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Lisa Cremaschi Tempo di rinascita

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Sarnico, 27 ottobre 2015

TEMPO DI RINASCITA



1. Tempo di rinascita


È possibile rinascere? L’obiezione di Nicodemo: “Come può nascere un uomo quando è vecchio?” (Gv 3,4) è anche la nostra. Nicodemo era un fariseo, aveva ascoltato Gesù, aveva forse assistito o comunque aveva sentito parlare di quel suo gesto forte, audace nel tempio, quando Gesù con una frusta in mano aveva scacciato dal tempio pecore e buoi, aveva gettato a terra il denaro di quelli che cambiavano le monete, rovesciato i banchi e gridato ai venditori di colombe: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!” (cf. Gv 2,14-16). Nicodemo percepisce in questi gesti una volontà di pulizia, di ritorno alla volontà di Dio - quella vera, senza commerci! – e prova simpatia per quest’uomo, per i segni che compie. Resta ai margini, non diventa suo discepolo – almeno non subito, lo ritroveremo al momento della morte di Gesù in Gv 19,39 – gli si avvicina e cerca di sondare il terreno, di capire un po’ meglio senza compromettersi troppo. “Rabbì, gli dice, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui”; e Gesù gli risponde: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”. È a questo punto che Nicodemo obietta: “Come può nascere un uomo quando è vecchio’ Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”.
Come è possibile rinascere? È solo un’espressione retorica ma completamente estranea alla realtà della nostra vita? Io sono la mia storia, il mio passato nel bene e nel male. “Nessuno viene al mondo senza valigie”, secondo la famosa espressione di Paul Ricoeur; io sono - anche – il risultato della storia della società in cui sono nato, dei miei genitori con i loro doni e i loro limiti, delle vicende della mia famiglia, dell’educazione che ho ricevuto, di un insieme di dati genetici, biologici, psicologici … Sono condizionato già alla nascita, sono condizionato da quella che è stata la mia vita, dalle scelte che ho fatto, dai miei fallimenti, dalle persone che ho incontrato lungo il mio cammino. Tutto questo va accolto, accettato in profondità, con amore, vorrei dire con tenerezza; solo dire di sì al mio passato mi permette di elaborarlo, di lavorarci sopra in vista di una rinascita, per potere cioè, nella mia libertà, creare qualcosa di nuovo, fare della mia vita qualcosa di bello e di buono.
In termini cristiani siamo invitati alla conversione. Siamo forse abituati a pensare alla conversione come a quel passaggio dal paganesimo alla fede cristiana che avveniva nei tempi antichi, al tempo della diffusione del vangelo nel mondo pagano; oppure parliamo di conversione a proposito di quelle persone che diventano cristiane e ricevono il battesimo in età adulta. Ci sentiamo, come dice Gesù, appartenenti a quei giusti che “non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). La conversione non è il passaggio da uno stato all’altro, ma è un cammino, una via. Non possiamo mai dire: “Sono a posto, sono arrivato, adesso sono cristiano”. Siamo chiamati a una continua conversione. La parola greca “conversione”, metánoia, indica il ripensamento, il ribaltamento del noûs, del nostro modo di pensare e di vedere la vita, gli altri, me stesso. Questi pensieri profondi sulla vita cambiano con il tempo, con la conoscenza sempre rinnovata di noi stessi, degli altri, del vangelo, con le esperienze che facciamo e che non ci lasciano uguali a prima. Conoscere: in latino cum-nascere, nasco di nuovo insieme a qualcosa, qualcuno che in certo modo mi ha cambiato; rinasco dopo aver avuto un incontro significativo con un’altra persona, dopo aver letto un libro che mi ha fatto pensare, dopo aver ascoltato con il cuore una parola del vangelo … Rinascere è accogliere la vita in modo nuovo. Certo, tante volte la vita resta quella che è, con le sue tragedie e i suoi pesi, ma può cambiare il modo di viverli e di portarli.

2. La conversione delle nostre speranze

Possiamo ancora sperare? Dice Giovanni Climaco: “La conversione è figlia della speranza e rinnegamento della disperazione” (La scala 5,2).
