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Lidia Maggi "Bibbia e arte"

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14 novembre 2012 - Pubblichiamo il testo dell’intervento della pastora Lidia Maggi al 51° Convegno Nazionale CEM Mondialità. (dal sito dell'Ucebi)

“La Bibbia è almeno una letteratura e il Dio d’Israele è, se non altro, il più grande personaggio letterario di tutti i tempi”.

L’affermazione è dello scrittore Erri de Luca, attento lettore delle Scritture. In effetti, il Dio biblico si rivela mediante una letteratura perlopiù narrativa. Solo seguendo l’intreccio del racconto possiamo conoscere l’inconoscibile; solo entrando nel mondo del racconto possiamo instaurare una relazione col Totalmente Altro.

E’ una doppia grazia per ogni credente scoprire che, nella Bibbia, non solo ci è dato di ascoltare la voce di coloro che hanno camminato e dialogato con Dio prima di noi, ma anche che tale narrazione viene consegnata come parola “bella e buona” (tov, per l’appunto, dove etica ed estetica coincidono).
La Bibbia è un capolavoro artistico capace di dischiudere significati di senso che indicano una via del bene per liberare l’uomo dalle catene di schiavitù. Tale via include anche il linguaggio, la parola restituita alla complessità, liberata dalla sindrome di dover solo definire. La Bibbia ci consegna una parola poetica che allude, evoca, apre, interpella. Parola poetica che diventa profetica perché antidoto contro il pensiero unico, l’omologazione, per aprirci all’inedito della relazione.
La Scrittura non è soltanto musa ispiratrice dell’arte nella nostra cultura. E’ essa stessa capolavoro artistico e letterario che resiste all’usura del tempo.

Arte della crisi
Quando Israele si trovò in esilio, senza più la terra, con il tempio ormai distrutto, sperimentò l’abisso del fallimento. Eppure nella mancanza scoprì la sua ricchezza: aveva tante storie da raccontare, da ricordare, non era solo nella sua catastrofe: abitava una parola capace di dare nuova cittadinanza agli esiliati, ai senza terra. Israele aveva perso ogni punto di riferimento della vita passata, ma scoprì di possedere una terra che nessuna cattiva gestione politica poteva sottrargli, un tempio che non poteva essere invaso né demolito. La Scrittura come patria portatile divenne allora il luogo da cui ricominciare a costruire il mondo.

L’architettura biblica ci schiude un edificio di pregio. Una vera opera d’arte. I diversi stili e generi letterari rendono tale costruzione complessa e articolata ma mai sgradevole. Niente è banale. Il pensiero unico è bandito per lasciare posto alla multiformità dell’esistenza. Anche le parole più dure trovano il proprio senso, la propria bellezza sia nel dialogo con le altre parti dell’edificio delle Scritture come nella capacità squisitamente biblica di non censurare aspetti della vicenda umana. Saper raccontare il lato oscuro dell’umanità, la sua notte, i suoi abissi, senza rimozioni o cadute di stile apologetiche e agiografiche non è cosa da poco. Ma la Bibbia fa ancora di più: narra il male e la violenza per interpellare il negativo, per parlare ai cuori. E’ necessario un linguaggio poetico però per fare questo, una parola capace di evocare, alludere, sottrarre all’oblio, al negazionismo, la realtà, anche quella crudele. Chi abita la Scrittura scopre una parola che pesa, che non si consuma e che acquista profumo, spessore, sfumatura e profondità proprio perché ripetuta, ripercorsa, rivisitata, ridefinita.

È bandita la fretta
Il fatto stesso che la maggior parte dell’architettura biblica ci sia consegnata sotto forma di racconto apre ogni attento lettore ai tempi lunghi della vita, li libera dal rincorrere la novità, dalla fretta, per aprire alla dimensione del profondo. Non si googla nella Bibbia, si scava, si semina e, solo dopo un intero ciclo s’inizia davvero a raccogliere. Le risposte alle domande di senso non sono immediate, consegnate come lapidare definizione. Esse arrivano attraverso l’intreccio delle storie.
La verità biblica fugge la banalizzazione. Essa si rivela nei tempi lunghi del racconto fatto d’intrighi, conflitti e colpi di scena. Chi legge le storie bibliche impara così una mobilità di sguardo che spinge a questionare di continuo il proprio punto di vista per cogliere prospettive inedite che permettono comprensioni più profonde. Un buon antidoto per curare le derive fondamentalistiche di alcuni credenti! E’ un mondo variegato e pieno di sfumature quello che popola il racconto biblico. Anche per questo la Bibbia non esaurisce i suoi mille sensi in una sola lettura. Miriadi di lettori continuano a entrare nelle pagine del testo alla ricerca di Dio o, più modestamente, perché affascinati da questi racconti antichi che non cessano di parlare al cuore.

Bibbia patrimonio dell’umanità
Da sempre i credenti si sono messi in ascolto di quella narrazione plurale, producendo a loro volta altri racconti nel tentativo di interpretarla. Ma anche chi non crede si è trovato a dover fare i conti con la Bibbia, divenuta il “grande codice” dell’Occidente, un immenso repertorio simbolico cui hanno attinto letterati, pittori, scultori, musicisti, lungo i secoli di storia segnata dalla rivelazione ebraico-cristiana. Dunque, non solo libro sacro per i credenti ma anche testo culturale decisivo per decifrare la nostra storia. Se per i cristiani “ignorare la Scrittura è ignorare Cristo”, secondo la lapidaria affermazione di Girolamo, per i cittadini europei l’ignoranza biblica significa un handicap culturale, un’amnesia che non permette la comunicazione con i “classici” e toglie profondità allo sguardo sul nostro mondo. Di qui la necessità di non considerare la Bibbia unicamente come testo catechistico, di proprietà delle chiese. Essa, a dispetto delle apparenze, è patrimonio dell’umanità tutta. E una seria formazione culturale dovrà includere lo studio di questo testo fondatore della civiltà moderna.


