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Enzo Bianchi Venerdì santo Liturgia della croce

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📖 VENERDI’ SANTO 
Liturgia della croce 
14 aprile 2017 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Giovanni 18,1-19,37

In quest’ora della croce i cristiani su tutta la terra ascoltano il racconto della passione e della morte di Gesù, il loro Kýrios, Signore. Sono i quattro vangeli a consegnarci questa narrazione lunga, sproporzionatamente lunga rispetto al racconto della vita di Gesù. Noi abbiamo ascoltato la testimonianza del quarto vangelo (Gv 18,1-19,37), la testimonianza del discepolo amato che ha seguito Gesù dalla cattura nel Getsemani fino alla crocifissione. È una testimonianza nella quale la memoria degli eventi ha subito una meditazione e una contemplazione profonda, grazie alla fede nel Crocifisso-Risorto, grazie a una prassi liturgica nella quale sempre il Risorto si mostrava con i segni di questa passione: le piaghe nelle mani e il petto squarciato (cf. Gv 20,20).

Questo racconto è dunque un racconto altro rispetto a quello dei vangeli sinottici, perché tratto dall’altro vangelo, perché scaturito dalla fede dell’altro discepolo. È un racconto lungo, di cui vorrei fornire solo una lettura globale, per comprenderne il significato e cogliere la specificità della cristologia del quarto vangelo.

Chiunque legga la passione secondo Giovanni, prende consapevolezza che questa racconta la violenza subita da Gesù e operata, inflitta da alcuni uomini. Potremmo dire che la violenza subita da Gesù durante la sua vita – violenza soprattutto verbale, consumatasi attraverso giudizi, mormorazioni e calunnie su di lui, che hanno nutrito e preparato il tradimento di Giuda e la condanna – nella passione è diventata persecuzione, tortura, uccisione. Avevano detto: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore” (Gv 9,24); “È indemoniato ed è fuori di sé” (Gv 10,20); “È conveniente che lui solo muoia per il popolo, e non vada in rovina la gente” (Gv 11,50; cf. Gv 18,12), quindi avevano preso la decisione di ucciderlo (cf. Gv 11,53).

E ora ecco che tutto si compie, non per un destino, non per una necessitas divina, ma per la responsabilità assunta da quelli che hanno preparato la fine di Gesù. Epifania della violenza: ecco cos’è innanzitutto la passione. Gesù non soffre a causa della sua condizione fragile e umana, a causa della sua carne, ma a causa di una violenza che gli viene inflitta dagli umani, i quali di fronte a un uomo che appare “giusto” non fanno altro che scagliarsi contro di lui, perché non sopportano neppure di vederlo (cf. Sap 2,14). Gesù ha conosciuto la sofferenza, “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,3) – profetizza Isaia nel quarto canto del Servo del Signore proclamato in questa liturgia –, l’ha conosciuta come uomo (anche se i vangeli non ne parlano). Ma nella passione Gesù soffre non a causa della sua natura umana, bensì a causa degli altri che lo aggrediscono e lo violentano. Gesù aveva anche conosciuto la sofferenza umana negli incontri con ogni sorta di malati, e contro questa sofferenza aveva combattuto. Ma nella passione la sofferenza è altra: è sofferenza frutto della violenza, dell’ingiustizia, della cattiveria degli altri!

Seguendo il racconto della passione, vediamo Gesù catturato, legato, portato di fronte ai potenti religiosi: nell’interrogatorio condotto da Anna viene schiaffeggiato da una guardia (cf. Gv 18,22). Portato di fronte ai potenti di questo mondo, dal rappresentante del potere totalitario, Pilato, Gesù viene flagellato, incoronato di spine e deriso; gli viene fatta indossare la porpora dei re, dei ricchi, dei potenti di questo mondo (cf. Gv 19,1-2), la porpora del potere di Babilonia (cf. Ap 17,4-5). Così è presentato da Pilato alla folla, con i segni della flagellazione e della tortura, derisi dalla porpora di cui Pilato l’ha rivestito: “Idoù ho ánthropos”, “Ecco l’uomo!” (Gv 19,5). C’è qui l’icona centrale di Gesù nella passione secondo Giovanni: Gesù è l’uomo, il figlio di Adamo, da Abele in poi vittima della violenza del fratello (cf. Gen 4,1-16).