In occidente oggi non si spera, ma ci si difende da un futuro che appare minaccioso, inquietante. Di fronte alle continue smentite della storia del mondo - poiché se è crollato il muro di Berlino, altri muri sono sorti, forse ancora più solidi, poiché nuove guerre sono apparse in regioni non tanto distanti da noi - e di fronte alle smentite nella storia personale di ciascuno: la malattia, le disgrazie, la mancanza di prospettive di lavoro, l’incapacità di perseverare nella fedeltà ai propri amori, si pone la domanda: “Che cosa sperare?”. Si può ancora sperare?
Per molti oggi soprattutto nella nostra società occidentale, è diventato difficile sperare. Siamo immersi in una cultura che privilegia il presente, l’attimo che stiamo vivendo e che dimentica il passato, quanto al futuro … è meglio non pensarci. I giovani di oggi parlano del “fare esperienza”, spesso senza un orientamento, senza la ricerca di un senso, con speranze a breve termine, “piccole”, perché è troppo difficile osare sperare e spesso queste speranze si fermano all’apparire e all’avere, in linea con una società dei consumi. Del resto, come può esserci speranza quando mancano prospettive di lavoro, di giustizia, quando manca il senso del bene comune e prevale un individualismo esasperato? Molte persone in cui si è sperato e sembravano dare speranza si sono mostrate inaffidabili; nuove realtà che ci facevano sognare si sono rivelate corrotte.
Di certo la speranza non è facile ottimismo. Il credente è un uomo lucido, che discerne il potere del male, della sofferenza, della morte. La costituzione Gaudium et Spes al c. 1 afferma: “Le gioie e le speranze, e tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, e tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.
Come sperare, allora? Possiamo imparare a diventare uomini, donne di speranza? Uomini e donne che pongono nel mondo dei piccoli segni che interrogano sul senso della vita?
La prima cosa che constatiamo quando parliamo di speranza, è che se guardiamo al nostro passato tante speranze sono state deluse; potremmo sentirci traditi e ingannati dalla vita, ma se guardiamo al vangelo, troviamo che spesso i discepoli hanno dovuto imparare a convertire le loro speranze.
Pensiamo al dramma vissuto dalla comunità cristiana primitiva. Il Signore ha promesso di ritornare e prendere con sé i discepoli, eppure cominciano a morire i primi apostoli e il Signore non ritorna. E passato l’entusiasmo, il fervore iniziale, molti si scoraggiano, si lasciano andare. La vita è lunga, la perseveranza in certi giorni si fa pesante, il prezzo della fedeltà diventa alto. É un’esperienza che tocca tutti prima o poi lungo il cammino, la tentazione di dire: “Non val la pena”, non abbiamo da aspettarci più niente dalla vita, dagli altri, dal cammino di fede. A che serve tutto questo? Tanto, che cosa cambia? É l’esperienza di Agar nel deserto (Gen 21) che chiusa nel fallimento della propria vicenda non si aspetta più niente, non vede più niente, si sente morire, sente la vita venir meno e si lascia andare in preda alla disperazione e allo scoraggiamento, finché un angelo del Signore la invita ad aprire gli occhi e a vedere il pozzo d’acqua che pure c’era già, ma che lei non vedeva. Il miracolo è la conversione dello sguardo. Vede il pozzo, vede una speranza di vita, riprende a vivere.
Il testo di 2Pt 3,3-16 riporta un’esperienza analoga. Esperienza di nausea, tedio di un grigiore nel quale si è immersi a volte anche dentro la chiesa, esperienza di stagioni della vita personale, comunitaria, di coppia nelle quali si tira a campare. Tentazione del lasciarsi vivere, del vivere tanto per vivere, del fare le cose solo perché si deve o perché si è sempre fatto così, senza più entusiasmo, senza crederci troppo. È quell’insieme di sentimenti che la tradizione spirituale cristiana chiama acedia (dal greco: non avere più alcun interesse, alcuna “cura” per niente).
