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Lisa Cremaschi Il perdono ricevuto e condiviso

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Il perdono ricevuto e condiviso
di LISA CREMASCHI monaca di Bose

DOMENICA 11 MARZO 2018
Milano, Chiesa Rossa

Ritornare sotto le mani di Dio

Come si attua il cammino di conversione? Ricorro a un’immagine che ricavo dagli scritti di Ireneo di Lione.
Dice Ireneo che quando Dio crea l’uomo, lo crea con le sue due sante mani, il Verbo e lo Spirito. Padre, Figlio e Spirito santo cooperano nel creare l’uomo a immagine della santa Trinità. Ma Adamo sfugge dalle mani di Dio prima che egli abbia potuto completare la sua opera. É questo per Ireneo il peccato di Adamo, il peccato di ogni uomo, di ciascuno di noi: siamo sfuggiti alle mani di Dio e ce ne andiamo per le nostre strade. Che cos’è la conversione? É il cammino inverso, è ritornare sotto le mani di Dio perché sia lui a plasmarci, a portare a compimento l’opera iniziata in noi, a portare a pienezza quell’immagine che è in ciascuno di noi. Dio è come un artista al lavoro, vuol fare di noi un’opera d’arte, ma c’è sempre qualcosa da correggere, da aggiungere, da consolidare, da togliere. Cosa facciamo quando leggiamo un passo dell’evangelo, quando andiamo in chiesa a pregare, ad ascoltare la messa? Ci mettiamo sotto le mani di Dio presenti nella sua Parola, lasciamo che le mani di Dio ci lavorino, ci richiamino, ci correggano, ci sostengano. A volte questo lavoro provoca sofferenza: le mani di Dio limano tutto ciò che è superfluo, che disturba la bellezza dell’opera d’arte. A volte questo lavoro desta gioia e consolazione, perché le mani di Dio consolidano, rafforzano, consolano.

“Non conosciamo Dio solo a metà”. Che cosa non è la misericordia.