E la crocifissione è solo l’atto estremo di questa violenza di cui l’uomo è capace, fino a negare all’altro il diritto di esistere, di vivere. Gesù in croce non è icona del dolore umano, ma icona del dolore inflitto dalla violenza, dalla volontà dell’uomo, dal fratello – dovremmo dire… È la sofferenza dovuta alla violenza, all’ingiustizia che noi non vogliamo vedere. Preferiamo provare emozioni per le vittime dello tsunami, dei terremoti, piuttosto che guardare con realismo la sofferenza delle vittime dell’ingiustizia che regna nel mondo e fa molte più vittime di quelle che fa la natura: è la sofferenza di quelli che muoiono di fame, che sono oppressi, che sono perseguitati, che marciscono nelle carceri, che sono vittime delle guerre sempre decise e condotte dai potenti di questo mondo. Gesù sulla croce è vittima delle violenze! Troppo facile dire che è vittima dei nostri peccati: questo è vero in profondità, ma prima di tutto Gesù è stato vittima della violenza che ci abita, che esce dal nostro cuore, che noi decidiamo responsabilmente… non di qualsiasi nostra azione detta peccato dai legisti della religione. Gesù in croce ci mette in faccia il nostro “io violento”!

Ma se è vero che il racconto della passione è epifania della violenza, è anche vero che è testimonianza di come Gesù ha vissuto questa violenza, dunque è epifania di amore. È soprattutto la passione secondo Giovanni che ci testimonia come Gesù ha vissuto questa sofferenza ingiusta. Fin dalla cattura nel Getsemani Gesù appare come chi entra nella passione con sovrana libertà. Va a passare la notte al di là del torrente Cedron, quel luogo che era conosciuto da Giuda come luogo in cui Gesù passava la notte a Gerusalemme (cf. Gv 18,1-2). Nessuna fuga, nessun tentativo di sottrarsi al tradimento, alla cattura; e quando arriva quel gruppo armato per prenderlo, Gesù risponde liberamente: “Egó eimi”, “Io sono” (Gv 18,6.8), vieta ai suoi la resistenza armata e si consegna nella consapevolezza che “doveva bere il calice che il Padre gli aveva dato” (cf. Gv 18,11). È il primo atto di libertà sovrana di Gesù nella passione. Di fronte alla violenza, c’è il no di Gesù alla violenza: “Rimetti la spada nel fodero!” (ibid.), perché solo così si può cominciare a interrompere la catena della violenza di cui l’uomo è capace.

Poi Gesù, trascinato davanti a sommo sacerdote, di nuovo con sovrana libertà proclama: “Io ho parlato con libertà al mondo (egò parresía leláleka tô kósmo), … non ho detto nulla in segreto … Interroga i miei ascoltatori” (Gv 18,20-21). Che libertà! Che postura quella di Gesù di fronte alla calunnia! Di fronte alla violenza Gesù resta nella parresía, chiede conto della violenza che si scarica su di lui: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23), ma non si vendica, non si difende. E infine, davanti a Pilato Gesù ha il coraggio di dire l’indicibile: “Il mio regno non è di questo mondo, se lo fosse ricorrerei alla violenza … Ma io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo, è questa la mia missione: dare testimonianza alla verità, alla Parola di Dio” (cf. Gv 18,36-38). Gesù dice a Pilato: “Sono re metaforicamente, non un re come lo si è in questo mondo, e sono venuto nel mondo per resistere alla menzogna, la madre di ogni violenza, e per essere testimone della Parola di Dio”.