Vi è un’altra tentazione lungo l’attesa. É quella illustrata in Mt 11,3. Giovanni è stato arrestato, la voce che grida nel deserto è stata messa a tacere. Il Battista è in carcere per aver annunciato la volontà del Signore. Diventa un giocattolo nelle mani dei potenti. “Hanno fatto di lui quello che hanno voluto” (Mt 17,12), dirà Gesù. Nel carcere, ormai prossimo alla morte, Giovanni ripercorre la sua vita che si è concentrata sull’annuncio di “colui che viene dopo di me, colui che battezzerà in Spirito santo e fuoco e che pulirà la sua aia raccogliendo il grano nel granaio e bruciando la pula con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,11-12). Giovanni ha indicato in Gesù il Messia, ma ora si chiede dove sono i segni della sua venuta. “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” É una delle rare volte in cui compare il verbo “attendere” nel N.T. In che modo Gesù è messia? Non sono stato ingannato nella mia attesa? Ho dedicato la vita intera, ho sacrificato tutto per qualcosa che non c’è? Perché la pula non è stata bruciata? Perché il grano invece di essere raccolto nel granaio è calpestato dai potenti? Perché la scure invece di essere posta alla radice degli alberi è posta sul collo di Giovanni? Qual è la salvezza portata dal Messia? É tutto qui? Non c’è nient’altro da aspettare? Non abbiamo da aspettarci nient’altro dalla vita cristiana, dalla nostra vocazione? Dove sono i segni della venuta del Messia? E Gesù manda a dire a Giovanni: “I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti resuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella” (Mt 11,5). Gesù manda a riferire a Giovanni dei segni di salvezza e di liberazione, ma per Giovanni qual è il segno di salvezza, di liberazione? Ha atteso per tutta la vita il Messia e dov’è ora per lui il Messia? I ciechi ricuperano la vista, ma Giovanni resta in carcere, gli storpi camminano ma Giovanni sarà messo a morte ... É l’ora della conversione dell’attesa. Il Battista deve convertire la sua immagine di Messia che rischiava di essere un idolo. “Beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,6). Gesù si rivela messia che non viene nella forza e nella potenza, ma nella mitezza e nella piccolezza. Un Messia che va verso la croce e Giovanni è chiamato a continuare il suo ministero di precursore di Gesù anche nella morte, anche negli inferi. Giovanni consegna davvero tutto a colui di cui ha annunciato la venuta, anche le sue speranze e le sue attese.
Forse dobbiamo semplicemente imparare a convertire le nostre speranze. In questo i discepoli di Emmaus di cui ci parla Luca (Lc 24,13-35), ci sono di modello. I due discepoli sanno tutto, ma non hanno più fiducia in niente. “Noi speravamo”. Per i due discepoli in fuga da Gerusalemme il verbo sperare è declinato al passato.
Sono delusi. La vita non è andata come loro speravano, secondo le loro aspettative, i loro sogni, le loro illusioni. Sono talmente chiusi nella loro delusione, nel senso di fallimento che la memoria di quelle parole non ha più alcuna incidenza sulla loro vita. Sembra tutto finito. E se ne vanno, lontano dalla comunità, lontano dagli altri che li hanno profondamente delusi; Pietro non ha saputo capire che Giuda stava tramando il tradimento del maestro, gli altri sono scappati vinti dalla paura. Di chi fidarsi? A chi credere ancora? Parlano di Gesù al passato: “Fu profeta potente in opere e parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e crocifisso. Noi speravamo …”. Ora non sperano più. Eppure Gesù ha annunciato nel corso del suo cammino la necessità della sua passione, morte e resurrezione. Come