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G. Ravasi Olimpiadi Il pentathlon secondo san Paolo

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Proponiamo la riflessione che il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha scritto per l’agenzia Italpress. Nata nel 1988 come agenzia specializzata nell’informazione sportiva, Italpress successivamente ha iniziato a coprire numerosi altri settori come gli spettacoli, l’economia, l’energia, il turismo, i motori, l’ambiente, la politica nazionale, la legalità. Tra i notiziari che produce, da circa due anni c’è anche “Sport e Chiesa”, in collaborazione con il Pontificio Consiglio della Cultura. (Avvenire del 31 luglio 2016)


Quelle di Olimpia nel Peloponneso erano le più antiche e celebrate feste della Grecia classica, al punto tale da diventare nella loro cadenza quadriennale la misura di riferimento della stessa cronologia. Le varie gare sportive avevano come base una visione generale della persona, della società e della stessa cultura. La paidéia, cioè la formazione greca della persona, si associava all’euritmia, ossia all’armonia fisica (si pensi alle immagini delle pitture vascolari o al Discobolo di Mirone). Le stesse Olimpiadi si connettevano alla poesia, come attestano le Olimpiache, le celebri odi di Pindaro, e quelle dei poeti Simonide e Bacchilide. In occasione dell’evento olimpico di Rio de Janeiro, vorremmo tentare un abbozzo sul rapporto tra sport e spiritualità nel cristianesimo. Il giudaismo, al riguardo, era stato più reticente a causa del rischio di contaminazione idolatrica, come era accaduto per alcuni ebrei “traditori” durante la grande epopea dei Maccabei. Essi, infatti, entravano nudi nei “ginnasi”, le sedi educative e sportive ellenistiche, e giungevano sino al punto di sottoporsi a un intervento chirurgico, detto in greco epispasmós, per cancellare il segno della circoncisione. La riserva anti-idolatrica era presente anche in alcuni Padri della Chiesa – riserva per altro allargata agli spettacoli teatrali – che si opposero ai giochi olimpici, come Ambrogio che impedì all’imperatore Teodosio di riproporli nel 393. Alla radice, oltre al rischio di contaminazione con l’idolatria e col paganesimo, c’era però anche la critica all’esibizionismo degli atleti che, attraverso l’esercizio fisico, sembravano contraddire o deformare l’opera del Creatore nei confronti del corpo umano.

In realtà, diverso era stato l’atteggiamento alle origini cristiane primordiali. Gesù stesso, infatti, aveva preso spunto dal gioco dei bambini per definire la generazione che lo stava ascoltando, incapace di una scelta come quei ragazzi litigiosi che «stanno seduti in piazza e rivolti ai compagni gridano: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo intonato un lamento e non vi siete battuti il petto» (Mt 11,16-17). Detto in altri termini, a quei bambini erano stati proposti i giochi più disparati, come mimare una festa di nozze o un funerale, ma essi avevano sempre opposto un rifiuto scontroso. È, però, soprattutto san Paolo che, a più riprese, ricorre a metafore sportive per delineare l’impegno apostolico e quello del cristiano. In particolare egli fa riferimento alla corsa nello stadio e al pugilato, due sport molto praticati nella società greco-romana. Interessante è un paragrafo della Prima Lettera ai Corinzi ove viene usato il lessico tecnico sportivo: «Non sapete che nelle corse nello stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però, ogni atleta [ agonizómenos, “chi gareggia lottando”] si sottopone in tutto alla disciplina. Essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece incorruttibile. Io, dunque, corro ma non come chi è senza meta. Faccio pugilato [ pyktéuô, “faccio a pugni”], ma non come uno che batte l’aria. Anzi, colpisco duramente [ hypopiázô, letteralmente “colpisco sotto gli occhi”, cioè nel punto più debole dell’avversario] il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato» (1Cor 9,24-27).

Anche in quella sorta di testamento che egli indirizza al suo fedele collaboratore Timoteo, l’Apostolo, dopo aver usato immagini rituali (l’essere «versato in libagione »), nautiche o nomadiche («sciogliere le vele» o «le tende») e militari («ho combattuto la buona battaglia»), ricorre alla scena sportiva della corsa nello stadio per esprimere il suo impegno totale nel conservare alta la fiamma della fede. La frase in greco è persino rimata, « ton drómon tetéleka, ten pístin tetéreka », “ho portato a termine la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7). E continua, sempre rimandando alla simbologia sportiva: «Mi resta la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno, non solo a me ma a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua epifania» (4,8).

A questo punto non possiamo, però, ignorare un capitolo che è drammaticamente vero anche per lo sport. In termini religiosi è l’esercizio della libertà nel peccato che colpisce pure questo ambito. Così, il gioco-sport diventa guadagno economico e non è più libero esercizio; lo spettacolo si trasforma in tifo violento (in greco typhos significa “febbre”); la bellezza e la forza fisica sono travolte dal “doping”, falsificando l’esercizio sportivo che nelle Olimpiadi greche era detto áskesis, cioè “ascesi”. Esso tende al massimo le potenzialità dell’organismo, rendendo così alla fine l’atto fisico naturale e spontaneo, come accade alla danzatrice classica o all’atleta autentico. Inoltre, il gioco, da strumento persino di guarigione (ludoterapia), decade a forma maniacale (ludopatia). Le insorgenze più truci e oscure dell’essere umano si rivelano attraverso la brutalità, la volgarità e il razzismo negli stadi.

Una nota particolare di condivisione e di sostegno meritano, invece, gli sportivi dei Giochi paralimpici che non si lasciano vincere dal loro handicap, si impegnano anzi a superarlo in una sfida continua ad andare oltre, verso un traguardo più prestigioso. Così, oltre a rappresentare un vero e proprio esempio nello sfidare i confini delle possibilità fisiche – anima di ogni competizione agonistica – essi sono chiamati a superare anche l’asticella della loro disabilità. Sono, quindi, persone che possiamo legittimamente considerare “doppiamente atleti”.

Le Paralimpiadi nascevano ufficialmente negli anni Sessanta del secolo scorso, contribuendo a raccontare e a rappresentare innumerevoli storie di imprese atletiche, accompagnate da emozioni, sentimenti, lacrime e sorrisi, gioie e sofferenze. Hanno permesso di descrivere autentiche imprese eroiche, aiutandoci a superare pregiudizi ancestrali, luoghi comuni destituiti di ogni fondamento. Con queste donne e questi uomini ci siamo commossi vedendo demoliti i muri dell’indifferenza e dello scetticismo, della sufficienza ammantata di commiserazione, ammirandoli per il coraggio e per la fiera dignità dei loro gesti atletici, convinti che le medaglie da essi conquistate non valgono meno di quelle Olimpiche.

Noi, però, concludiamo ritornando al rapporto tra gioco e religione e lo facciamo, in spirito ecumenico, con una bella rappresentazione che Lutero delinea della meta paradisiaca proprio sulla base dell’analogia del gioco: «Allora l’uomo giocherà col cielo e con la terra, giocherà col sole e con tutte le creature. E tutte le creature proveranno un piacere immenso e una gioia lirica e rideranno con te, Signore». Anche il monaco Notker dell’abbazia di San Gallo, morto nel 912, poeta, musico e bibliotecario, aveva descritto così la Chiesa che gioca in pace sotto la vite feconda, simbolo di Cristo, nel giardino celeste: «Ecco, o Cristo, la tua Chiesa che gioca serena e in pace all’ombra di una vite lussureggiante».
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