Ci fermiamo ora su un breve testo di Basilio (330 ca-379), monaco e vescovo di Cesarea in Cappadocia. Testo sconcertante, severo, rigoroso questo breve scritto di Basilio. Eppure volutamente severo, volutamente provocatorio. Non vuole esporre una dottrina, non ha intenti didattici, intende piuttosto provocare, destare dal sonno una chiesa sonnolenta, che come vergine stolta si è addormentata e non ha provveduto all’olio per la sua lampada (cf. Mt 25,1-13).
Il titolo dato da Basilio a questo testo - Lettera sulla concordia - è stato sostituito dalla tradizione successiva che l’ha voluto chiamare Il giudizio di Dio o ancora Prologo sul giudizio di Dio . Ogni incontro è giudizio. La relazione con l’altro implica sempre un giudizio, un discernimento attraverso il quale si approva o si rifiuta ciò che l’altro propone. Anche Dio, entrando in relazione con gli uomini, discerne ciò che è secondo il suo disegno di amore e ciò che non lo è; il suo amore opera in noi un giudizio tra ciò che è in vista della vita e della comunione con lui e ciò che genera odio, divisione, morte. Già oggi in ogni nostro incontro con il Signore nell’ascolto della Parola e dell’Eucaristia veniamo giudicati. Dichiara la Lettera agli ebrei: “Infatti la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12-13). Tuttavia, oggi, nella nostra storia, non vediamo il compiersi di questo giudizio. C’è ancora del tempo, ci è dato ancora del tempo prima dell’incontro ultimo con il Signore, tempo per la conversione, tempo per il ritorno. Tacere sul tema di giudizio, come avviene talora nella chiesa, significa tacere sull’esigenza della conversione. Lo scritto di Basilio si traduce in un accorato, pressante appello alla sua chiesa perché non si lasci travolgere dalla mondanità e perseveri fedelmente nell’attesa del ritorno del Signore.
In quali circostanze fu redatto questo testo? Nel passo autobiografico che apre questa Lettera sulla concordia accenna a un momento di crisi, di turbamento dinanzi alla constatazione della divisione che regnava nella chiesa di Dio. Dice:
“Vedevo che quelli che la presiedevano si trovavano in tale diversità di giudizio e di opinione, si opponevano a tal punto ai comandamenti del Signore Gesù Cristo, laceravano senza misericordia la chiesa di Dio, turbavano senza pietà il suo gregge ... In un primo tempo mi trovavo in una profonda tenebra e, come fossi su una bilancia, oscillavo ora da una parte ora dall’altra, poiché uno mi traeva a sé per la sua lunga esperienza degli uomini, e poi di nuovo ero spinto in senso contrario a motivo della verità che avevo riconosciuto nelle divine Scritture. Soffrii a lungo per tale situazione e, come ho detto, ne ricercavo la causa” (Lettera sulla concordia 1-2).
Vi è forse qui un riferimento a un episodio che segnò profondamente il giovane Basilio. Nel 360 questi partecipò, al seguito del vescovo di Cesarea, Dianio, al concilio di Costantinopoli, sul quale siamo purtroppo poco informati; tale concilio si concluse con la sottoscrizione di una formula semiariana da parte dei vescovi, che si piegarono alla volontà dell’imperatore. Basilio, turbato da questo evento, rientrò nel Ponto, nella solitudine di Annisoi, e qui si dedicò a un’assidua meditazione delle Scritture . A una chiesa in cui ciascun credente rivendica “pensieri e regole proprie” (Ibid. 2) viene ricordato il primato assoluto della Scrittura, regola di vita donata dal Signore. La divisione che lacera dolorosamente la chiesa -- si pensi alla controversia ariana, ma non soltanto a quella! – nasce dal non ascolto della parola del Signore. Basilio fu uomo di grande comunione; cercò la comunione con il suo vescovo, nonostante i dissensi e i contrasti che segnarono il loro rapporto; cercò la comunione con le chiese dell’Asia minore, cercò la comunione con le chiese di Occidente. La concordia, il “buon ordine”, per usare un’altra espressione a lui cara, nascono dall’obbedienza alla volontà di Dio; l’unanimità tra i cristiani nasce dall’avere nell’anima l’unica Parola, non dalla conformità a quelle che Basilio chiama “tradizioni umane”, che altro non sono se non usanze, abitudini mondane.
Basilio ripensa con nostalgia alla chiesa di Gerusalemme e il ricordo della comunità primitiva, da cui è in certo senso “ossessionato” , diventa appello alla chiesa tutta chiamata a realizzare “quello che è detto negli Atti: La moltitudine dei credenti era un cuore e un’anima sola (At 4,32). Nessuno cioè, imponeva la propria volontà, ma tutti insieme, nell’unico Spirito santo cercavano la volontà dell’unico Signore Gesù, che ha detto: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 6,38)” (Ibid. 4).
Occorre ritornare all’obbedienza, lasciare che la vita intera sia plasmata dalla volontà di Dio, senza esenzioni, senza compromessi. “Ci ha tratto in inganno la pessima abitudine, dunque causa di grandi mali è diventata per noi la perversa tradizione degli uomini, che ci fa evitare certi peccati mentre ne ammette altri con indifferenza” (Ibid. 7). Perché alcune cose nella chiesa di Basilio – ma pensiamo poi a tutta la storia della chiesa e alla chiesa dei nostri giorni sono considerate peccato e altre no? Qual è il criterio?
Basilio non reagisce qui contro la penitenza canonica - egli stesso redasse lettere canoniche – ma contro la mentalità che essa può generare nei cristiani. Che cosa sia male, che cosa sia peccato ce lo dice la Scrittura; ce lo ricorda la Regola morale 80,22: “Se tutto ciò che non è dalla fede è peccato (Rm 14,23), come dice l’Apostolo, ma la fede è dall’udito e l’udito poi mediante la parola di Dio (Rm 10,17), allora tutto ciò che è al di fuori della Scrittura ispirata, non essendo dalla fede è peccato” (Regole morali 80,22).
Peccato è camminare al di fuori della via di Dio, in qualunque modo questo avvenga. La preoccupazione di stabilire gradi diversi di peccato, di elencare colpe lievi e colpe gravi induce sovente a trovare un’autogiustificazione per la propria disobbedienza al Signore, a trincerarsi dietro una pericolosa pretesa di giustizia. La stessa ignoranza è colpevole e non può essere invocata a giustificazione delle nostre colpe.
Un ultimo tema rapidamente accennato nella Lettera è quello della connivenza con chi compie il male. Chi tace coprendo l’ingiustizia con il suo silenzio ne diventa complice. “Se a tal punto inesorabile è la condanna dei peccati commessi per ignoranza ed è necessario il sacrificio per la loro purificazione ... che cosa si dovrà dire di quelli che peccano coscientemente o di quelli che tacciono?” (Ibid. 5).
E ancora, c’è un giudizio “ancor più temibile per quelli che non hanno peccato, ma hanno subito l’ira per non aver mostrato zelo buono o nei confronti dei peccatori sebbene spesso non fossero consenzienti con il peccato” (Ibid. 8). C’è un silenzio colpevole! Un silenzio che diventa complicità con il male:
Nella Regola breve 4 Basilio giungerà ad affermare: “È senza misericordia chi tace e non muove rimproveri, così come è senza misericordia chi lascia il veleno dentro a chi è stato morso da un animale velenoso e non chi lo toglie” (Rb 4; Rb 232).
Ancora una volta queste parole nascono dall’esperienza vissuta. I vescovi a Costantinopoli hanno taciuto per paura, paura dell’imperatore, paura gli uni degli altri. E questo timore umano che li ha resi complici nella redazione di una professione di fede ambigua, vicina all’eresia, ha sopraffatto il timore di Dio.