i discepoli di Emmaus, tante volte ci fermiamo alla morte, dimentichiamo che la croce è il luogo dal quale Cristo è risorto; è “croce radiosa”, come diceva la chiesa antica, croce dalla quale sgorgano le energie della resurrezione. Pensiamo alla croce gloriosa del vangelo di Giovanni. Ma i discepoli di Emmaus credono solo alla loro delusione. Dicono che ci sono state “alcune donne, delle nostre, che ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo”. Ma come credere a delle donne? È vero che “alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”. Non hanno visto. Nel cammino di fede c’è poco da vedere. E Gesù risorto sembra ricominciare da capo la sua vicenda. Quante volte mi vien da pensare che, una volta risorto, avrebbe potuto scegliere altri discepoli, più saldi, più affidabili, più forti … No. Gesù risorto ricomincia, ricomincia da capo con gli stessi, li va a cercare, si mette accanto a loro sul loro cammino e ricomincia a spiegare le Scritture. E la sera, quando i discepoli lo invitano a restare, pone quel gesto: prende il pane, lo benedice, lo spezza, lo distribuisce. Scrittura ed Eucarestia, Parola spezzata, pane spezzato. È la sua vita che è vita eucaristica, spezzata per stare accanto a questi poveri uomini e amarli e sostenerli nel crollo delle loro speranze. E subito la speranza rinasce, perché qualcuno si è fatto vicino, ha fatto un pezzo di strada con noi. La speranza non l’ancoriamo al raggiungimento di opere, progetti, risultati gratificanti. La nostra unica risorsa è la presenza di quel viandante che viene accanto a noi lungo il nostro cammino e ci riscalda il cuore. Senza indulgere al lamento occorre assumere la responsabilità di una speranza viva, attraversare la storia in cui siamo posti e in essa riconoscere la traccia della speranza … e allora si può far ritorno a Gerusalemme, fare ritorno in comunità e annunciare che il fuoco nel cuore ricomincia ad ardere, a bruciare al calore delle Scritture e dell’Eucarestia. Allora anche la nostra vita può diventare trasparenza della Parola, “evangelo vivente”, pane spezzato, “vita eucaristica”.
I due discepoli di Emmaus potranno divenire testimoni del Risorto a partire dal lutto per le speranze che nutrivano nei confronti di Gesù; si erano creati un’immagine di Gesù come di qualcuno che soddisfaceva i loro desideri e i loro sogni. Le nostre speranze vanno purificate; non diamo per scontato che siano conformi al vangelo! Questa pagina del vangelo di Luca, mentre chiede una purificazione della nostra speranza, ci ricorda anche il suo carattere paradossale: la speranza del Risorto sgorga da una tomba vuota! Nasce dal mettere a morte altre speranze, che sono false speranze!

3. La zizzania e il grano buono

Il clima che respiriamo nelle nostre riunioni di qualsiasi genere e tipo, nei nostri incontri, nei nostri dialoghi è spesso un clima disfattista. Si parla di sanità? È tutto un disastro; i medici sono incapaci, gli ospedali non funzionano. Si parla di scuola? Gli insegnanti non fanno niente, sono impreparati. Si parla di politica? È una cosa sporca; tutti i politici sono corrotti, ladri. Si parla di chiesa, di preti? Lasciamo perdere. Indubbiamente vi è una buona parte di verità in queste lamentele. Se ci mettiamo insieme a elencare tutto quello che non va, credo che potrei contribuirvi ampiamente. Però politica deriva da pólis=città, polítes=cittadino; tutto ciò che concerne i luoghi in cui abito mi riguarda, mi interessa, ne sono anch’io responsabile. E il tirarmene fuori è già un prendere posizione, lasciare che tutto continui così, che chi fa la voce più grossa domini sugli altri.
