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L’“emergenza migranti” vista con gli occhi dei Padri d’Oriente

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Al Convegno di Bose sul “Dono dell’ospitalità”, la spiritualità delle Chiese ortodosse mostra la sorgente dello sguardo cristiano verso chi è straniero e chiede di essere accolto. Fornendo antidoti agli identitarismi anti-immigrati, ma anche alle «sindromi egoiste» dell’attivismo a caccia di applausi



Conviene sempre chiedere aiuto ai Padri del primo millennio cristiano per cogliere cosa sta succedendo nel tempo presente della Chiesa. Si trovano sempre tesori inimmaginabili che consentono di sottrarsi alle trappole delle propagande riattingendo alle fonti, e documentando da dove nasce l’originalità dello sguardo cristiano sulle vicende del mondo. Lo ha fatto ancora una volta la Comunità monastica di Bose, dedicando al “Dono dell’Ospitalità” il suo XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, appena concluso (6-9 settembre), che ha visto anche la partecipazione di Bartolomeo, Patriarca ecumenico di Costantinopoli. Nel mondo dei barconi e dei campi profughi, dei “corridoi umanitari” e delle veglie di preghiera anti-immigrati, le relazioni e gli interventi del convegno hanno offerto una miriade di spunti preziosi per scrutare i “segni dei tempi”.

I cristiani, dei “senza-patria”
La sorgente dello sguardo cristiano verso chi è straniero e chiede di essere accolto l’ha subito indicata Theodoros II, Patriarca greco ortodosso di Alessandria, parlando anche dell’Europa «in preda al terrore e alle vertigini» davanti alle ondate di profughi: «L’altro, lo straniero, è Cristo stesso. Nella persona dell’altro, dello straniero, incontro Cristo stesso. L’altro è la mia salvezza e dalla relazione che ho con lui dipende il mio ingresso nel regno dei cieli». La misteriosa identificazione di Cristo con lo straniero che chiede riparo l’ha suggerita Gesù stesso nel Vangelo («ero straniero e mi avete accolto»), e nutre suggestive preghiere della liturgia bizantina: anche nel doxastikón dell’Ufficio mattutino del Sabato santo, Giuseppe d’Arimatea con queste parole supplica Pilato di dargli il corpo di Cristo: «Dammi questo straniero, esiliato fin dall’infanzia come straniero nel mondo. Dammi questo straniero, che i suoi fratelli di razza per odio hanno ucciso come straniero».

Cristo è il “primo forestiero”, il Signore che «si è fatto straniero per noi», colui che «nacque lontano dalla sua terra, trascorse alcuni anni come rifugiato in Egitto e non ebbe fissa dimora durante il suo ministero terreno». E la Tradizione ortodossa ha sempre assaporato la «stranierità» (Xeniteia) come un segno distintivo della condizione dei cristiani nel mondo, come indicava già la lettera a Diogneto, parlando dei cristiani che «abitano nella loro Patria, ma come stranieri; a tutto partecipano come cittadini, sottomessi a tutto come stranieri». Come cristiani - ha ricordato nel suo intervento a Bose Marcus Plested, professore di patristica bizantina a Milwakee, «non siamo mai completamente “a casa” in questo mondo. Qui non abbiamo una città permanente. In un certo senso siamo tutti stranieri».

Monasteri-locanda e monaci viandanti

Il convegno sull’ospitalità era organizzato dalla Comunità monastica di Bose. E proprio i monasteri – hanno sottolineato molti interventi – sono sempre stati porti di rifugio al riparo dei venti per i viandanti, i forestieri e gli uomini senza fissa dimora. Quando nel 613 dopo Cristo, i persiani invasero la Palestina – ha ricordato il Patriarca Theodoros – le chiese e i cristiani di Alessandria d’Egitto si aprirono per ospitare i profughi e i perseguitati, «applicando le parole di Giovanni Crisostomo, che diceva: “la nostra casa sia una locanda aperta a tutti”, e ancora: “non ti ordino di uccidere un vitello, ma da’ il pane a chi ha fame, un vestito a chi è nudo, un tetto a chi è forestiero”».