Questo Basilio ha voluto proporre alla sua chiesa di cui nel corso di pochi anni sarà chiamato a essere pastore. Ma la nostra chiesa è forse così diversa da quella di Basilio?
La Scrittura ci svela il volto di Dio. Basilio denuncia una falsa conoscenza di Dio, un travisamento della misericordia, un annuncio della grazia a basso prezzo.
“Dio è buono, ma è anche giusto ... É misericordioso, ma è anche giudice. É detto: Il Signore ama la misericordia e il giudizio (Sal 32,5) ... Sappiamo su chi si riverserà la misericordia; dice infatti il Signore: Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia (Mt 5,7). Vedi in base a quale giudizio usa la misericordia? Non fa misericordia senza giudicare, né giudica senza fare misericordia, perché il Signore è misericordioso e giusto (Sal 114,5). E dunque non conosciamo Dio solo a metà, non prendiamo il suo amore per gli uomini come pretesto per l’indolenza!” (Proemio, p. 70).
Basilio insorge contro le norme accomodanti della chiesa costantiniana che ha rinnegato la purezza evangelica, si erge contro la “perversa tradizione degli uomini” che insegna a distinguere tra peccati gravi e peccati lievi, distinzione che porta a una terribile autogiustificazione. La chiesa ha sempre operato una diversificazione di peccati e, a seconda dei tempi e del contesto, ha denunciato come più o meno grave un dato comportamento. Basilio non contesta questo, lui stesso redigerà dei canoni ecclesiastici. Vuole però ricordare che il peccato non è un fatto legale, non è semplicemente trasgressione di un comando, ma è rifiuto della vita, perché rifiuto della relazione con Dio e in questo senso non è possibile distinguere tra peccato grave o lieve.
E se nel peccato, in ciò che lo domina e da cui non riesce a liberarsi, l’uomo sperimenta il baratro senza fondo del fallimento umano, quando dalle profondità dell’abisso invoca la misericordia di Dio sperimenterà che essa è già pronta, che l’ha già prevenuto e perdonato. Il tempo in cui ci è dato di vivere non è dunque tempo di disperazione, ma di riconoscimento della misericordia.
“Se si potesse enumerare la moltitudine delle misericordie di Dio e misurare la grandezza della sua compassione, a confronto della moltitudine e della grandezza dei peccati, vi sarebbe motivo di disperazione. Ma se, come è naturale, i peccati si possono misurare e contare, e non è possibile invece misurare la compassione di Dio ed enumerare le sue misericordie, allora non è tempo di disperarsi, ma piuttosto di riconoscere la misericordia e di condannare i peccati che, come sta scritto, ricevono perdono nel sangue di Cristo” (Rb 13).
In che modo si deve compiere il movimento di ritorno al Signore?
[“Bisogna assumere la disposizione d’animo di colui che ha detto: Ho odiato l’ingiustizia e l’ho detestata (Sal 118,163), e fare ciò che vien detto nel salmo sesto e in molti altri passi e quanto viene attestato dall’Apostolo di coloro che si erano rattristati secondo Dio a motivo di un altro che aveva peccato. Dice: Ecco quanta sollecitudine ha prodotto in voi il rattristarvi secondo Dio, anzi quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale punizione, quale zelo! (2Cor 7,11) e bisogna, come Zaccheo, compiere in misura abbondante l’opera buona contraria al peccato commesso” (Rb 5).
É questo un termine che ritorna spesso nei padri e in particolare in Basilio, per indicare la disposizione d’animo, quella decisione pro o contro Dio che si consuma nelle profondità del cuore dell’uomo e che poi si traduce in un atteggiamento esteriore. La conversione non inizia all’esterno, nel comportamento esteriore, ma prende avvio da una conversione degli occhi del cuore, da un vedere la realtà, l’altro, la mia persona, la mia vita alla luce dell’evangelo. La conversione è metánoia, ribaltamento del noûs, dei nostri pensieri profondi, delle profondità del cuore. La disposizione d’animo che Basilio richiede è quella di Davide nei salmi penitenziali. É la Parola che fa in noi la verità e ci conduce a prendere le distanze dal nostro peccato e a detestarlo. Per 7 volte nelle sue regole Basilio si richiama al v. 163 del Salmo 118: Ho odiato l’iniquità e ne ho avuto orrore, per illustrare quale debba essere l’atteggiamento interiore di chi desidera ritornare al Signore. La conversione è assunzione della propria colpa, senza scaricarla sugli altri e umile riconoscimento che avremmo potuto agire diversamente.
“Il tempo della penitenza è tempo di lacrime” (Rb 10), dice Basilio. Le lacrime sul proprio peccato, dicevano i padri del deserto, sono come la pioggia che consente alla terra di dare frutto. La tristezza secondo Dio non è la tristezza dell’orgoglio ferito che non perdona a se stesso la propria miseria, i propri limiti, ma il pianto salutare sul proprio peccato che nasce dalla contemplazione dell’amore del padre che perdona e attende il ritorno del figlio prodigo. E chi ha gustato “la dolcezza di tale afflizione” - così Basilio definisce la compunzione con una formula che diverrà tradizionale nella spiritualità cristiana - ha cura di custodirla, essa non si esaurisce in un atto, diventa disposizione del cuore, uno stato interiore dell’anima, è coscienza della propria piccolezza, che non si traduce in narcisistica contemplazione dei propri abissi di peccato, ma si apre al rendimento di grazie e alla lode incessante. É in sostanza, il dispiacere di non avere amato abbastanza. Chi si pente abbia piena certezza “di ricevere purificazione dai peccati grazie al sangue di Cristo per la grandezza della compassione e l’abbondanza della misericordia di Dio, che ha detto: Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, li renderò bianchi come neve. Se fossero come porpora, li renderò bianchi come lana (Is 1,18). Allora, avendo ricevuto la possibilità e la forza di piacere a Dio, può dire: Alla sera sarà ospite il pianto e al mattino la gioia. Hai cambiato il mio lamento in gioia, hai strappato il mio sacco e mi hai cinto di allegria, perché la mia gloria canti a te (Sal 29,6.12-13)” (Rb 10).
Non è sufficiente aborrire il male, né confessare la propria colpa se tutto questo non conduce a un riorientamento delle energie vitali più profonde verso il Signore. Occorre destare nel peccatore un desiderio insaziabile dei comandamenti, la fame della volontà di Dio che pone il credente nella disposizione d’animo del bambino che riceve cibo dalla madre (Rb 166). Il cammino di conversione coinvolge l’uomo nella sua interezza, non è frutto di volontaristici sforzi di perfezione, ma opera della grazia preveniente che desta in noi “il desiderio ardente di seguire Cristo” (Rd 8).
La parola ascoltata, accolta, meditata, discende nelle profondità del cuore; i desideri, i pensieri vengono a poco a poco purificati e trasformati dall’assidua meditazione dei voleri di Dio. Come si custodisca il cuore lontano da qualunque cosa lo distragga dall’obbedienza al Signore viene illustrato nella Rd 5 dove si tratta della non-dissipazione, non-distrazione. “Dobbiamo custodire con ogni cura il nostro cuore perché non ci accada di scacciare il pensiero di Dio o di infangare con fantasmi di cose vane il ricordo delle sue meraviglie; dobbiamo piuttosto perseverare nel santo pensiero di Dio mediante un ricordo incessante e puro, impresso nelle nostre anime come sigillo indelebile” (Rd 5). Allora il discepolo del Signore diventa memoria vivente della misericordia di Dio.]