Pensavo alla parabola della zizzania (Mt 13,24-30). La ricordate: Gesù dice che il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo, ma durante la notte un suo nemico semina della zizzania, un’erba infestante, cattiva. I servi del padrone del campo quando si accorgono che è spuntata anche la zizzania e non soltanto il grano buono chiedono pieni di zelo: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”; e, inaspettatamente il padrone dice di no. “No, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’uno e l’altra crescano insieme fino alla mietitura e, al momento della mietitura, dirò ai mietitori: accogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano riponetelo nel granaio”. Nel campo non c’è solo il grano buono; c’è un altro che ha gettato il suo seme, c’è qualcosa, un corpo estraneo, che ostacola quella crescita del seme buono che sembrerebbe così naturale, quello sviluppo da seme a spiga matura. Matteo riporta qui l’esperienza della sua chiesa. Gesù ha gettato la sua Parola, gli apostoli hanno seminato la parola con la loro predicazione, eppure all’interno della comunità di Gesù, all’interno della chiesa c’è la zizzania, c’è il male. Nelle nostre comunità cristiane che dovrebbero essere segno profetico per il mondo, sale della terra, luce da porre sul candelabro, profezia dell’amore, della pace del Regno, quanta ingiustizia, quanta prepotenza, quanto sovrabbonda la zizzania della maldicenza, dello sguardo cattivo, del giudizio e della condanna dell’altro! e dentro di noi, nel campo del nostro cuore, non avviene la stessa cosa? Il seme buono è stato gettato in abbondanza (dal battesimo, quante volte abbiamo sentito annunciare il vangelo!). E nel mondo intero non accade la stessa cosa? Perché? Nella parabola della zizzania non c’è una risposta a questa domanda. Ci sono domande nella vita a cui non viene data risposta e questo accade anche nel dialogo con il Signore. Tante volte non c’è risposta agli interrogativi che gli poniamo molto semplicemente perché le nostre domande sono mal poste e allora ci viene risposto con un’altra domanda che ci interpella e ci chiama in causa. Una delle domande che non trovano risposta è quella del male in tutte le sue forme. Di fronte a questo mistero, a questa forza che pure ben conosciamo e sperimentiamo dentro di noi e fuori di noi, i nostri perché si perdono nel silenzio e un’altra domanda ci raggiunge: “Tu, come reagisci dinanzi al male? Dinanzi alla zizzania, alla cattiveria, al male, alla sofferenza? Come vivi quella “dolce speranza” (Sap 12,19) che il Padre ha posto nel cuore dei suoi figli? E questa “dolce speranza” c’è in ogni essere umano, credente o non credente; c’è in ogni uomo, in ogni donna quello che il libro del Qoelet chiama “il senso dell’eternità” (Qo 3,1), cioè vogliamo che le cose belle durino, restino per sempre, ci ribelliamo alla malattia e alla morte.
Ma nel mondo la zizzania c’è. A dispetto di ogni nostro illusione infantile la realtà nella quale viviamo è ferita, mancante, deludente. Anzi, più nel nostro cuore desideriamo il grano buono e più vediamo quella zizzania infestante che a volte sembra soffocare ogni tenera pianticella e sembra dichiarare l’inutilità di qualsiasi sforzo per coltivare il campo. L’insegnamento di Gesù non si concentra sul “perché” è apparsa la zizzania, ma sul “come” comportarsi dinanzi ad essa. “Lasciatela”: è un ordine che ci sconcerta, che contrasta quella che riteniamo la parte migliore di noi, il nostro desiderio di giustizia, verità, santità, radicalità cioè quello zelo che tante volte crediamo zelo buono e che in realtà non si manifesta diverso dallo zelo di quei due apostoli, Giacomo e Giovanni, i figli del tuono, che al vedere Gesù rifiutato, respinto dagli abitanti di un villaggio samaritano, gli chiedono: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (Lc 9,54). Non avevano capito molto dell’insegnamento di Gesù. Eppure quante volte nel corso della storia ci sentiamo sentiti autorizzati ad accendere roghi per bruciare chi secondo noi non accoglieva Gesù! C’è una volontà di sradicare il male sradicando il peccatore che non è secondo Dio (papa Giovanni). La chiesa non è una setta di puri, le nostre comunità non sono il regno dei cieli. È vero che poi Matteo, pochi capitoli più avanti, parlerà della necessità di richiamare, e anche pubblicamente, con forza, chi non vive secondo il vangelo, ma questo va fatto nella carità, con spirito fraterno ricordando sempre che neppure noi siamo giusti. Ma la parabola ci ricorda anche un’altra cosa. Che siamo istintivamente portati a vedere più la zizzania che il grano buono, più il male che il bene, quello che non va nelle nostre comunità, nelle nostre chiese, nel nostro mondo e finiamo per non vedere le cose buone, le persone buone che pure ci sono. (Proverbio brasiliano: fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce). La parabola ci dice che questo non è il tempo del giudizio, che non è nostro compito fare piazza pulita. Discernere sì, denunciare il male con coraggio osando una parola pubblica sì; c’è una lotta contro il male ma nel frattempo la nostra cura si deve volgere a quel fragile stelo di grano. Il fatto che la zizzania ci sia non significa che non si può fare niente di bello, di buono, che non si può gioire e che si deve passare la vita a lamentarci, brontolare, mormorare. Ci vuole coraggio per fare questo, ci vuole coraggio per fare il proprio dovere con onestà e serietà.
