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Enzo Bianchi Trasmettere la fede è trasmettere le scritture

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Vita Pastorale - Luglio 2017
di ENZO BIANCHI
dal sito del Monastero di Bose

L’originalità del culto cristiano sta nel suo “essere essenzialmente annuncio della buona notizia alla comunità riunita in assemblea e accoglienza di essa da parte della comunità che risponde”.
Così si esprimeva il teologo Joseph Ratzinger nel suo intervento all’81° Katholikentag, tenutosi a Bamberg nel luglio del 1966. E, proseguendo nella replica ad alcune obiezioni già allora sollevate nei confronti della riforma liturgica, Ratzinger affermava ancora: “Purificando la Parola dal suo carattere rituale per ridonarle il suo carattere di Parola, la riforma liturgica ha compiuto un atto di importanza decisiva … La Parola si era svuotata diventando rito, e la riforma liturgica non ha fatto altro che rimettere in valore la verità della Parola e, nello stesso tempo, la verità del culto della Parola”.

Suln tema del “culto secondo il Lógos”, secondo l’espressione paolina loghikè latreía (Rm 12,1), Joseph Ratzinger è tornato sovente, con precisazioni penetranti, in quanto convinto che “la liturgia non consiste nel riempirci del sentimento del sacro, per mezzo di fremiti e di allusioni, bensì nel metterci di fronte alla spada tagliente della Parola di Dio (cf. Eb 4,12). Essa non consiste nel metterci in un ambiente di solennità e di bellezza per raccoglierci e meditare in pace, ma nell’introdurci nel ‘noi’ dei figli di Dio”.

Non a caso, a oltre quarant’anni di distanza, nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini del 2010, papa Benedetto XVI, dopo aver parlato per la prima volta nel magistero dell’analogia Verbi (§ 7), è giunto a parlare della sacramentalità della Parola (§ 56), sacramentalità da comprendersi in analogia con la presenza di Cristo nell’eucaristia e con l’incarnazione del Verbo in Gesù di Nazaret.

Certo, l’ispirazione di tali affermazioni può essere trovata di nuovo in Agostino: “Sacramentum, [id est] tamquam visibile verbum” (Commento a Giovanni 80,3). Ma grazie all’attuale comprensione della sacramentalità della Scrittura, dovremmo cogliere diversamente la liturgia della Parola: non più come “preparazione alla messa” ma essa stessa come comunicazione di Dio, come parte dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’accogliere la Parola di Dio, l’assemblea, non diversamente da ciò che avvenne al Sinai, ratifica l’alleanza e promette di realizzare ciò che ha ascoltato: “Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!” (Es 24,3). Si tratta di comprendere che “la Parola precipita in gesto sacramentale eucaristico” (Louis-Marie Chauvet) e che la Parola proclamata, predicata, ascoltata rende partecipe l’assemblea all’azione di Dio, al suo dabar, Parola-Evento, che è il mistero rivelato e celebrato.

Impegno decisivo della chiesa dovrebbe essere l’acquisizione e la comprensione di questa qualità sacramentale della Parola, senza la quale permane la patologia di un primato dell’eco della Parola di Dio detta e predicata, e non della Parola stessa. È Cristo stesso che “adest praesens in medio” (cf. SC 7), che parla quando si proclamano le Scritture che contengono la Parola; non solo, è il Signore che opera, agisce, crea l’evento di salvezza, con una presenza testamentaria che sancisce l’alleanza con la chiesa sua sposa. Purtroppo, invece, è caduta nel dimenticatoio una preziosa sottolineatura presente nelle premesse all’Ordinamento delle letture della messa del 1981, dove uno dei compiti di chi presiede la liturgia è così espresso: “[Egli] alimenta la fede dei presenti per ciò che riguarda quella Parola che nella celebrazione, sotto l’azione dello Spirito Santo, si fa sacramento” (§ 41). La Parola di Dio viene a noi dal sacramento delle sante Scritture che la chiesa prende in mano per spezzare la Parola stessa.

Del resto, se ripercorressimo con attenzione il magistero papale postconciliare su questo aspetto-cardine del rapporto tra Bibbia, Parola di Dio e vita cristiana, ci accorgeremmo come nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, Giovanni Paolo II abbia calorosamente parlato della necessità di consolidare la pratica della lectio divina nella convinzione – condivisa ed espressa successivamente più volte anche dal suo successore Benedetto XVI – che essa possa rivitalizzare la vita di fede dei credenti: “Da quando il concilio Vaticano II ha sottolineato il ruolo preminente della Parola di Dio nella vita della Chiesa, certamente sono stati fatti grandi passi in avanti nell’ascolto assiduo e nella lettura attenta della Sacra Scrittura. Ad essa si è assicurato l’onore che merita nella preghiera pubblica della Chiesa. Ad essa i singoli e le comunità ricorrono ormai in larga misura, e tra gli stessi laici sono tanti che vi si dedicano anche con l'aiuto prezioso di studi teologici e biblici. Soprattutto poi è l’opera dell'evangelizzazione e della catechesi che si sta rivitalizzando proprio nell’attenzione alla Parola di Dio. Occorre consolidare e approfondire questa linea, anche mediante la diffusione nelle famiglie del libro della Bibbia. In particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la Parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza” (NMI 39).