Ma accanto a questa sovrana libertà di Gesù, il quarto vangelo nella passione narra il suo amore. All’inizio della passione è stato detto: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine, fino all’estremo (eis télos)” (Gv 13,1). Sì, in tutta la passione traspare l’agápe di Gesù: amore per suo Padre, Dio, del quale lui vuole fare la volontà, anche a prezzo della morte e dell’umana violenza che si scarica su si lui; e amore per i fratelli, per l’umanità. Per questo Gesù assorbe la violenza, la prende su di sé, non la fa rimbalzare con la vendetta o la difesa simmetrica all’offesa, ma con il silenzio e soprattutto con l’eulábeia (Eb 5,7; 12,28), l’accettazione della violenza che la interrompe, e con la mitezza attiva Gesù mostra che sta vivendo l’amore all’estremo. Lui che aveva salvato gli altri, non salva se se stesso (cf. Mc 15,31 e par.), anzi perde se stesso per salvare gli altri. Ecco come Gesù si è posto di fronte alla violenza. E quando ha esclamato: “È compiuto!” (Gv 19,30), ha voluto dirci che la sua eulábeia è stata vissuta fino alla fine, fino alla pienezza. Ora non ha altro da fare se non consegnare il suo Spirito (ibid.). La passione secondo Giovanni diventa così epifania della gloria di Gesù: dal dolore di Gesù, all’amore di Gesù, alla gloria dell’amore! Così Gesù ha vinto con il bene il male della violenza che gli uomini hanno scaricato su di lui, ha interrotto nella storia la catena della violenza dell’uomo contro l’uomo.

La passione del quarto vangelo è dunque per noi epifania della violenza dell’uomo sull’uomo, ma anche redenzione della violenza nell’eulábeia, e perciò anche epifania dell’agápe, dell’amore. Il passo della Lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato così sintetizza: “Nei giorni della sua carne egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per la sua eulábeia, per la sua sottomissione, venne esaudito” (Eb 5,7). Con questa épignosis, sovraconoscenza che ci viene in dono da Dio, dall’ascolto della sua Parola, guardiamo alla theoría (Lc 23,48), alla contemplazione del Crocifisso, e per questo veneriamo la croce in quanto strumento dell’epifania dell’amore.



Si legge nella Lettera agli Ebrei: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo ne è divenuto partecipe”, cioè si è fatto uomo, “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per paura della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). Tra le tante verità contenute in queste parole che non si finiscono mai di meditare, ce n’è una che riguarda il giorno che stiamo vivendo, il grande e santo venerdì: per liberare gli esseri umani dalla paura della morte, “il re delle paure” (Gb 18,14), Gesù ha vissuto in prima persona la passione fino alla morte, forma estrema e decisiva di libertà, che nasceva dalla sua capacità di amore.

Gesù è stato condannato e ucciso a Gerusalemme mediante la pena della crocifissione, morte del maledetto da Dio, la vigilia del sabato di Pasqua, il 7 aprile dell’anno 30 della nostra era. Questa fine vergognosa è subito apparsa uno scandalo (cf. 1Cor 1,23), un inciampo per la fede nel Messia Gesù, Inviato di Dio. Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il crocifisso colui che “ha raccontato Dio” (cf. Gv 1,18): anche e soprattutto sulla croce, Gesù ha mostrato il vero volto di Dio, trasformando uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma chiediamoci, almeno oggi: com’è stato possibile che un uomo crocifisso venisse adorato quale Salvatore e Signore?

Per rispondere, occorre innanzitutto guardarsi dalla tentazione “doloristica” di leggere Gesù a partire dalla croce; al contrario, occorre leggere anche la croce a partire da Gesù, colui che vi è stato ingiustamente appeso, colui che con la sua libertà di amare ha reso pure il patibolo un trono di gloria, come mostra l’iconografia orientale del Cristo crocifisso con gli occhi aperti, in grado di dominare gli eventi.

Operato questo decisivo ribaltamento (senza il quale è inutile proseguire ogni tipo di discorso sulla croce!), ci si può interrogare su come Gesù ha affrontato la prospettiva della sua morte violenta. I vangeli ci dicono che Gesù è andato verso la morte non per caso né per necessità, ossia a motivo di un destino incombente su di lui. Gesù non è stato arrestato casualmente: egli stesso aveva preannunciato la propria fine, la fine toccata a tutti i profeti, la fine fatta dal suo maestro Giovanni il Battezzatore pochi anni prima, esito dell’opposizione nei suoi confronti da parte del potere religioso. Ma il suo non era neanche un destino ineluttabile: di fronte al precipitare degli eventi, Gesù restava libero di tornare in Galilea, oppure di arrendersi, concludendo nel tempio il suo ministero iniziato lungo il mare, nelle piazze dei villaggi, nelle case e nelle sinagoghe.