Perché i media, la stampa non danno spazio o, quanto meno ne danno poco alle iniziative buone che pure ci sono? Esistono tante realtà in cui si cerca di vivere accoglienza reciproca, il rispetto dell’altro, in cui si cerca di vivere il compito di divenire “umani”! Richiamo due autori antichi un pagano e uno cristiano. Terenzio: “Sono un uomo, nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. L’altro è Teofilo di Antiochia, autore del ii secolo: “Mostrami il tuo uomo e ti dirò chi è il tuo Dio”. In queste due citazioni vedo un ponte tra credenti e non-credenti. Il credente è chiamato a essere un uomo, non a fare il cristiano come fosse un mestiere che mi tiene occupato alcune ore alla settimana (la messa della domenica, qualche ora di volontariato, il catechismo o non so qual altra attività religiosa); il cristiano è un uomo che pensa, vive le relazioni con se stesso, con gli altri, con la pólis, da cristiano, cioè vive la pratica di umanità di Gesù. Ha detto papa Francesco parlando ai giovani che Francesco di Assisi “ha fatto crescere la fede, ha rinnovato la Chiesa; e nello stesso tempo ha rinnovato la società, l’ha resa più fraterna, ma sempre con il Vangelo, con la testimonianza. Predicate sempre il Vangelo e se fosse necessario, anche con le parole” (Incontro con i giovani dell’Umbria, Assisi (Perugia), 4 ottobre 2013, in: L’Osservatore Romano, domenica 6 ottobre 2013, CLIII [229], p. 7).
Gesù ci ha mostrato Dio. È il suo modo di vivere l’umanità che ci racconta chi è Dio. Dio non muta le pietre in pane, noi cerchiamo i miracoli, ciò che è straordinario, che si impone con la forza, ma Dio non è lì. Dio è in una vita umanissima vissuta nell’amore, nell’attenzione all’altro, al malato, al piccolo, all’emarginato … Riprendo le parole di un fratello della mia comunità Luciano Manicardi:
“Il credente è chiamato a essere ‘un uomo’. Un uomo che sa stare con gli altri uomini, quali che siano le loro credenze e le loro incredulità, perché condivide con loro la passione per l’umano (Terenzio), la passione per la vita, la passione per la storia. Anzi, sarebbe ora che la smettessimo di parlare di credenti e non-credenti. Ci rendiamo conto che il credente di oggi è frutto dei lasciti culturali di tanti non-credenti di ieri, di fenomeni laici e laicissimi? E che il non-credente di oggi ha respirato ed è imbevuto di valori e idee forgiate dal cristianesimo? Si tratta di uscire dalle contrapposizioni ideologiche, ormai stantìe, e ritrovare nel comune terreno dell’umano, nella comune opera di ricostruzione di una grammatica dell’umano il compito che ci sta davanti” (L. Manicardi, A. Profumo, Stare al mondo, Trento 2015, pp. 40-41). La specificità del cristianesimo è data dall’annuncio di un amore che vince la morte, cioè di un amore che resta nonostante tutto e noi siamo chiamati a vivere questo già qui e ora.

4. Ricominciare

Abbiamo citato le parole di Giovanni Climaco: “La conversione è figlia della speranza e rinnegamento della disperazione” (Giovanni Climaco, La scala del paradiso 5,2). La disperazione è lasciarsi andare, è il venir meno del pes, del piede (des-peratio) lungo il cammino, – diceva Tommaso d’Aquino - è lasciar vincere la morte sulla vita.
