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L. Manicardi Sempre stupito dall'umanità di Gesù

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09/02/2017 Luciano Manicardi, dopo la decisione di Enzo Bianchi di lasciare l’incarico, è stato eletto per succedere al fondatore.
In questa intervista al settimanale Credere confida: «Personalmente, ogni volta che leggo i Vangeli, mi chiedo: ma chi è l’uomo che pronuncia parole come quelle sulle Beatitudini? Quale umanità abita in chi, di fronte alla donna condannata dai dottori della Legge, sfida il sistema e dice invece: “Io non ti condanno”?».


«Ho iniziato a frequentare Bose nel 1979 e ricordo che già allora Enzo Bianchi rifletteva sul suo successore. Questo per dire la sapienza di un fondatore che ha sempre saputo di non essere eterno e che, per il bene della Comunità, aveva già previsto di non restare priore fino alla morte».

Luciano Manicardi, che i panni di priore della Comunità monastica di Bose li indossa da pochi giorni, sembra sereno ma, al tempo stesso, ben cosciente della delicatezza del compito che i fratelli e le sorelle gli hanno affidato il 26 gennaio eleggendolo alla guida della Comunità, dopo la decisione di Bianchi di lasciare l’incarico. «Enzo è insostituibile, non ha successori. Da parte mia, affermare questo non è un atto di umiltà, ma una semplice, realistica constatazione. E poi, lui c’è ancora, resta il fondatore e un membro della Comunità. Non interverrà nelle questioni di governo, ma la sua parola autorevole continuerà a risuonare e, sui grandi temi e gli assi portanti della vita monastica, il suo giudizio e la sua vigilanza saranno preziosi. Per ciò che riguarda chi, come me, viene dopo di lui, il punto non è cercare di imitarlo – inutile anche solo provarci! – ma cercare di creare nella Comunità un tessuto di fraternità, accoglienza e amore fraterno come base indispensabile per avere qualcosa da dire agli altri, per non essere ipocriti, per non predicare bene e razzolare male».

Cinquantanove anni e una leggera cadenza reggiana non del tutto sepolta dai tanti anni trascorsi in questo angolo di Piemonte sulla Serra di Ivrea, Manicardi parla in maniera pacata e intanto tormenta la sua bella barba imbiancata, un gesto che svela forti passioni nascoste dietro una delicata timidezza. Originario di Campagnola Emilia, da ragazzo era un cattolico di parrocchia come tanti, l’interesse per la Bibbia sin dal liceo e una passione per il calcio proletario, giocato nei campetti da granitico terzino sinistro, di quelli che non tolgono mai la gamba, tanto che gli amici lo chiamavano «il Tarantini della Bassa», in onore del difensore della Nazionale argentina che vinse i Mondiali del 1978. «Sentivo la necessità di studiare le Scritture e avvertivo un desiderio di radicalità di vita cristiana che non era soddisfatto da ciò che vedevo in giro», racconta Manicardi. «Poi, nel 1979 conobbi Enzo Bianchi in un convegno a Padova. Era un incontro promosso dalla rivista Servitium cui partecipava anche padre Turoldo, sul tema dell’Uomo spirituale. Con un amico decisi di trascorrere qualche giorno a Bose. E, dal primo momento che conobbi la Comunità, il desiderio di radicalità che avevo dentro si risvegliò immediatamente. Centralità della parola di Dio; una vita comune laicale, uomini e donne insieme; forte impegno ecumenico: per me c’era tutto l’essenziale. Così nel 1981, terminato l’ultimo esame in Lettere classiche, feci il mio ingresso a Bose».

In questi anni lei è diventato un biblista molto apprezzato: le sue Lectio e i suoi ritiri spirituali sono sempre molto seguiti. Perché la Bibbia è così importante per la vita cristiana?
«Perché ci consente di conoscere Gesù di Nazaret. La Bibbia ci radica nella storia, mostra che la nostra ricerca di Dio non può che avvenire in mezzo agli uomini, nel quotidiano della vita, non in evasioni spiritualistiche o in fughe mistiche. Attraverso la Bibbia – e i Vangeli in particolare – possiamo conoscere l’umanità di Gesù Cristo, l’ambiente storico in cui è cresciuto e ha predicato, il senso profondo dei suoi gesti. La vita cristiana, così, si può nutrire alle fonti, alla “sorgente genuina” (come dice la Dei Verbum) della fede. E questa conoscenza non è puramente intellettuale, ma una indicazione della via da percorrere, una conoscenza pratica che ci dice come orientare la nostra personale umanità qui e oggi».

È su questa «umanità di Gesù» che un monaco come lei ha scommesso la vita?
«Esattamente. Nella Lettera agli Efesini, Paolo dice: “In Gesù è la verità”. La verità, dal punto di vista biblico, è la rivelazione, la narrazione di Dio. Insomma: “Vuoi conoscere Dio? Allora guarda Gesù di Nazaret”. Personalmente, ogni volta che leggo i Vangeli, mi chiedo: ma chi è l’uomo che può pronunciare parole come quelle sulle Beatitudini? Quale umanità abita in chi, di fronte alla donna condannata dai dottori della Legge, sfida il sistema e dice: “Io non ti condanno”? Gesù di Nazaret è colui che narra Dio nell’umano. È il concetto dell’incarnazione. Questo, alla fine, è il cuore del cristianesimo. Ed è ciò che mi interpella, che parla alla mia vita, che dilata e converte il mio cuore, che cambia il mio modo di essere e di agire».