Giovanni Crisostomo

Giovanni Crisostomo, cioè Boccadoro, pastore prima nella chiesa di Antiochia e poi a Costantinopoli. La sua predicazione fedele al vangelo, la sua lotta contro l’ipocrisia e i soprusi, la sua denuncia delle ingiuste ricchezze e la misericordiosa accoglienza riservata ai monaci egiziani perseguitati in patria gli valsero l’inimicizia dei potenti e l’ostilità del patriarca di Alessandria Teofilo. Crisostomo, deposto ed esiliato morì nel 407, in seguito alle sofferenze patite. È un uomo che ha molto patito, ma è un uomo di fede che sempre saputo dire: “Gloria a Dio in ogni cosa: non smetterò di ripetertelo – scrive a Olimpia – sempre, dinanzi a tutto quello che mi accade” (Lettere a Olimpia 4). Di Crisostomo vorrei leggervi un breve passo tratto dall’Omelia terza sulla penitenza (3,4): “Se ti capita di cadere in piazza, ogni volta ti rialzi; allo stesso modo, ogni volta che pecchi, fa’ penitenza per il tuo peccato. Anche se pecchi una seconda volta, non disperare, ma pentiti di nuovo, non perdere per negligenza la speranza dei beni promessi … La chiesa non è un tribunale, ma un luogo di cura; qui non ti si chiede conto dei peccati, ma ti si dà il perdono. Ma solo manifesta a Dio il tuo peccato: Contro te solo ho peccato, ciò che è male davanti a te l’ho fatto (Sal 50,6), e ti sarà perdonato il tuo peccato”.
“Anche l’anima ha il suo specchio, uno specchio spirituale, ben più luminoso e utile di quello materiale. Esso non rivela soltanto la nostra deformità, ma può cambiarla, se lo vogliamo, in straordinaria bellezza. Questo specchio sono le vite dei santi, la lettura delle sante Scritture ... Se voi voleste guardare le figure di questi santi uomini, riconoscereste subito la bruttezza della vostra anima e una volta riconosciuta, di null’altro avreste desiderio se non di liberarvi da essa” (Discorso 4,8).
Come riconoscersi peccatori se non c’è un’assiduità con la parola di Dio? Quale coscienza del peccato può esistere se non conosciamo l’amore del Padre?