“Ricominciare” è un verbo assai caro alla tradizione monastica. Fin dalle origini il monachesimo ha colto l’urgenza evangelica di un’incessante conversione per ricominciare ogni giorno, nonostante le cadute e le infedeltà, la sequela del Signore. Atanasio il grande nella Vita di Antonio, afferma: “Antonio, dunque,non si ricordava del tempo trascorso, ma ogni giorno, come se incominciasse in quel momento la vita di ascesi, intensificava i suoi sforzi per progredire e ripeteva continuamente le parole di Paolo: “Dimentico del passato, tendo verso ciò che sta innanzi “(Fil 3,13). Ricordava anche le parole del profeta Elia che dice: È vivente il Signore alla cui presenza io oggi sto (1Re 17,1). Osservava infatti che dicendo “oggi”, il profeta non misurava il tempo trascorso, ma, come se ogni volta incominciasse, cercava ogni giorno di presentarsi a Dio così come bisogna comparire dinanzi a lui con un cuore puro, pronto a obbedire alla sua volontà e a nessun altro. Diceva tra sé e sé: L’asceta deve imparare sempre a ordinare la propria vita guardando a quella di Elia come in uno specchio (Vita di Antonio 7,11-13).
Più volte il tema del ricominciare ogni giorno compare nella letteratura monastica. Nei Detti si riferiscono le parole di un anziano monaco che soleva ripetere: “C’é una voce che grida all’uomo fino all’ultimo respiro: Oggi, convertiti!” (Nau 10).
Con accenti diversi Gregorio di Nissa esprime questo continuo ricominciare che caratterizza la vita cristiana: “Quando l’anima ha goduto in parte dei doni di Dio, il Verbo di nuovo l’attira a partecipare alla sua bontà per mezzo di una rinuncia ... e l’anima scopre beni ulteriori e le sembra sempre di non essere che al principio dell’ascesa; è per questo che il Verbo ripete: “Alzati” a colei che è già alzata, ‘Vieni’ a colei che è già venuta. E chi si alza veramente bisognerà che si alzi sempre; colui che corre incontro al Signore non si arresta mai, andando da inizio a inizio con degli inizi che non hanno mai fine” (Sul Cantico dei cantici, om. 5).
Questo incessante ricominciare riguarda il singolo credente, la chiesa, la comunità monastica, ogni comunità cristiana. Possiamo ricominciare; grazie al perdono del Signore possiamo sperare di convertirci. Papa Giovanni XXIII chiamava la chiesa “la grande ricominciatrice”; essa testimonia la speranza di una nuova vita per tutti.
Gesù invia ad annunciare; il cristiano è diventato discepolo e, a nome del maestro, invita altri, insegna quello che lui per primo ha ascoltato. Pietro dirà che Gesù ci ha lasciato un esempio perché ne seguiamo le orme (cf. 1Pt 2,21) nelle vicende della nostra vita e sappiamo rendere conto della speranza che è in noi (cf. 2Pt 3,15). Cosa abbiamo da portare agli altri? La speranza, la speranza che il regno è vicino, che la vita è più forte della morte, che il Signore è con noi fino alla fine del mondo, ogni giorno, in ogni evento.
Le nostre malattie, le nostre crisi, le nostre tenebre, la nostra morte e quella di ogni uomo si apriranno alla vita. Questo crediamo e speriamo: la vita è più forte di ogni contraddizione, della morte stessa. Quando penso alla consolazione cristiana, a ciò che dovremmo dire a chi soffre, mi viene in mente il testo di At 14,22 in apparenza così sconvolgente. Paolo e Barnaba, raccontano gli Atti, ritornano in alcune comunità cristiane che erano state perseguitate, che avevano sofferto, e, dice Luca, “ridavano vita ai discepoli e li esortavano a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”. Quell’“è necessario” – in greco deî – ricorre negli annunci della passione, morte e resurrezione di Gesù. Non ci dice che la sofferenza è un bene, ma che c’è un disegno di Dio che passa attraverso la sofferenza, attraverso il mistero della morte ma che si apre alla vita. Paolo e Barnaba aiutano i cristiani che hanno sofferto, che hanno visto morire dei loro fratelli nella fede a leggere la loro sofferenza alla luce del cammino del Signore, a mettere il loro dolore in quello di Gesù e a credere in colui che è risorto dai morti. “Non tutto ciò che accade è volontà di Dio, ma in ogni cosa che accade c’è una via che conduce a Dio”, scriveva Dietrich Bonhoeffer dal carcere (Resistenza e resa, Paoline, Milano1988, p. 236). In tutto ciò che ci accade è possibile cogliere un raggio di speranza.