La forza del racconto
Agli orecchi di qualcuno potrà suonare strana un’affermazione del genere. Abituati alle sole letture devote o dogmatiche delle Scritture, l’invito a tenere desto nei loro confronti un’attenzione culturale risuona quasi dissacrante. Il che la dice lunga sulla secolare sottovalutazione di questo testo. A qualcuno, poi, quest’approccio estetico sembrerà un escamotage per un’umanità che ha abbandonato la fede. Quasi che la fede potesse fare a meno di indagare seriamente quella narrazione. Ma la fede biblica nasce dall’ascolto. Essa si consegna nella narrazione; è anche esperienza letteraria. In senso alto, laddove il testo letterario non è considerato come un contenitore d’informazioni ma è un mondo da abitare. A questo proposito, preziose riflessioni ci sono state fornite dal filosofo Paul Ricoeur, il quale, interrogandosi sulla funzione del racconto, giunge a parlare di “identità narrativa”: il tempo della nostra vita diviene umano, sensato nella misura in cui non si riduce all’elenco episodico di fatti tra loro slegati, ma viene narrato. La sapienza della narrazione è alla base di ogni serio processo d’individuazione. E la fede intende essere una nuova configurazione del vissuto umano. Nessun estetismo, dunque, nel proporre un’attenzione letteraria al testo biblico, quanto piuttosto la consapevolezza della posta in gioco ultima della narrazione per ogni persona, sia essa credente o meno.
Forse, al linguaggio essenziale e impegnativo della filosofia, che s’inerpica sulle vette di una teoria della letteratura, il lettore contemporaneo preferisce misurarsi con la letteratura stessa, toccando con mano la presenza del racconto biblico nella trama di molte espressioni letterarie.
Dalla Divina Commedia di Dante alla musica di Leonard Cohen, da Moby Dick a Bob Dylan fino a quegli omini gialli che dissacrano la famiglia americana media.

Un libro sovversivo
La Scrittura racconta la storia da un punto di vista privilegiato: quello dei perdenti. Non ci concede una narrazione agiografica. Essa narra le vicende di chi non ha vinto, dei perdenti della storia. La Bibbia è un libro sovversivo perché preserva la memoria scomoda di coloro che sono stati sconfitti. Lo sguardo narrativo non si concentra sul potere di turno, ma sulle vittime, sui sommersi della storia. Viene restituita voce a chi non ha voce. Quelle storie che le cronache di corte avrebbero voluto censurare sono invece diventate memoria divina. Il Dio biblico è colui che ascolta il grido delle vittime e interviene non solo chiamando alla libertà ma impedendo che quella storia scomoda vada dimenticata. La Bibbia fa il “contropelo” alla storia ufficiale, la interpella e ne denuncia le ideologie. Gli afoni, i perdenti della storia, scoprono, nella Bibbia, che la voce di Dio, parola feconda, che crea il mondo e lo strappa dal caos, dal non senso, è la loro stessa voce. Il grido del sangue di Abele non è rimasto inascoltato: è custodito nel cuore di Dio. Caino non può nascondere il suo crimine perché Dio gliene chiede ragione. La memoria scomoda del grido delle vittime attraversa le generazioni e giunge fino a noi, disturbando i nostri sogni, inquietando la nostra pace apparente. Nella Bibbia la piccola Tamar, stuprata nelle stanze segrete del palazzo dall’erede al trono del re Davide, azzittita dal clan che pretendeva di lavare i panni sporchi in famiglia mettendo tutto a tacere, fa sentire il suo grido. Il re è nudo e deve rendere conto di quel crimine perché il Dio biblico non ha permesso che il grido della principessa violata cadesse nell’oblio.

Un libro ispirato
Per chi crede, la Bibbia è un libro ispirato dallo spirito divino. Un libro affascinante e inquietante che ti scava dentro. L’autore biblico ha la pretesa non solo di parlare di Dio, dandone testimonianza, ma anche di parlare con Dio e di riportare oracoli espressi da Dio in prima persona, autentici frammenti di discorso divino.
Il lettore che non crede potrà ugualmente parlare di testo “ispirato” come libro che ha attraversato generazioni e che continua a essere letto, citato, interpretato. Un’ispirazione “laica” che fa della Bibbia uno dei principali capolavori della letteratura universale. La letteratura biblica, dunque, si pone come un autentico “classico”, con cui gli autori dei diversi secoli si sono confrontati e tuttora continuano a farlo. Un dialogo di alto livello, in cui i lettori entrano nel testo, scovandone virtualità inedite che li sollecitano a compiere geniali ri-scritture. Accade così che qualche personaggio letterario, che popola l’orizzonte biblico, esca dalle pagine e invada le nostre esistenze, vestendo panni moderni e parlando il nostro dialetto, pur mantenendo gli elementi strutturali del personaggio biblico. Si pensi, per esempio, alla figura di Giobbe che riprende la requisitoria biblica senza porvi fine, a causa dell’incomprensibile atteggiamento di Dio durante la Shoà.
O, come abbiamo visto di recente, ri-configurato nei panni di un pastore protestante nel film “le mele di Adamo”.
Ecco perché una rinnovata attenzione alla letteratura biblica non risuona solo come imperativo ecclesiale, invito di parte. Ne va della qualità dell’abitare questo nostro mondo, della capacità di fare ancora i conti con le grandi domande esistenziali e con le narrazioni da esse generate. L’arte di vivere ci sollecita a riaprire il Libro.
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