I modi della penitenza

Per quali vie si chiede perdono al Signore e ai fratelli? Anzitutto si distingue tra peccati gravi che esigono una penitenza pubblica, e gli altri peccati. Quali sono i peccati gravi? Sembra che vi fosse la triade omicidio, adulterio, eresia in Ireneo e in Clemente Alessandrino. Più tardi: apostasia, idolatria, bestemmia, lussuria, adulterio, omicidio, falsa testimonianza, frode, menzogna, eccessivo attaccamento alle ricchezze.
La Didascalia, costituzione ecclesiastica dei primi decenni del III secolo, insegna chiaramente che nessun peccato, neppure quelli di eresia, omicidio e adulterio è escluso dal perdono. Perciò esorta il vescovo: “Tu, o vescovo, giudica con severità come Dio onnipotente, ma ricevi con carità i peccatori che sentono rimorso, come Dio onnipotente. Ammonisci, esorta, insegna, perché il Signore Dio ha giurato solennemente che concederà il perdono ai peccatori, come ha detto per mezzo di Ezechiele (cita Ez 33,10-11: non voglio la morte del peccatore). Il Signore ha dunque dato ai peccatori, se si convertono, la speranza che la redenzione verrà loro applicata per il loro pentimento affinché non cadano nella disperazione e non rimangano nel loro peccato né ne aggiungano altri, invece si pentano, piangano, gemano sui loro peccati e si convertano sinceramente” (II,23).
Origene: per i peccati compiuti dopo il battesimo vengono offerti sei mezzi di salvezza: la preghiera, il martirio, l’elemosina, il perdono ai fratelli, la conversione di un fratello, una piena carità. Per i peccati gravi “la dura e faticosa penitenza; quando il peccatore lava le sue colpe nelle lacrime, al punto che queste diventano il suo nutrimento di giorno e di notte, ed egli non si vergogna di affidare il suo peccato al presbitero e domandargliene il rimedio” (Sul Levitico om. 2,4). Dovere dei pastori è quello di ricondurre il peccatore: “Tu sei pastore: tu vedi che le povere pecore del Signore, ignoranti il pericolo, vanno nel precipizio. E tu non corri? Non le chiami? Non le fermi con la tua voce e non le freni con la tua correzione? Così tu dimentichi il mistero divino, e come il Salvatore, lasciate le novantanove pecore al sicuro, nel cielo, è venuto sulla terra e corre in cerca della pecora perduta, e dopo averla trovata la porta sulle sue spalle fino al cielo? Ma noi imitiamo l’esempio del buon pastore prendendoci cura delle nostre pecore? Non si tratta qui di far ritornare sulla retta via un uomo colpevole di peccato lieve; ma se un peccatore, dopo essersi convertito e corretto dal suo male una, due o tre volte, non migliora, noi dobbiamo usare tutti i rimedi come fa un medico. Se l’abbiamo unto con olio, se l’abbiamo fasciato con bende, se lo abbiamo spalmato con pomata e ciononostante la durezza del suo male non cede davanti a questi rimedi, dobbiamo intervenire tagliando” (Su Giosuè om. 7,7). La cosa importante da sottolineare è che c’è un cammino di conversione tra peccato e assoluzione; nessun automatismo: confessione del peccato-assoluzione. E la comunità sarà coinvolta se il peccato è pubblico.
Vi sono comunque sempre nella chiesa due tendenze: rigore e misericordia.
Con Cipriano si pone la questione dei lapsi (= caduti, cioè di quelli che per paura avevano rinnegato la fede). Questi volevano rientrare nella chiesa senza compiere alcuna penitenza. Cipriano si rifiuta, sottolinea l’importanza di un cammino di riconciliazione, si ribella alla banalizzazione della penitenza. Distingue tre tappe: la richiesta della penitenza, la confessione, la riconciliazione mediante l’imposizione delle mani da parte del vescovo. La confessione non era pubblica, lo erano solo le opere penitenziali. A proposito di chi non vuole concedere il perdono a chi per paura ha rinnegato la fede in tempo di persecuzione Cipriano scrive: “Quale orgogliosa presunzione, quale mancanza di umiltà e di bontà, quale insolenza nella propria arroganza! Essi osano pensare di poter mettere in atto iniziative che il Signore non ha concesso neppure agli apostoli. Si sentono autorizzati a separare la zizzania dal frumento. Novaziano [non voleva concedere il perdono a chi aveva rinnegato la fede e poi chiedeva di essere riammesso nella comunità cristiana] si comporta come se avesse avuto l’incarico di prendere il vaglio e di pulire l’aia per separare la paglia dal frumento” (Lettera 55,25). In un’altra lettera: “Nel giorno del giudizio ci sarà per noi l’imputazione di non aver curato una persona ferita e di averne perse molte sane per quella sola. Il Signore è andato in cerca di una sola pecora che si era perduta e si era stancata lasciando le novantanove sane” (Lettera 60). Novaziano, dice ancora, non ha conosciuto la bontà di Dio “la bontà della sapienza del Signore non ha potuto renderlo mite” (Lettera 60). Per Cipriano ogni peccato è apostasia. La persecuzione di Decio ha reso manifesta un’apostasia che già era stata consumata. “Molti sono stati vinti ancor prima di combattere, sono stati abbattuti senza neppure giungere allo scontro e senza preoccuparsi di salvare le apparenze ... Di loro iniziativa si affrettarono alla morte spirituale come se da tempo la desiderassero o cogliessero quell’occasione che avevano tanto atteso (Sui caduti 8). L’apostasia sotto Decio è solo la conseguenza, il frutto di un male profondamente radicato. Di fronte al peccato non serve condannare, occorre l’atteggiamento del medico che cerca le cause e le cura e spesso il peccato ha origini lontane nel tempo. Vede nel venir meno del vigore della fede la causa dell’apostasia. Si è lasciato che la fede si intiepidisse. Primo compito del pastore è fare la verità perché niente è peggio di una pace falsa, di una falsa riconciliazione. Dice il Salmo 36: “Il peccato è suggestione che seduce nel cuore del malvagio perché non c’è il timore di Dio davanti ai suoi occhi, guarda a se stesso con occhio adulatore, non vede né odia la sua colpa … Ha perduto ogni senso del bene”. Scrive Cipriano: “Non lasciatevi persuadere dall’imprudenza e dallo sbaglio di alcuni, né dalla loro vana stupidità ... Costoro sono stati colpiti dalla cecità dell’animo a tal punto da non comprendere d’avere peccato e da non provarne dolore. Questo è un castigo peggiore dell’ira di Dio, come è stato scritto: Dio ha infuso in loro uno spirito di torpore (Is 29,10)” (Sui caduti 33). Il peccato più grave è l’insensibilità di fronte al peccato, è quello di chi si scusa o, peggio ancora, pensa di non aver fatto niente di male. E c’è chi aiuta in questo offrendo una riconciliazione a basso prezzo, una riconciliazione senza conversione. Alcuni per stupidità, per eccesso di indulgenza, per guadagnarsi il favore altrui riammettono subito i “caduti” nella chiesa senza far opera di discernimento e senza predicare la necessità della conversione. “Carissimi, è sorta una nuova strage. Come se la tempesta della persecuzione non avesse colpito abbastanza, una nuova calamità, pur nascosta, si è aggiunta al cumulo dei mali precedenti: essa si nasconde sotto il manto della misericordia. É una rovina che si riveste di bontà. Alcuni temerari svendono la comunione con la chiesa a gente non preparata e questo avviene contro la forza dell’evangelo e contro la legge del Signore e di Dio. Concedono una pace falsa e poco seria, pericolosa per chi la dà e per nulla vantaggiosa per chi la riceve. Hanno eliminato dall’anima il pentimento. Nascondono le ferite di persone che muoiono mettendo a tacere il dolore” (Sui caduti 15). Ripete più volte il testo di Ap 2,5: “Ricordati da dove sei caduto e fa penitenza”. Il problema non è se concedere il perdono dopo l’apostasia, ma i modi e i tempi di questo perdono. Molti fedeli cominceranno a chiedere la penitenza canonica anche senza aver commesso peccati gravi. È una prassi che permane fino al VII secolo ma che spesso è condannata dai vescovi.
Nel 589 i padri della chiesa di Spagna riuniti a Toledo per un sinodo ritengono necessario porre la loro attenzione su una pratica nuova che va diffondendosi: “Abbiamo saputo che in certe chiese di Spagna i fedeli fanno penitenza dei loro peccati secondo la forma canonica, ma in modo scandaloso: ogni volta che hanno peccato chiedono di essere riconciliati dal presbitero. Per reprimere una così odiosa audacia la nostra santa assemblea ha decretato che si dia la penitenza secondo la forma canonica stabilita dai nostri padri” (c. 11). Nel 644 i vescovi francesi riuniti in sinodo si dichiarano invece unanimi nell’approvare il nuovo sistema penitenziale. Abbiamo dunque due posizioni opposte che hanno di mira la medesima pratica penitenziale. Questa pratica porta il nome di penitenza tariffata. Nasce e si sviluppa nei monasteri celti e anglosassoni, dove sembra non essersi mai praticata la penitenza canonica. Questa penitenza tariffata forma una spiritualità nuova che sopravvive ancora oggi. La penitenza antica era sotto il controllo diretto del vescovo, è solo il vescovo che ammette il peccatore nella categoria dei penitenti. Come del resto era il vescovo a impartire il battesimo e a istruire i catecumeni nell’ultima fase della loro preparazione. Era il vescovo che ogni domenica spezzava il pane della parola per i suoi fedeli. Era dunque il vescovo ad accogliere i penitenti e a riconciliarli il giovedì santo. Il cammino penitenziale era pubblico, non però la confessione delle colpe. La penitenza antica aveva dunque un carattere ecclesiale, comunitario: riti solenni per l’ammissione al rango di penitenti, posto e trattamenti speciali per i peccatori penitenti, cerimonia di riammissione nella comunità. Tutta la comunità era invitata a pregare, piangere insieme ai penitenti. L’ingresso nell’ordo paenitentium aveva conseguenze sul piano civile e sociale: interdizione di vivere una vita matrimoniale normale, proibizione di occupare posti pubblici. Quali peccati erano sottoposti a penitenza canonica? tutti i peccati gravi che separano dalla comunione con il corpo di Cristo, mentre i peccati “leggeri” sono perdonati per mezzo della preghiera personale e comunitaria, il digiuno, l’elemosina, le buone opere. Non si è però mai arrivati a una distinzione netta e universale tra peccati gravi e peccati lievi. La prassi della penitenza varia secondo le regioni.
Secondo la nuova prassi, invece, tutti i peccatori, chierici e laici, possono ottenere la riconciliazione ogni volta che hanno peccato. Il peccatore si rivolge privatamente al sacerdote e non più al vescovo. Tutto l’itinerario di conversione resta segreto; non esiste più un ordo paenitentium, né abiti speciali, né posti particolari in chiesa, né cerimonie pubbliche. Tutto avviene privatamente e ripetutamente. La celebrazione coinvolge solo il singolo e il presbitero. Inoltre, per ogni peccato era prevista una penitenza, detta tariffa, che veniva indicata in manuali ad uso dei confessori, chiamati Penitenziali. La tariffa consisteva in digiuni, preghiere dei salmi, veglie. I cataloghi dei peccati non corrispondono alle liste paoline del NT, né alle liste dei peccati mortali dei padri. Accanto alle veglie e al digiuno sono previste anche offerte in denaro da versare alla chiesa o ai monasteri, pellegrinaggi alle tombe dei santi e nei casi più gravi l’esilio temporaneo o definitivo. Tale pratica che nasce negli ambienti monastici irlandesi si diffonde in Europa e nonostante le opposizioni dura almeno fino al XII secolo.
Con la seconda metà del XII secolo scompaiono i libri penitenziali, le penitenze diventano sempre più simboliche e si comincia a dare l’assoluzione subito dopo l’accusa. Gli elementi della celebrazione penitenziale - accusa dei peccati, itinerario penitenziale, riconciliazione - vengono sintetizzati in un unico atto celebrato tra presbitero e penitente. L’accusa dei peccati diventa sempre più importante, la penitenza finisce per identificarsi con l’accusa vista come atto umiliante per cui accade che la confessione sia fatta a dei laici, a un amico, al compagno di pellegrinaggio: Poco per volta si stabilisce l’uso della confessione frequente. Più si è cristiani, più ci si confessa e più ci si confessa più si è cristiani. In questa linea va compreso il canone 21 del concilio lateranense (1215) che impone a tutti i cristiani l’obbligo di confessarsi almeno una volta all’anno.
Il concilio di Trento nel 1551 afferma che la penitenza è un sacramento vero e proprio istituito da Cristo per rimettere i peccati dopo il battesimo, che è distinto dal battesimo. Per la remissione dei peccati sono necessari tre atti: contrizione, confessione, soddisfazione. Il potere di assoluzione è dato soltanto ai presbiteri. I vescovi possono riservarsi il potere di perdonare alcuni peccati. Queste affermazioni formano l’ossatura della catechesi e della predicazione sulla penitenza fino al Vaticano II.