Gesù ha posto dei segni di speranza, ha guarito alcuni malati, ha ridato la vita ad alcuni che erano morti. Ci fermiamo sul testo di Gv 11,1-45, in cui Gesù richiama dai morti l’amico Lazzaro. Abbiamo qui il racconto dell'ultimo segno, ma soprattutto la rivelazione che chi aderisce a Gesù, anche se muore, vivrà. Gesù è il buon pastore, ci ha annunciato il cap. 10; ora, una delle sue pecore è malata. C'è un uomo che si chiama Lazzaro, nome che significa "Dio lo aiuta" e c'è il Signore che l'ama. Chi è l'uomo, se non questo grido: "Dio, vieni in mio aiuto"? Noi tutti ci chiamiamo Lazzaro. Gesù ama colui che è malato e viene in suo aiuto. Non si comporta come gli amici di Giobbe, non cerca una colpa che giustifichi la sua malattia, come facciamo spesso ancora noi oggi, forse non più per la malattia fisica, ma per quella psichica ... Gesù annuncia che la malattia di Lazzaro non è per la morte, ma per la gloria di Dio, cioè per il pieno compimento del disegno del Padre. La malattia di Lazzaro si aprirà alla manifestazione di questo disegno di vita. Dio è il Dio della vita. Le nostre malattie, le nostre crisi, le nostre tenebre, la morte di quelli che amiamo e la nostra morte si apriranno alla vita. Questo crediamo e speriamo. La vita è più forte della morte. Questa è la nostra speranza, questo l'annuncio che dobbiamo profetizzare dinanzi alla sofferenza, alla malattia, alla morte.
Dicono i padri del deserto: “Se cadi rialzati, e se di nuovo cadi, rialzati ancora, e se ancora cadi, rialzati di nuovo, finché verrà il Signore e troverà che sei caduto, ma ti stai rialzando e allora ti rialzerà definitivamente e ti porterà con sé” (Sisoes 48, in Detti editi e inediti, p. 65).
“Noi cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo ancora” (T. Collandier, Il cammino dell’asceta, p. 55). La vita monastica, o meglio la vita cristiana in qualsiasi vocazione sia vissuta, è un “luogo” nel quale si cade e si rialza, e di nuovo si cade e ci si rialza fino al giorno in cui il Signore tornerà e troverà che siamo caduti, ma ci stiamo rialzando e allora lui stesso ci rialzerà definitivamente. La perseveranza nella preghiera, nell’ascolto della parola di Dio, nell’eucarestia, nella comunione fraterna sostengono il credente nella lotta contro la rassegnazione alla propria mediocrità, contro l’assuefazione al male o la complicità con esso, e ravvivano nel cuore il desiderio di Dio, desiderio insaziabile, desiderio rinnovato dalla continua esperienza della misericordia di Dio nella propria vita.

Conclusione

Vorrei riportare a conclusione di questo nostro incontro un’immagine data da un monaco del deserto di Gaza del vi secolo, un monaco che era diventato abate di una comunità di monaci e che era molto preoccupato del loro amore vicendevole e della loro unità. Dice Doroteo:
“Immaginate che per terra vi sia un cerchio, una linea circolare tracciata con un compasso dal punto centrale. Si chiama centro il punto che sta proprio in mezzo al cerchio. Prestate attenzione a quello che vi dirò. Immaginate che questo cerchio sia il mondo, il punto centrale del cerchio Dio e i raggi che dalla circonferenza vanno al centro siano le vie cioè i modi di vivere degli uomini. Poiché dunque i santi, spinti dal desiderio di avvicinarsi a Dio, avanzano verso l’interno, quanto più avanzano, tanto più si avvicinano a Dio e si avvicinano gli uni agli altri. E immaginate nello stesso modo la separazione. Infatti è chiaro che quando si separano da Dio e ritornano verso l’esterno, quanto più escono e si allontanano da Dio, tanto più si allontanano gli uni dagli altri e quanto più si allontanano gli uni dagli altri tanto più si allontanano anche da Dio” (Insegnamenti 78).
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