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Antonio Gnoli intervista Alberto Maggi

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in “la Repubblica” del 1 aprile 2018

A un certo punto Alberto Maggi interrompe la conversazione: «Sono quasi le sette di sera, è ora di messa» dice sbrigativo. Penso alla singolarità di quest’uomo che la Chiesa più volte ha definito eretico. Dov’è insomma il confine tra obbedienza e pensiero proprio o altrui?
Lo osservo mentre si dirige verso lo spazio dove celebrerà la funzione. Sono nel convento di Montefano, non distante da Macerata, Alberto è un frate dell’ordine dei Servi di Maria. Come lo fu David Maria Turoldo. Ero incuriosito dal suo operato, dalla capacità di mettere assieme studio (è un eccellente biblista) e accoglienza (non facile certo, ma che lui vive come fosse un dono). Ha all’attivo diversi libri, alcuni di grande popolarità, come quello che racconta i mesi trascorsi tra la vita e la morte, nell’ospedale di Ancona ( Chi non muore si rivede, Garzanti). Alberto è un uomo semplice, diretto, senza quei fronzoli dottrinari che sovente scavano il fossato tra la Chiesa e il credente. Mi colpisce il disegno di una figura umana, appena accennata, su una parete del tinello: «È di Dario Fo. Questo sei te, mi ha detto, mentre liberi le parole».
Sono importanti le parole per un predicatore?
«Sono importanti se alle parole seguono i fatti, altrimenti non valgono nulla. Cerco di parlare con semplicità, cancellando l’alone di mistero, le insensatezze, la banalità che a volte accompagnano la celebrazione della messa».
Cosa ti dà la certezza di essere sulla strada giusta?
«Aver ricevuto qualcosa dai cuori delle persone, dai tanti che mi scrivono e con cui parlo; e aver reso questo convento un microcosmo bello: luogo di preghiera, certo. E di accoglienza degli emarginati. Ma anche centro di studi biblici aperto a tutti: atei e agnostici, cattolici e credenti di altre religioni».
Perché sei inviso alle gerarchie della Chiesa?
« Mi accusano di eresia. I miei libri e il mio insegnamento sono considerati deleteri per la gente. La Chiesa ritiene scandaloso dare la comunione ai divorziati e agli omosessuali. Ma l’eucarestia non è un premio per chi se lo è meritato, bensì un dono».
Che differenza c’è?
«La stessa che corre tra la superficie e la profondità del mare. La via più facile è limitarsi a osservare le increspature dell’acqua».
C’è una dottrina da rispettare.
«La forza persuasiva della dottrina non dipende dalla verità che emana, bensì dagli effetti che produce. Qui, in questo lembo di terra, è rinata tanta gente».
Che educazione hai avuto?
«Non ho avuto un’educazione religiosa. Quando dissi ai miei: voglio farmi frate, mia madre pensò che fossi andato fuori di testa. Mio padre, più pragmaticamente, mi consegnò una busta con dei soldi e aggiunse: non farti più vedere! Erano sconvolti. Li capisco: avevo un buon posto in Comune, nella segreteria del sindaco, ero fidanzato da quattro anni. Che ne sarebbe stata della mia vita, pensarono».
Com’era nata in te la decisione?
«Attraverso la lettura dei Vangeli. Ero affascinato dalle storie che apprendevo. Poi nel 1966, in unavnotte di gennaio a Padova, guardando il cielo stellato restai come folgorato dalla bellezza di quelvmanto. Ero solo. Il freddo pungente. Il lieve tremore. Pensai che se lì in quella remota notte stellatavc’era qualcuno più grande di noi, meritava di essere servito»
Non fu una suggestione?
«Poteva esserla, ma la forza e la determinazione successive hanno dissolto ogni possibile equivoco. La cosa straordinaria fu che la conversione non nasceva da tormenti e dubbi. Non c’era stata nessuna crisi esistenziale. Ero già un uomo felice. Lo so, è tutto poco manzoniano! ».
In effetti le conversioni sono quasi sempre qualcosa di drammatico.
«Di drammatico ci fu solo l’abbandono della casa paterna. Ma non credere che quello che venne dopo fu facile. La prima volta non fui ammesso al noviziato. Il priore sentenziò che non ero adatto alla vita religiosa. Riprovai e finalmente feci i tre anni necessari per prendere i voti. Quel periodo lo passai a Roma alla facoltà di teologia della Gregoriana. Ci fu un episodio che, già allora, mi pose incontrasto con la Chiesa».