No, Gesù è andato verso la morte nella libertà e per amore: “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1), come ascoltiamo la sera del giovedì santo. Ecco l’unicità di Gesù: proprio nel momento in cui il vortice che è stata la sua vita umana ricade nel caos, si afferma trionfalmente un altro vortice, quello della libertà dell’amore gratuito… Ce lo ricordano anche le parole contenute al cuore della liturgia eucaristica, se solo le ascoltassimo: “Nell’ora in cui andava liberamente alla sua passione, prese il pane…” (Preghiera eucaristica II); “Per attuare il tuo disegno di salvezza si consegnò volontariamente alla morte, e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita … Egli, venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre santo, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine, e mentre cenava con loro, prese il pane…” (Preghiera eucaristica IV).

Ora, Gesù ha più volte annunciato che la sua passione “era necessaria”. Lo era però di una “necessità” precisa, innanzitutto umana, sulla quale avevano già meditato i sapienti di Israele: in un mondo ingiusto, il giusto può solo essere perseguitato e, se possibile, ucciso, come si legge nei primi due capitoli del libro della Sapienza. Gesù avrebbe potuto tacere o smentire tutta la sua vita, passando dalla parte degli ingiusti. Restando invece fedele alla volontà di Dio, con tenacia e libertà, continuando a fare il bene in modo unilaterale, poteva solo preparare il suo rifiuto: da parte del potere romano, che lo riteneva una minaccia alle pretese totalitarie dell’imperatore; da parte del potere religioso giudaico, che non sopportava il volto di Dio da lui narrato, non sopportava “il suo annuncio del Vangelo”, che “invitava a liberarsi dalle chiusure della religione, quando essa si oppone alla ricerca del regno di Dio, regno della libertà dei figli di Dio” (Joseph Moingt). Così la necessità umana diventa anche necessità divina, nel senso (e solo in questo senso!) che la libera obbedienza da parte di Gesù alla volontà del Padre, cioè all’amore gratuito e perseverante fino alla fine, esige una vita di giustizia e di amore anche a costo della morte violenta: “la necessità della condanna di Gesù è dunque dentro la libera scelta di vita che egli ha fatto, quella appunto di dire, costi quello che costi, la verità di Dio. Una scelta di vita che porta con sé il rischio della condanna” (Bruno Maggioni).

Rischio a cui Gesù non si è sottratto, insegnando così una cosa semplicissima, che forse non abbiamo ancora capito fino in fondo: quando si vivono l’amore e la libertà, cosa temere? Nemmeno la morte, in profondità, può farci paura, perché l’amore (dato e ricevuto) e la libertà sono più forti di ogni forma di morte, compresa la morte fisica che sperimenteremo nel nostro ultimo giorno… Non dimentichiamolo! Di più, in questa luce ci è dato di comprendere con maggiore intelligenza le vertiginose parole dell’Apostolo Paolo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.37-39).

Sappiamo che il Padre ha risposto all’amore vissuto liberamente da Gesù richiamandolo dai morti alla vita senza fine, ma questo è un discorso che aprirebbe altri sentieri di riflessione. Qui mi limito a segnalare una suggestiva affermazione del Salmo 87 (88), la supplica più tenebrosa dell’intero Salterio, narrazione ante litteram del sabato santo: secondo la versione latina l’orante, pur immerso nella condizione di massima derelizione, ardisce presentare se stesso come “inter mortuos liber”, “libero tra i morti” (v. 6). Con intelligenza spirituale, i padri hanno applicato queste parole alla discesa di Gesù tra i morti e alla sua resurrezione: anche tra i morti Gesù è rimasto libero, perché neppure la morte ha potuto imprigionare la sua libertà e il suo amore (cf. At 2,24). E così può essere anche per noi.

Oggi seguiamo Gesù Cristo fino alla fine, osserviamo con attenzione e meraviglia il suo comportamento anche e soprattutto durante la passione, frutto di un’intera esistenza vissuta con quello stile. Così potremo tendere, giorno dopo giorno, a incarnare nella nostra esistenza il suo Vangelo, Vangelo che è la libertà di amare (cf. Gal 5,13), in vita e dunque oltre la morte. Con la stessa passione di Gesù per la libertà e l’amore.
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