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Il perdono ricevuto va condiviso. Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). “L’amore non aggredisce, non tiene conto del male” (1Cor 13,5). L’amore perdona. Perdonare è qualcosa di gratuito, è un dono che noi facciamo a chi ci ha fatto del male. É un atto creativo che ci trasforma da prigionieri del passato in uomini liberi, in pace con le memorie del passato. Solo chi è libero sa perdonare, perché il perdono non è una re-azione, una risposta vincolata, predeterminata, ma è un atto nuovo, non condizionato da ciò che l’ha provocato; è spezzare la logica del taglione, il desiderio di vendetta. Il perdono è una risposta a una sofferenza che si subisce per mano di qualcun altro. Essa esige, dunque, l’onesto riconoscimento che stiamo soffrendo a motivo di un altro dal quale aspettavamo amore. “Proprio da lui! Proprio da lei!”. Ci è più difficile perdonare le persone che amiamo di più. Se patiamo ingiustizia da parte di un estraneo, la sopportiamo più facilmente. Il perdono è rivolto a coloro che non scusiamo, perché capiamo che in qualche modo sono responsabili dell’offesa che stiamo subendo. Siamo disillusi, ci attendevamo molto da alcune persone, e invece ... Ci sentiamo vittime di gesti di slealtà e di tradimento. Il perdono esige anzitutto un ritorno in se stessi, l’assunzione della coscienza della propria povertà interiore: vergogna, sentimento di rifiuto, aggressività, vendetta. Uno sguardo più lucido su di sé è una tappa obbligatoria sul difficile cammino del perdono.
Il perdono è un atto intenzionale. Dobbiamo volerlo, porre dei gesti, fare un cammino. Non è un atto, è un processo, un cammino che richiede ripetuti atti di volontà. Tante volte non abbiamo perdonato il passato, anche un lontano passato: i nostri genitori, un torto subito nell’infanzia ... Perdonare significa ricordare il passato, che non vuol dire ripetere mentalmente il passato, ma far riemergere la memoria dell’atto per convertirla. L’oblio non cancella, bensì seppellisce il ricordo indesiderato nella profondità della memoria, dov’è inaccessibile alla coscienza e produce distruzioni tanto più gravi quanto più nascoste. Dimenticare è un modo per non affrontare un ricordo fastidioso o di relegarlo nel passato. É diverso dalla rimozione, perché è deliberato. Posso distinguere tra peccato e peccatore, non ridurre l’altro al male che mi ha fatto, a quelle parole che mi ha detto. È più grande di quel singolo gesto, di quelle parole che mi ha detto. Per giungere a perdonare è essenziale continuare a credere alla dignità di colui o di colei che ha ferito, oppresso, tradito. Sul momento chi ha fatto il male sembra un essere cattivo da condannare.
Perdonare è dimenticare? Gesù non chiede di dimenticare, chiede molto di più. Ci sono ferite che non è possibile dimenticare, perché dopo anni sanguinano ancora. C’è il rischio di essere dominati dall’odio, dall’avversione, ma proprio in quest’odio per chi mi ha fatto del male gli consento di diventare signore e padrone della mia vita. Il perdono non è l’oblio del passato: è il rischio di un avvenire diverso da quello imposto dal passato o dalla memoria. È lo spezzare la legge della ripetizione. La tragedia più grande dell’essere oggetto del male è il fatto che facilmente la vittima viene trasformata in peccatore, e per questa via si accresce la spirale della violenza. Non c’è da meravigliarsi se i giudei dissero che Gesù stava bestemmiando quando perdonò i peccati. Umanamente il perdono sincero e incondizionato sembra al di là delle nostre possibilità naturali. Perdonare è cancellare l’offesa. E allora, come perdonare? Cessando di guardare a ciò che mi ha fatto l’altro per guardare a ciò che ha fatto per me l’Altro, il Signore. Cristo che abita in me può perdonare, lui che ha concluso la sua vita terrena perdonando (Lc 23,34: “Padre, perdona loro; non sanno quello che fanno”). Hanno ucciso Gesù, ma non il potere dell’amore sconfinato. Gesù non chiede il risarcimento delle offese fatte contro di lui, infrange la legge del taglione e va incontro alla morte liberamente, vivendola non come condanna, ma come dono d’amore. È iniziata una nuova via per far fronte al male. La base del rapporto non è più costituita dalle offese che ci procuriamo reciprocamente, ma dall’amore che è capace di vincere il dolore e l’amarezza delle offese. “L’amore non tiene conto del male, non si rallegra dell’ingiustizia, mette la sua gioia nella verità. Tutto copre, a tutto aderisce, spera tutto, soffre tutto”.
L’amore ci spinge a cercare di comprendere in profondità l’atteggiamento dell’altro. Forse non si rendeva conto di quello che stava dicendo; forse era arrabbiato per qualche altro motivo, forse aveva semplicemente dormito male ... o non si rendeva conto di quello che diceva. Quante volte è successo anche a te di dire cose che non avresti voluto dire, frasi che hai detto alla moglie, ai figli, frasi in cui non credevi veramente eppure le hai dette. Tante volte usiamo un doppio peso e una doppia misura: una misura con noi stessi, un’altra molto più severa ed esigente con gli altri. Ma se il perdono potesse ridursi alla comprensione, diventerebbe la semplice scusa di un errore di giudizio, la correzione di una traiettoria deviata.
A volte uno non perdona altri perché non sa perdonare a se stesso di aver permesso che l’altro lo offendesse. Perdonarsi: accettare di essere persone fragili, limitate, che sbagliano, accettare i propri errori con serenità senza rabbia contro di sé, avere comprensione e misericordia per se stessi.
L’amore non è aggressivo, non tiene conto del male ricevuto, ma sa andare oltre, sa perdonare. Vi sono due lotte: quella che annienta la passione che si ha di fronte e quella che ne spera qualcosa. La scelta della seconda lotta produce forse la verità del perdono. Già nell’AT troviamo l’invito a perdonare il nemico. Si pensi alla storia di Giuseppe. È una storia di rapporti fraterni “sbagliati”, se così si può dire. Giuseppe non è un modello di santo; provoca i fratelli con i suoi sogni in cui si vede come il più grande di tutti, davanti al quale tutti si devono piegare. È il più amato dal padre e sa sfruttare questo amore a suo vantaggio contro gli altri. E gli altri fratelli non hanno pazienza, non lo sopportano più, fino a decidere di ucciderlo. Poi interviene un fratello e li convince a venderlo come schiavo invece di ucciderlo. E Giuseppe in Egitto attraversa una serie di vicende, grazie alla sua abilità e alla sua intelligenza fa strada fino a diventare viceré dell’Egitto. Quando la carestia si abbatte sulla terra di Canaan il vecchio Giacobbe manda i suoi figli in Egitto a cercare del grano e Giuseppe riconosce i suoi fratelli. Poco dopo si farà riconoscere, svelerà: “Io sono Giuseppe, vostro fratello che voi avete venduto come schiavo in Egitto” e farà venire in Egitto tutta la sua famiglia. Ma, dopo la morte del padre, di Giacobbe, i suoi fratelli temono che ora si vendicherà di loro, di tutto il male che gli hanno fatto patire. Hanno paura, ma Giuseppe dice loro: “Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensate del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,19-20). Giuseppe non tiene conto del male ricevuto dai suoi fratelli, anzi sa trasformarlo, trasfigurare il male che ha patito da parte dei fratelli, ricavando da quella storia che è stata così dolorosa, qualcosa di buono, di positivo, sa trarre il bene anche dal male. A volte è proprio così; se viviamo tutto con bontà e pazienza scopriamo che anche da quello che è andato male, dal dolore, dalla sofferenza possiamo ricavare un insegnamento, imparare un po’ di bontà.
L’AT esorta all’amore per lo straniero, alla compassione per il nemico; in Es 23,4-5, fra le disposizioni riguardanti il dovere di rendere giustizia in modo imparziale nei processi, si trova il seguente precetto: “Se tu trovi il toro del tuo nemico o il suo asino smarrito, abbi cura di ricondurglielo. Se tu scorgi l’asino del tuo nemico soccombere sotto il suo carico, guardati bene dall’abbandonarlo; al contrario aiutalo a scaricarlo”. E Lv 19,17-18 ammonisce: “Non odiare il tuo fratello in cuor tuo ... Non vendicarti e non conservare rancore verso i figli del tuo popolo, e ama per il tuo prossimo ciò che ami in te”. La regola d’oro: “Non fare a nessuno ciò che non ti piacerebbe subire”, fa la sua comparsa per la prima volta in Tb 4,15. Verrà ripresa da rabbi Hillel, che, quando un non-ebreo gli chiese di insegnargli tutta la Legge nel lasso di tempo in cui riusciva a stare ritto su un piede solo, disse: “Ciò che risulta odioso non farlo al tuo prossimo. Questa è tutta la Torah e il resto non è che commento. Va’, imparalo”. Gesù la trasformerà in senso positivo: “Fa al tuo prossimo ciò che vorresti fosse fatto a te” e nel discorso sul monte ammonisce ad amare i nemici e a pregare per i persecutori (Mt 5,43-45; Lc 6,27-28.35). Se il cristiano, vivendo lo spirito delle beatitudini, conosce opposizioni, rifiuti, persecuzioni, d’altro non deve essere lui a entrare in conflitto con gli altri, crearsi dei nemici. È nemico di nessuno, ma ha molti nemici. Il suo amore per chi gli ha fatto del male è generato dall’amore che Dio ha avuto per lui mentre ancora gli era nemico (Rm 5.8.10). Dobbiamo amare fino alla fine, come ha amato Gesù. Rabbi Natan diceva: “Il più grande eroe è colui che trasforma il suo nemico in amico”. Tertulliano scrive: “Amare gli amici lo fanno tutti; i nemici li amano solo i cristiani” (A Scapula 1,3). Occorre uscire dalla demonizzazione dell’altro: il pagano, lo straniero, l’ebreo, l’eretico, il musulmano sono alcuni dei visi storici in cui i cristiani hanno incarnato il nemico. Nella Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ricordava “l’acquiescenza manifestata specie in alcuni secoli a metodi di intolleranza e persino di violenza nel servizio della verità”. Il vero nemico è in noi e non fuori di noi e la lotta che dobbiamo ingaggiare è quella contro l’assolutizzazione del nostro io. I padri giungono a dire che il nemico può diventare nostro maestro (Zosima, pp. 103. 124-125). Quando qualcuno ci fa del male, noi che ci credevamo tanto buoni, scopriamo di avere dentro di noi desideri di vendetta, tanta rabbia, il desiderio cattivo di farla pagare all’altro. In questo il nemico ci fa da maestro: ci fa toccare con mano che non siamo buoni, ci fa conoscere i sentimenti che abbiamo nel cuore, ci offre un’occasione per convertirci.
Perdono e riconciliazione: il perdono sempre, la riconciliazione non è sempre possibile. Quello che ci è chiesto però è di “avere buoni sentimenti” sull’altro (Mt 5,25).