Cosa accadde?
«Era uscito un documento di Paolo VI sull’etica sessuale. Scoprii che era stato interamente copiato da un retrivo libro di morale scritto da un cardinale, dove gli omosessuali venivano condannati al fuoco eterno dell’inferno e la masturbazione degli adolescenti curata inculcando loro la devozione all’Immacolata concezione. Diffusi la voce che era un plagio. Fu uno scandalo. Venni convocato dal Padre Provinciale, sottoposto a una specie di processo canonico. Mi allontanarono spedendomi in un posto remoto: il convento di Montefano ».
Che luogo trovasti?
«Desolante. Ormai inattivo da tempo, trovai nel convento soltanto un vecchio frate. Gli anni trascorsi alla Gregoriana avevano rafforzato in me il desiderio di studiare e a Montefano, non c’erano libri, non c’era nulla. Solo quel vecchio frate emarginato. Riempivo il tempo dedicandomi all’orto e alle galline. Poi un giorno vennero dei giovani, trascorsero alcuni giorni con me. Vollero che gli leggessi e commentassi dei passi del Vangelo. Provai, mostrando tutta la mia inadeguatezza.
Fu allora che chiesi il permesso di poter continuare a studiare».
Ti fu accordato?
« Alla Gregoriana avevo conosciuto un grande biblista: Juan Mateos, un gesuita spagnolo, che viveva in un convento di Granada. Trascorsi due anni bellissimi e intensi. Alla fine dei quali Padre Mateos mi chiese se desideravo entrare nel suo ordine. Risposi che la vocazione era di farmi frate».
Perché hai scelto i Servi di Maria?
«Perché è il solo ordine che non ha un fondatore. In realtà ne ha sette, ma il numero va inteso in senso simbolico».
Che cosa cambia?
«Ho sempre pensato che la figura del fondatore mettesse in ombra quella di Gesù. Nel nostro ordine non ci sono regole scritte. C’è un “dettato” che si rifà a Sant’Agostino e al senso della comunità. Ma non pensare che sia tutto rose e fiori. Un frate mi disse che nel nostro ordine alcuni lavorano per il Sant’Uffizio e altri davano lavoro al Sant’Uffizio. Non è un caso che il Generale dei Servi di Maria mi disse, in un momento di grande tensione, che ero la vergogna dell’ordine! ».
Non ti sei mai fatto amare dalle autorità.
«Non ho mai avuto un buon rapporto con il potere. Da Montefano fui spedito a Bologna dove, a proposito di eccellenti inquisitori, c’era il Cardinal Biffi. Uomo di grande dottrina e di ortodossia pura. Non gli piacquero i miei comportamenti. L’aria si fece rapidamente irrespirabile. Il mio sogno allora era di passare un periodo all’École biblique di Gerusalemme. Un posto celebre per i suoi studi. L’ordine si rifiutò di pagarmi la retta. Furono alcuni amici a provvedere. Trascorsi due anni all’École, fondata dai padri domenicani e guidata da un uomo straordinario: Marie-Émile Boismard».
Hai una storia ricca di conflitti. Accennavi alla tua idiosincrasia per la sottomissione. Cos’è che non funziona nel potere?
« È una parola che quasi sempre scende dall’alto, delinea gerarchie e compiti di cui sei strumento spesso inconsapevole. Se uno legge i Vangeli capisce immediatamente che il potere domina attraverso la paura, poi mediante la ricompensa, infine con la persuasione. Se il potere ti convince che servirlo è la scelta ideale, non hai più speranza. Non sono contro l’obbedienza. Sono contro il potere che pretende di non farti ragionare con la tua testa».
Diciamo che sei contro l’idolatria del potere.
«L’idolatria è l’ultimo passo della persuasione. Ci sono esempi nel campo della pubblicità».
Pensi a qualcosa di particolare?
«C’è stato un periodo della mia vita, prima che mi impiegassi al comune di Ancona, in cui lavorai in una fabbrica di cravatte. Avevo il compito di preparare confezioni di cravatte normali, lusso e extra lusso. La cravatta era sempre la stessa, cambiava solo la confezione e naturalmente il prezzo.
Capisci, il potere della persuasione?».
In fondo anche nelle tue omelie devi persuadere. O no?
