “no”. Nessuno è salito in cielo, nessuno è disceso dal cielo, nessuno ha raccolto il vento nelle sue mani o l’acqua nel suo mantello, ha fissato le frontiere dell’universo.
Solo Dio riesce a compiere tali opere. Il testo dei Proverbi insiste sulla distanza incolmabile che separa l’umanità da Dio. Per il vangelo di Giovanni, tuttavia, il figlio di Dio colma questa distanza. Quello che è impossibile per l’umanità è possibile per il figlio di Dio la cui vera natura è manifestata dalla sua risurrezione. Nel vangelo di Giovanni, in effetti, tutto è scritto alla luce dell’evento finale, la risurrezione e la luce del risorto risplende già nella sua vita terrena, il che non rende la lettura del quarto vangelo molto facile. Sarà forse anche utile leggere un breve testo mutuato dal libro del Deuteronomio 30,11-14 per comprendere meglio il contrasto fra la mentalità dei farisei e quella del vangelo.

Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.

Secondo il testo del Deuteronomio, citato per altro da Paolo in Rom 10,6-8, l’ideale proposto al popolo d’Israele è semplice, “a portata di mano”, e non si tratta di un’impresa infattibile.
Così come dice il Salmo 131,1: “Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano in alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me”. Il testo incita ad accontentarsi di un ideale modesto e a non “far castelli in aria” o a lanciarsi in vane speculazioni su misteri che sfuggono alla nostra intelligenza. Come dice un altro versetto del Deuteronomio che riassume bene l’ideale del pio ebreo: “Le cose occulte appartengono al Signore, nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, per sempre, affinché pratichiamo tutte le parole di questa legge” (Dt 29,28). Occupiamoci di osservare la legge e non di cose arcane. È probabilmente l’ideale di Nicodemo e dei farisei del suo tempo. Il Gesù del vangelo propone piuttosto la novità e il cambiamento, non vuol rassegnarsi e accontentarsi della solita “aurea mediocritas”. Riaccende la speranza in un mondo migliore e più soddisfacente, e invita a partecipare alla sua costruzione.

Il serpente di bronzo

“E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così deve essere innalzato il Figlio dell’uomo, 15 affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15). È forse uno dei testi più enigmatici del vangelo di Giovanni. Allude a un episodio della permanenza d’Israele nel deserto, altrettanto oscuro: Numeri 21,4-9

Tolsero le tende dal monte Or, dirigendosi verso il Mar Rosso, per aggirare la terra di Edom: e l’animo del popolo si rattristò nel cammino. Il popolo parlò contro Dio e contro Mosè: «Perché ci hai fatti uscire dall’Egitto per morire nel deserto? Qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di un cibo così inconsistente». Il Signore allora inviò al popolo i serpenti che bruciano: morsero il popolo e molta gente d’Israele morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro te. Intercedi presso il Signore e allontana da noi il serpente». Mosè intercedette per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta: chiunque sarà morso e lo guarderà, vivrà». Mosè fece un serpente di bronzo e lo mise su un’asta; se un serpente mordeva un uomo e costui guardava il serpente di bronzo, viveva.

Non si può escludere che vi siano tracce di un certo tipo di magia in questo racconto. Secondo le credenze degli antichi, chi può uccidere ha anche il potere di far vivere (“magia simpatica”). Il serpente che uccide è anche l’animale che può fornire il mezzo di curare il male che ha provocato. Da lì l’idea di fabbricare un serpente di bronzo, di appenderlo su un’asta, e di guardarlo.
Il vangelo riprende dal racconto di Numeri 21 due elementi essenziali. Primo, il serpente è “elevato” o “innalzato” e Gesù, allo stesso modo, sarà elevato sulla croce. Secondo, chi guarda il serpente di bronzo è guarito e, in un modo simile, chi vede e crede nella potenza salvifica di Gesù crocefisso e risorto sarà salvato.
Possiamo forse approfondire il parallelo fra i due testi su un punto. Il racconto di Numeri dice esplicitamente che, per essere guarito, occorre “guardare” il serpente (Nm 21,8-9). Nel racconto della passione di Gesù Cristo, in Gv 19,35-37, il quarto vangelo introduce elementi non presenti negli altri vangeli, in questo caso, la presenza di un testimone oculare che fonda la verità del vangelo:

“Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”.