Questa verità scandalosa del cristianesimo sembra un po’ in crisi oggi, se ci si basa sul tasso di pratica religiosa nelle parrocchie o se si guarda al calo delle vocazioni sacerdotali. Eppure qui da voi a Bose è sempre pieno di persone, spesso anche molto giovani. Qual è il segreto?
«Sicuramente la presenza di una personalità come Enzo Bianchi ha pesato. Ma, al di là di questo, penso che gli elementi che più interpellano i giovani siano tre: il lavoro quotidiano, il ministero dell’accoglienza e dell’ascolto di chi viene a incontrarci e, infine, la nostra vita comunitaria: siamo uomini e donne che si sono messi insieme non perché si sono scelti, non perché si piacevano, ma per un’unica vocazione, quella di seguire Cristo. La vita comunitaria è una scelta di appartenenza, cosa assai rara oggi. Neanche la famiglia è più vissuta come qualcosa a cui si appartiene, piuttosto la si vede come un ambito al servizio della dilatazione del proprio io. Insomma, mentre l’individualismo pervade ogni angolo della nostra società, una vita comunitaria come la nostra, che è molto esigente e va in controtendenza, provoca e interroga tante persone».

La vita monastica però non è una passeggiata. Povertà, obbedienza, castità: quale di questi tre voti è più difficile da vivere oggi?
«Nessuno dei tre. La maggiore difficoltà è proprio la vita comune: è quello il vero sacramento, la situazione in cui ciascuno viene messo impietosamente a nudo. Fa emergere ciò che hai nel cuore. Ma è anche un grande insegnamento, ti dice la strada da percorrere: conosci te stesso, accogli i tuoi limiti, leggili davanti alla parola di Dio. La vita comunitaria non inizia dalla somma della bravura di ognuno, ma dalla condivisione delle povertà di ciascuno. Quando io lascio che le mie povertà vengano portate alla luce, le accetto, le riconosco e le condivido, ecco allora che divento più capace di quella misericordia che mi porta ad accogliere l’altro e che consente di creare il tessuto in cui una comunità può vivere. Prendere atto che su tutto regna la misericordia di Dio: questo è il passaggio essenziale perché inizi un cammino spirituale serio e autentico».



Ha accennato al tema della misericordia, cui papa Francesco ha dedicato l’anno giubilare appena concluso. Che stagione ecclesiale stiamo vivendo con il pontificato di Bergoglio?
«Questo pontificato è davvero una grazia straordinaria per la Chiesa. Francesco ha la capacità di “dire il Vangelo” con ogni sua parola e ogni suo gesto. Paradossalmente, però, la sua predicazione evangelica così forte e schietta provoca anche reazioni negative».

Il Papa ha anche voluto lanciare un Sinodo dedicato ai giovani, che si svolgerà l’anno venturo. Che cosa ne pensa?
«Sicuramente è la scelta significativa di un punto critico per la Chiesa: le giovani generazioni rappresentano il futuro, senza di loro non c’è domani. Bisognerà vedere però come questo Sinodo verrà impostato: se sarà l’ennesimo evento in cui si parla dei giovani, alla fine temo che fallirà. Bisognerebbe invece imparare ad ascoltare i giovani, mettersi alla loro scuola, entrare in relazione con i loro mondi. Spero che il Sinodo faccia questo tentativo, altrimenti costruiremo soltanto degli stereotipi sulla loro pelle».

BOSE. UN MONACHESIMO NUOVO E ANTICO

L’8 dicembre 1965, giorno di chiusura del concilio Vaticano II, un giovane cattolico piemontese di nome Enzo Bianchi si ritira a vivere in una cascina sulla Serra di Ivrea. È l’inizio della Comunità di Bose. Con il tempo si uniscono a lui altri fratelli e sorelle, cattolici, protestanti e ortodossi, con l’idea di vivere il monachesimo tornando alle origini e, al tempo stesso, con modalità nuove, superando le barriere confessionali che separano le Chiese cristiane. La Comunità si ingrandisce e attrae decine di migliaia di credenti, affascinati dalla radicalità della vita cristiana e dalla sapienza biblica di Enzo e degli altri monaci di Bose. Oggi la Comunità, che è divenuta anche un punto di riferimento per il dialogo ecumenico a livello internazionale, conta 81 tra fratelli e sorelle, presenti a Bose e in altre quattro fraternità sparse per l’Italia (Civitella San Paolo, in provincia di Roma; Pieve di Cellole, vicino San Gimignano; San Masseo, ad Assisi; e Ostuni, in provincia di Brindisi). Il 26 gennaio Bianchi ha deciso di lasciare l’incarico di priore e fratel Luciano Manicardi, che era vice-priore dal 2009, è stato eletto al suo posto.



Foto di Giulia Bianchi
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