« Il mio sogno per lungo tempo è stato di somigliare al curato di Ars. Avevo letto il libro che Georges Bernanos gli aveva dedicato e mi affascinava poter essere un confessore e una guida spirituale, come lo fu lui: Jean-Marie Vianney, un uomo dall’apostolato straordinario. Poi, approfondendo i Vangeli, ho capito che i motivi per farmi prete venivano meno. Ho capito che non ero stato chiamato per essere sopra, ma sotto. Compresi che anche porsi come guida spirituale è una forma di potere, di persuasione. E scoprii che le cose che non mi erano chiare avrei potuto comprenderle meglio solo partendo dalla misericordia. Questo è il senso che ho cercato e trovato nel rapporto con gli altri e con gli emarginati».
C’è mai stato un momento in cui questo rapporto è entrato in crisi?
«Mai, ogni volta che mi è sembrato di non potercela fare, perfino quando sono stato dato quasi per morto, ho trovato la forza per proseguire ».
Hai raccontato in un tuo libro l’esperienza della malattia. Che cosa aveva di speciale per scriverne?
« Niente, ho scritto e comunicato con tantissima gente, perché era un modo per non impazzire, e sentirmi ancora in vita. È accaduto all’improvviso. Un infarto la mattina del 9 aprile di sei anni fa. Lunedì dell’Angelo. Il giorno prima avevo celebrato la Pasqua con tantissima gente. Ero felice, sereno. Fu come una pugnalata. E di quel momento ricordo poco. L’ambulanza verso l’ospedale di Ancona. Gli aghi nel corpo. Il dolore fortissimo, il timore di non farcela. In seguito tutto questo è diventato un libro».
Avesti paura?
«No, solo l’esperienza del morire sembrò avvicinarmi a tutto quello che avevo compiuto con gioia e abnegazione. Scrissi quattro righe in un foglietto sotto forma di istruzioni per il funerale. Poi l’intervento all’aorta. Le settimane passate in terapia intensiva e i mesi nella convalescenza. È stato un periodo duro. Avevo il corpo fiaccato e l’idea di essere un insieme di organi che un gruppo di medici esaminava con puntiglio scientifico. E mi chiedevo: vedono il corpo. Ma sanno vedere la persona che c’è sotto?».
Che risposta ti sei dato?
«Non ce l’ho una risposta. Ma per rompere quel senso di anonimato che vige in un ospedale conta molto la maniera con cui ti relazioni agli altri: a quelli che ti curano, non solo i medici soprattutto gli infermieri. Sono entrato in aprile e uscito in luglio. Ho trascorso i tre anni successivi a raccogliere le poche forze che mi restavano. Anche questa fu un’esperienza fondamentale».
Come immagini l’aldilà?
«Nei Vangeli non c’è l’aldilà, perché l’oltre è quaggiù. Quando non ci sarò più continuerò ad essere qui, magari in una forma diversa, con il bagaglio di cose che ho fatto e che porterò con me. La Chiesa ha reso spaventoso il momento della morte. Ma i Vangeli insegnano che non si deve contrapporre la vita alla morte. Bensì vedere sia la nascita che la morte come due importanti aspetti della vita eterna, momenti dello stesso dono».
Come fai a gestire un convento che vedo pieno di cose belle. Icone, quadri e poi il centro studi, con la biblioteca. È tutto molto impegnativo. I soldi da dove arrivano?
« Mi piace la franchezza con cui porgi la domanda. Arrivano dal nostro lavoro. Dai libri che pubblico, dall’insegnamento, dall’associazione degli amici biblici. Non un soldo proviene dalla Chiesa. Essere economicamente indipendenti è garanzia di libertà. Quanto alle icone, mi piacciono.
Ne ho anche dipinte in passato. Poi ho smesso perché mi rubavano il tempo».
Prima di te, nell’ordine del Servi di Maria c’è stato David Maria Turoldo. Che ricordo hai di lui?
«Un uomo straordinario che all’inizio mi metteva soggezione. Espresse grande partecipazione per il mio lavoro. E fu una sorpresa. Voleva che prendessi il suo posto a Milano per continuare il suo operato. Stava andandosene. Dissi: David non posso perché diventerei il custode della tua memoria. Ammirandoti troppo finirei con lo scimmiottarti. Bisogna servire l’altro con il cuore».
Non è una frase abusata?
«Ogni frase, ogni parola si espone alla ripetizione o alla malia della persuasione. Eppure con Gesù inizia un’epoca nuova, quella della fede, nella quale non sono più gli uomini al servizio di Dio, ma è Dio che si mette al servizio degli uomini. Non più un Dio che pretende ma un Dio che dona. È un cambio radicale di prospettiva che la politica e la società civile dovrebbero imparare a riconoscere e a praticare un po’ più spesso».
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