La seconda citazione proviene dal profeta Zaccaria che parla di un episodio piuttosto oscuro e aggiunge: “guarderanno a me, colui che hanno trafitto”. Dio si identifica con il suo inviato misterioso, e ucciso in circostanze assai oscure. In ogni modo, per il vangelo di Giovanni, la profezia si applica a Gesù crocefisso che occorre “guardare”. Non dimentichiamo che, secondo gli altri vangeli, tutti i discepoli sono fuggiti dopo l’arresto di Gesù e nessuno era presente alla croce, tranne che alcune donne. Nel quarto vangelo, invece, è presente anche “il discepolo che Gesù amava”, il prototipo di ogni discepolo. La morte in croce non deve spaventare, al contrario, essa è proprio la sorgente della salvezza. In altri termini, la morte non è più da temere. Si può ormai guardarla “in faccia” dopo aver contemplato Cristo “innalzato”, “esaltato” e “glorificato” sulla croce.
Riassumendo, il parallelismo fra il racconto di Numeri e la crocifissione di Gesù invita a invertire i segni. Il serpente, animale pericoloso quando è velenoso, è quindi simbolo negativo. È anche, però, per chi sa guardarlo sorgente di guarigione. In effetti, il serpente su un bastone (l’asta), vale a dire il caduceo, è simbolo della medicina e delle farmacie. Il serpente sull’asta così come il serpente del caduceo è un serpente che ha une funzione specifica, è “orientato” in una direzione ben precisa: quella di curare. È quindi possibile utilizzare il serpente e le sue forze misteriose per scopi positivi. La medicina moderna ha confermato l’intuizione degli antichi.
La croce, dal canto suo, è un simbolo negativo perché era il supplizio riservato agli schiavi colpevoli e ai condannati di diritto comune. Nell’Impero Romano, era la pena più ignominiosa e avvilente. Il racconto della passione e della morte di Gesù in croce inverte il segno negativo della croce perché è la fonte della salvezza per l’umanità: sulla croce muore un’innocente che accetta la morte per salvare i suoi.

Fare la verità e venire alla luce

Nicodemo viene a Gesù “di notte” (Gv 3,2), probabilmente per non essere visto dai suoi correligionari, quantunque niente sia detto in merito nel brano. Nell’ultima parte della conversazione, il brano torna forse su questo tema quando parla di “fare la verità per venire alla luce” (Gv 3,21). Nicodemo, alla fine della conversazione, è uscita dalla notte per vedere la luce del giorno? Non lo sappiamo, ma possiamo pensarci. Il lettore, per conto suo, è invitato a trovare la luce della verità in questa pagina.
Che cosa può significare “fare la verità”? Se rileggiamo il passo nel suo contesto, il primo significato potrebbe essere assai semplice: la luce che viene nel mondo (Gv 3,19), secondo il prologo (Gv 1,9-12) è il Verbo fatto carne. Chi non vuol ricevere la luce è chi non vuole ascoltare il messaggio del vangelo. Chi “fa la verità” e viene alla luce è chiunque si comporta come Nicodemo e cerca di ascoltare e di capire il messaggio di Gesù.
Se riprendiamo le espressioni degli ultimi versetti, si nota che il brano oppone “luce” e “tenebre”, “fare il male” e “fare la verità”. Chi fa il male odia la luce, chi fa la verità viene alla luce (Gv 3,20). Gli uomini preferiscono le tenebre alla luce perché le loro opere sono malvagie (Gv 3,19). Il vangelo, però, non definisce con più precisione che cosa sono le opere buone e le opere malvagie. Un testo del libro di Giobbe 24,13-17 fornisce qualche dettaglio in più che può aiutarci a interpretare il passo giovanneo:

Vi sono di quelli che avversano la luce, non conoscono le sue vie né dimorano nei suoi sentieri.
Quando non c’è luce si alza l’omicida per uccidere il misero e il povero; nella notte va in giro come un ladro. L’occhio dell’adultero attende il buio e pensa: “Nessun occhio mi osserva!”, e si pone un velo sul volto. Nelle tenebre forzano le case, mentre di giorno se ne stanno nascosti: non vogliono saperne della luce; infatti per loro l’alba è come spettro di morte, poiché sono abituati ai terrori del buio fondo.

I malfattori, secondo il testo di Giobbe, preferiscono agire di notte e spariscono quando arriva la luce. Il vangelo di Giovanni, tuttavia, allude forse a questo tipo di azioni malvagie, però il resto del vangelo suggerisce piuttosto che si tratti del rifiuto di uscire da una mentalità chiusa, sicura di sé stessa, soddisfatta di sé stessa, che rifiuta ogni innovazione e ogni cambiamento.
“Fare la verità”, invece, significa essere pronto a cercare la verità, a rimettersi in questione, interrogarsi e rimanere aperto ad ogni nuovo barlume di luce.

2. Per meditare e attualizzare

“Nascere di nuovo”, “nascere dallo Spirito”

Quali sono le condizioni per “rinascere”? Quali sono i principali ostacoli a una vera rinascita? Siamo anche noi nella “notte” come Nicodemo? “Sappiamo” anche noi come Nicodemo e abbiamo qualche difficoltà ad aprirci alla novità e al futuro? Qual è il nostro atteggiamento di fronte alle innovazioni?
“Lo Spirito soffia dove vuole e nessuno sa da dove viene né dove va”. Da quali segni possiamo riconoscere lo spirito del vangelo? Come distinguere un vero cambiamento e un vero rinnovamento da un “cambiamento di moda”?
Come lasciarsi guidare dallo Spirito?

“Dio infatti non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17)

Il nostro sguardo sul mondo di oggi e sul nostro paese è uno sguardo che condanna o che cerca di salvare? Come giudicare degli eventi contemporanei con lo sguardo del vangelo? La nostra religione ci incita a condannare o a cercare di rimediare? Qual è l’atteggiamento delle nostre comunità cristiane e delle nostre chiese di fronte al mondo di oggi? Quale sarebbe la reazione “cristiana” davanti agli eventi di oggi?

Il serpente di bronzo e la crocifissione

Come capire la sofferenza e la morte alla luce di quanto dice Gesù a Nicodemo? Come affrontare la sofferenza propria e quella altrui? Quale senso possiamo dare alle esperienze negative e spesso incomprensibili della vita? È davvero possibile, alla luce del vangelo, dare un senso positivo alle esperienze negative?

La luce, la verità e le tenebre

Che cosa può significare, oggi, “fare la verità”? Viviamo in un mondo chiuso e soddisfatto di sé o siamo aperti a nuove opinioni, nuovi punti di vista, anche su problemi essenziali della vita? Siamo consapevoli che vi è ancora tanto da scoprire, anche nel mondo della fede, o siamo “maestri in Israele”, convinti di “possedere le chiavi del regno”? Quali sono i campi ove c’è ancora da “fare la verità”? Quali sono le opere malvagie che siamo tentati di compiere nelle tenebre per non venire alla luce o che ci impediscono di venire alla luce?

Le sette meditazioni proposte da padre Jean Louis Ska:
  1. Le nozze di Cana: chi è lo sposo?
  2. Una abbagliante tenebra
  3. Gesù e la Samaritana
  4. La miseria e la misericordia
  5. Il cieco nato
  6. L’entrata di Gesù a Gerusalemme
  7. L’apparizione a Maria di Magdala
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