Anche nelle convulsioni del tempo presente, tra guerre e migrazione di massa, molti monasteri in tutto il mondo, da Taizè a Mar Elian in Siria, hanno aperto le porte a chi chiedeva aiuto. Il dovere dell’ospitalità può talvolta travolgere la vita della comunità monastica. Ma già nel IV secolo il monaco Evagrio Pontico ricordava che uno dei modi principali con il quale i demoni disturbano la tranquillità dell’asceta è quello di insinuare il pensiero che l’accoglienza degli ospiti sia una seccatura. E aggiungeva che l’ospitalità non è qualcosa che va offerta con sufficienza: «Non accogliamo i fratelli come se facessimo loro un favore, ma ospitiamoli supplicandoli di accettare l’invito, come fossimo noi i debitori».

Fin dai primi tempi del cristianesimo, forme singolari di vita spirituale si sono profilate proprio sulla figura dello “straniero viandante”, vista come modalità privilegiata per mendicare tutto dalla grazia di Cristo. La tradizione dei “monaci vagabondi” è riaffiorata nell’Ortodossia russa, in tutta la spiritualità legata ai racconti del Pellegrino russo e anche nell’esperienza degli “Stanniki”, i vagabondi oranti della Russia pre-rivoluzionaria raccontati a Bose dalla professoressa Vera Shevzhov. La Chiesa e anche diversi maestri del monachesimo hanno guardato a volte con sospetto le esperienze spirituali legate all’incessante girovagare, che secondo Epifanio di Salamina, finiscono «preda all’errore» e inducono a pose misticheggianti patologiche che avrebbero il loro migliore antidoto in «una buona dose di duro lavoro». Ma è interessante notare – come ha fatto la professoressa Shevzov nella sua relazione – che già al tempo di Pietro il Grande l’élite russa illuminata e occidentalizzante, pensando anche agli “Stanniki”, accusava il cristianesimo ortodosso di fomentare e perpetuare la miseria con la sua predilezione per i poveri e le sue pratiche di carità e accoglienza dei viandanti.

Cristostomo e gli agit prop delle “guerre tra poveri”
Nei Padri della Chiesa d’Oriente si trovano anche risposte definitive alle propagande di chi, anche oggi, rimprovera parroci e laici cristiani di aiutare gli stranieri trascurando i “poveri di casa nostra”: «Se alla tua porta bussa qualcuno che fatica a far fronte al suo bisogno», scriveva già San Giovanni Crisostomo, «non dire: questo è amico, è della mia stessa stirpe, mi ha beneficato in passato, mentre l’altro è uno straniero, di un’altra razza, uno sconosciuto… Se giudichi in modo difforme, neppure tu riceverai misericordia. Offri sia al fratello sia allo straniero: al fratello non voltare la schiena, e lo straniero rendilo tuo fratello. Dio vuole che tu sostenga i bisognosi, non che tu faccia discriminazioni tra gli uomini; non vuole che tu dia a chi è della tua razza e che tu scacci lo straniero: tutti sono della stessa razza, tutti sono fratelli, tutti sono figli di un un solo Padre».

L’accoglienza dello straniero è solo il segno che l’amore al prossimo nutrito dal Vangelo non può essere strumentalizzato da ideologie identitarie e pseudo patriottiche: «Se siamo tutti stranieri, tutti forestieri, e se tutto quello che abbiamo viene da Dio», ha notato al Convegno di Bose Chrysostomos Stamoulis, professore di teologia dogmatica a Salonicco, «allora ogni occasione di offrire ospitalità dovrebbe essere accolta con zelo e gratitudine. Ma ancora, va ricordato che l’amore e la cura che offriamo allo straniero che è in mezzo a noi, le offriamo al Cristo stesso». Per questo, dopo quanto Gesù dice nel Vangelo sulla sua identificazione con lo “straniero”, l’amore allo straniero (philoxenía), «lungi dall’essere una confortante fonte di virtù da cui ci si attende una ricompensa in tali descrizioni è un’urgente e terribile necessità».