TESTI SUL PERDONO
tratti da "I cristiani di fronte alla guerra", a cura di Lisa Cremaschi, Magnano 2015
(tutta la seconda parte è sul tema del perdono)

Agatone, padre del deserto (IV-V sec.)
Abba Agatone disse: “Non mi sono mai addormentato avendo qualcosa contro qualcuno, né ho lasciato, per quanto era in mio potere, che qualcuno si addormentasse avendo qualcosa contro di me”
(Detti dei padri, Serie alfabetica, Agatone 4).

Nilo, padre del deserto (IV-V sec.)
Abba Nilo disse: “Tutto quanto farai per vendicarti di un fratello che ti ha offeso, diverrà per te un inciampo al momento della preghiera” (Detti dei padri, Serie, Nilo 1).

Macario l’Egiziano, padre del deserto (IV-V sec.)
Abba Macario disse: “Se ci ricordiamo dei mali che abbiamo patito a causa degli uomini, allontaniamo da noi la capacità di ricordarci di Dio; ma se ci ricordiamo dei mali che provengono dai demoni, diventiamo invulnerabili”
(Detti dei padri, Serie alfabetica, Macario l’Egiziano 36).

Monaco del deserto egiziano (IV-V sec.)
Un anziano disse: “Chi radica nella sua anima il ricordo di una cattiveria subita, è simile a chi nasconde del fuoco in mezzo alla paglia” (Vitae patrum VI,4,25).

Achille, padre del deserto (IV-V sec.)
Uno degli anziani si recò da abba Achille e vide che versava sangue dalla bocca. Gli chiese: “Cos’è questo, padre?”. L’anziano rispose: “È la parola di un fratello che mi ha rattristato; ho lottato per non dirglielo e ho pregato Dio di toglierla da me. Allora la parola è divenuta come sangue nella mia bocca, l’ho sputata, ho trovato pace e ho dimenticato la mia tristezza”
(Detti dei padri, Serie alfabetica, Achille 4).