È in questo solco che si colloca l’Esortazione post-sinodale Verbum Domini, in particolare là dove parla esplicitamente di “sacramentalità della Parola (cf. VD 56). Ne consegue l’articolata riflessione sulla “Parola di Dio nella vita ecclesiale” (VD 72 ss.) e, al suo interno, l’insistenza sulla lectio divina (VD 86-87). La pastorale e, prima ancora, la sollecitudine nel trasmettere la fede cristiana devono infatti tendere ad allargare con metodi adatti l’incontro con la Sacra Scrittura da parte di tutti i cristiani: si tratta di provvedere adare strumenti di lettura della Bibbia al popolo di Dio, in vista di un uso della Bibbia che trasmetta la Parola come pane di vita, nutrimento di fede. Altrimenti il rischio è che la ritrovata familiarità con il testo biblico, la disponibilità della Bibbia da parte di chiunque, resa possibile ai cristiani dal Concilio Vaticano II, resti infruttuosa, sterile. Sì, affinché si realizzi l’auspicio conciliare – “È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura” (DV 21) – occorre assumersi l’impegno di indicare e insegnare la via e la forma di una lettura spirituale delle Scritture che sappia rendere la Bibbia parola vivente oggi.

Occorre allora chiarificare i nodi del rapporto Bibbia-Chiesa e mettere in luce la correlazione tra approccio alla Bibbia e concezione ecclesiologica e pratica ecclesiale, tra tipo di lettura biblica e tipo di presenza della chiesa nel mondo. Un certo modo di intendere la chiesa e la sua presenza nel mondo produce un certo tipo di lettura della Bibbia e, viceversa, un determinato approccio alla Scrittura si esprime e si manifesta in un certo tipo di presenza ecclesiale nel mondo. La Parola di Dio emerge dall’armonica sinfonia tra Scrittura, Comunità e Spirito santo. Lo Spirito vivifica i criteri oggettivanti della Scrittura e della Comunità. Non è difficile vedere come il mancato equilibrio fra questi elementi produca disarmonie a livello ecclesiologico.

Ora, il diffuso allentamento della trasmissione della fede, sia attraverso la catechesi che mediante l’eloquenza della testimonianza, fa sì che anche chi frequenta regolarmente l’eucaristia domenicale sia spesso sprovvisto dei più elementari fondamenti della fede cristiana. Si richiede quindi un lavoro di trasmissione della fede, di educazione alla fede, di istruzione nella fede: un lavoro che ha nella trasmissione della conoscenza e della familiarità con le Scritture un luogo centrale. Resta attualissima infatti l’affermazione di san Gerolamo, ripresa dal Vaticano II e da tutto il magistero successivo: “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Gesù Cristo”. Trasmettere la fede è trasmettere le sante Scritture. Se questo non avviene, il rischio è la caduta in forme ambigue o la deriva della superstizione, del devozionalismo, della decadenza della fede genuina in pratiche secondarie o periferiche fatte passare per essenziali e centrali, o in vere e proprie aberrazioni e perversioni della fede, come ben sintetizzava l’allora vescovo Walter Kasper in una lettera pastorale alla sua diocesi di Rottenburg nel 1989: “una scarsa conoscenza della fede è sempre stata il migliore terreno per la superstizione e l’errore”.

Il diffondersi di fenomeni che hanno a che fare con le apparizioni, la taumaturgia, il miracolistico, il prodigioso, rischia di dimenticare la via ordinaria della fede che è via di ascolto della Parola e di risposta di preghiera che si nutre di quotidiana e non visibile fatica. Il contesto attuale, poi, storico e culturale, chiede alla chiesa di assumere la trasmissione della fede come compito prioritario: e nella trasmissione della fede centrale è l’insegnamento biblico e l’introduzione alla conoscenza di Cristo attraverso la Bibbia e, massimamente, i vangeli. Infatti, “tra tutte le Scritture, anche del Nuovo Testamento, i vangeli meritatamente eccellono, in quanto sono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore” (DV 18).

“La Parola di Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana”. Queste parole di Giovanni Paolo II in Vita consacrata 94 – eco di DV 21 dove la Parola di Dio è detta essere “fonte genuina e perenne della vita spirituale” – applicate alla vita religiosa, indicano il necessario cammino di rinnovamento della spiritualità non solo di ordini e congregazioni religiose, ma di ogni comunità cristiana, in un tempo in cui il cristianesimo è minoritario e il contesto culturale si è fatto estraneo alla dimensione della fede. Si tratta allora di riscoprire la fondamentale unità della vita spirituale cristiana che nella testimonianza scritturistica ed evangelica in specie trova la sua base essenziale. Occorre passare “dalle spiritualità alla spiritualità cristiana”, consci che molte differenze – che nell’ambito della vita spirituale distinguevano tra fedeli laici, ministri ordinati e membri della vita consacrata e ancora, all’interno di questa, tra congregazione e congregazione – se erano comprensibili in un contesto cristiano omogeneo, sono oggi anacronistiche e soprattutto rischiano di smarrire il senso dell’essenziale che dovrebbe essere custodito nel testimoniare con radicalità la “differenza cristiana”, evocata ancora pochi giorni fa da papa Francesco all’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana.

Centrare attorno alla Parola di Dio la vita spirituale significa ritrovare il centro che può alimentare l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo. Infatti, come scrisse p. Louis Bouyer nella fervida stagione di preparazione del concilio annunciato da papa Giovanni, “ciò che definisce la spiritualità cristiana non è la distinzione di questo o quel gruppo di cristiani, ma ‘una sola fede, un solo battesimo, un solo Signore, un unico Spirito, un unico Dio salvatore di tutti’ (Ef 4,5-6). Indubbiamente lo stesso Spirito che agisce in tutti, chiede a ciascuno di compiere funzioni diverse nell’unico Corpo di Cristo, ma non per questo si potrebbe parlare di diverse spiritualità cristiane senza tener sempre presente che esse, se sono effettivamente cristiane, differiscono solo sul piano relativamente esteriore e secondario delle applicazioni, mentre l’essenza della spiritualità cristiana rimane una e inalterabile”1. Una spiritualità profondamente radicata nella Parola di Dio e, proprio per questo, capace di generare e rigenerare alla vita cristiana.
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