La «sindrome egoistica» di certi «benefattori»
Proprio la sorgente evangelica dell’accoglienza verso lo straniero rappresenta anche l’unico vero antidoto alle pose “buoniste” di chi, snaturando il dinamismo proprio della carità cristiana, può trasformare anche le pratiche di accoglienza umanitaria in pretesti di auto-celebrazione. Stamouilis, nella sua relazione, ha smascherato la falsa dialettica tra un «un cristianesimo estatico, idealistico e in definitiva ideologico, il quale ignora la storia, la natura, e perfino l’uomo stesso», e lo sterile attivismo ecclesial-clericale, «talora anche ascetico, che ignora la dimensione sacramentale della chiesa e si identifica indiscriminatamente con qualunque cosa soddisfi il suo perbenismo psicologico». Le due patologie ecclesiali dell’idealismo spiritualista e dell’attivismo pseudo-caritatevole sembrano opporsi, ma in realtà sono unite nella comune “rimozione” dell’altro, dello “straniero”, e anche dello “straniero per eccellenza” che è Cristo stesso: «Il cristianesimo estatico senza la sua carne storica e naturale», ha fatto notare Stamoulis, «è evidente che ignora il prossimo; ma lo stesso accade tuttavia anche con il cristianesimo attivista», dove il rapporto con l’altro diventa «il luogo di manifestazione delle sindromi egoistiche del benefattore e salvatore, della superiorità esercitata in modo filantropico come su un campo da tiro».

Anche l’ospitalità monastica verso chi arriva al monastero per cercare conforto spirituale si trasforma in squallido strumento di auto-affermazione, quando chi accoglie non vive solo della grazia e della carità di Cristo. Elisseos Simonopetritis, Igumeno del monastero di Simonopetra sul Monte Athos, nel contributo inviato al Convegno di Bose ha ricordato che: «Non c’è tentazione più sottile per un monaco di quella che deve affrontare quando qualcuno gli si avvicina per chiedergli consiglio. Il monaco deve essere estremamente vigilante di fronte a questa passione di governare gli altri in nome della vita spirituale», perché lui non è un «“un maestro di sapienza” che traffica con i carismi e manipola le anime. La vera missione del monaco è quella di ritirarsi in Cristo quale precursore, la sua dimora è nascosta in Dio ed è là che riceve il suo ospite».

Lo scherno del mondo
La generosità nei confronti degli stranieri fu riconosciuta subito dai critici pagani del cristianesimo come un tratto connotativo della novità cristiana. Nel II secolo Luciano di Samosata già ridicolizzava i cristiani proprio per la loro magnanima generosità nei confronti dei bisognosi. Per Luciano era assolutamente ridicolo spendere denaro ed energie in questo modo insensato. Nel IV secolo Giuliano l’Apostata indicò nell’amore allo straniero (philoxenía) una delle principali ragioni della crescita e della diffusione del cristianesimo nel mondo antico: «Non sono forse la filantropia verso gli stranieri, la cura nel seppellire i morti e la simulata austerità della vita che hanno soprattutto accresciuto l’ateismo?», scriveva Giuliano per smascherare gli strumenti con cui si era imposta quella fede che gli appariva come un sacrilego rinnegamento della religione antica. Così, anche oggi, chi attacca preti e laici rei di “accogliere” gli stranieri, rende evidente la fatale eclissi della memoria cristiana nel vissuto reale delle nostre società. Anche quando brandisce croci e icone mariane nelle patetiche kermesse anti-immigrati inscenate davanti alle chiese.
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