Poimen, padre del deserto (V sec.)
Un fratello interrogò abba Poimen dicendo: “Se vedo un fratello di cui ho udito che ha commesso una colpa, non voglio portarlo nella mia cella; se invece ne vedo uno buono, gioisco con lui”. L’anziano allora gli disse: “Se fai un po’ di bene al fratello buono, fanne il doppio all’altro, perché è quest’ultimo il debole. Vi era nel monastero un anacoreta di nome Timoteo; avendo l’igumeno avuto notizia di una tentazione che aveva assalito un fratello, interrogò Timoteo sul da farsi e questi gli consigliò di scacciare il fratello. Quando l’ebbe scacciato, la tentazione di quel fratello si posò su Timoteo, finché non fu in pericolo. Timoteo allora pianse davanti a Dio dicendo: ‘Ho peccato, perdonami!’. Gli giunse allora una voce che gli disse: ‘Timoteo, non pensare che ti abbia fatto questo per altra ragione, se non perché hai disprezzato tuo fratello nel tempo della prova’” (Detti dei padri, Serie alfabetica, Poimen 70).

Giovanni Cassiano, monaco (ca 362-435)
Il Signore nei vangeli comanda di lasciare l’offerta sull’altare e di riconciliarsi con il fratello (cf. Mt 5,23), poiché non è possibile che questa sia gradita se in noi si trovano collera e rancore. Anche l’Apostolo, quando dice di pregare incessantemente e innalzare in ogni luogo mani sante senza ira né discussioni (cf. 1Tm 2,8), ci insegna proprio questo. Non ci resta altro dunque che o non pregare mai, e in tal modo renderci colpevoli nei confronti del comandamento apostolico, oppure impegnarci a custodire ciò che ci viene comandato ma facendolo senza ira e senza rancore …
Chi odia suo fratello è detto omicida (cf. 1Gv 3,15). Lo uccide con il sentimento di odio che dimora nei suoi pensieri; gli uomini non vedono il sangue da lui versato con la spada, ma Dio, che dà a ciascuno le corone o i castighi non soltanto per le azioni, ma anche per i pensieri e i propositi, lo vede ucciso dalla mente e dal sentimento di odio
(Al vescovo Castore, pp. 282; 244).

Giacomo di Sarug, padre della chiesa (449-521)
Tu che detesti tuo fratello, tua sorella, sei stato plasmato a immagine del Figlio di Dio.
Il solo modo di rivelare il Figlio non è forse amare chi ti contraddice?

Gesù, tuo maestro, ha mutato l’acqua in vino buono (cf. Gv 2,1-11).
Come lui, opera il mutamento e imitalo.

Nel tuo cuore, va’! Muta il tuo nemico in amico:
come a Cana, tutto sarà nuovo, nuovo per te nel tuo cuore.

Tu chiami il Padre dei cieli “Padre nostro”;
mostra allora di assomigliare al Figlio unico.

Gesù, il Figlio di Dio, ha mutato l’acqua in vino,
tu cambia l’ostilità in pace e imitalo.

Quando gli davano schiaffi, ha offerto la sua guancia,
afono davanti a chi lo colpiva.
E tu per delle parole ti prepari ad agire, perdi la pace e vai in collera.

Gesù ha voluto morire per i peccatori e per questo, per essi ha sopportato
sputi sulla faccia e colpi sulla schiena.

Quanti nemici di Gesù non amavano e tuttavia il Figlio di Dio li ha amati
e, quando l’hanno inchiodato sulla croce, si è offerto per salvarli.

Tu che sei in collera e detesti tuo fratello, vieni, dimmi:
che cosa ti ha fatto? Perché ti è così difficile fare la pace con lui?

Tuo fratello è stato davvero ingiusto verso di te?
Contempla Dio: sono stati ingiusti verso di lui.
Tuo fratello ti ha davvero schiacciato?
Dio stesso è stato schiacciato e ha accettato!

Tuo fratello ti ha insultato, ti ha detto parole malvagie,
ti ha ingannato e giustamente,
ma il Figlio di Dio ha sopportato la croce
senza detestare nessuno.

Tu che sei fratello del Figlio unico, se non ami tuo fratello,
non puoi dire: “Padre nostro”.

Perdona al fratello che ti ha fatto del male.
Affrettati a fare pace con lui.
Tu ascolti l’evangelo: così ti chiede di agire l’evangelo!
Cantico dell’amore, pp. 15-16

Sii in pace con te stesso,
e il cielo e la terra saranno in pace con te.
Collezione 1,2

Anastasio Sinaita, monaco (VII secolo)
La memoria dei torti ricevuti è passione che brucia senza sosta nel cuore. E colui che è posseduto da questo male, sia quando si alza sia quando si corica, quando prega, quando è in cammino, mantiene nel suo cuore questo veleno che non ha posa e non viene mai meno. E colui che di questo peccato è schiavo non può godere della grazia di Dio, né essere degno del perdono dei suoi peccati. Dove infatti cresce la pianta del ricordo dei torti ricevuti, là non c’è nulla che giovi, non digiuno, non preghiera, non lacrime, non confessione, non supplica, non verginità, non elemosina, non altro bene. Tutto infatti è annullato dal ricordo del male che hai ricevuto dal tuo fratello. Riflettiamo attentamente anche a questo. Il Signore non ha detto: “Quando tu porti la tua offerta sull’altare e ti ricordi di avere qualche cosa contro tuo fratello”, ma: Quando ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, va’ prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi torna a portare il tuo dono (Mt 5,23-24). Se, dunque, dobbiamo prenderci cura anche della cattiveria e della malvagità del fratello, quale perdono possiamo sperare noi, che non solo non facciamo questo, ma ci ricordiamo del male che i fratelli ci hanno fatto, tenendo nascosto nel nostro cuore il perverso veleno del serpente? Sento molto spesso dire da molti: “Ohimè, come posso salvarmi? Digiunare, non ci riesco, vegliare non so, alla verginità non reggo, ritirarmi in solitudine dal mondo non lo sopporto: come potrò salvarmi?”. Come? Te lo dico io. “Perdona e ti sarà perdonato” (cf. Lc 6,37), condona e sarà condonato a te. Ecco l’unica, rapida via che porta alla salvezza” (Una liturgia non ipocrita, pp. 24-25).
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