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Jean Louis Ska Dall’uno all’altro testamento

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dall’uno all’altro testamento
IL RACCONTO DI MATTEO

COME LEGGERE LA BIBBIA OGGI 

(fonte) Iniziamo assieme un percorso di più di due giorni attraverso il Vangelo di Matteo e vorrei introdurre questo percorso prendendo un breve testo del Vangelo di Matteo alla fine del cap.13, il cap. 13 del Vangelo di Matteo contiene un lungo discorso sulle parabole e alla fine di questo discorso Gesù fa questa riflessione prima chiede ai discepoli: “avete capito tutto questo?“ rispondono: “Si“ ed Egli disse loro: “Per questo ogni scriba istruito nel regno dei cieli è simile a un padre di famiglia che trae dal suo scrigno cose nuove ed antiche“ e poi quando Gesù ebbe terminato queste parabole se ne andò via, versetto 52 del cap.13 del Vangelo di Matteo.

Prendo questo versetto per introdurre le mie riflessioni perché si può interpretare questo versetto in diversi modi, ma si può vedere lì quello che fa qualcuno quando legge il Vangelo, quando legge la Bibbia: trova cose antiche e cose nuove e ogni volta che apre o riapre la Bibbia trova cose antiche e cose nuove. E’ sempre nuova la Bibbia perché la leggiamo in un contesto diverso o perché noi siamo diversi e quindi abbiamo altre domande, altre prospettive o vediamo la Bibbia in modo diverso o perché contiene anche il passato, il presente e il futuro. Ci sono almeno due dimensioni principali in ogni testo, c’è qualche cosa che viene dal passato, dalla tradizione, che viene ripreso, reinterpretato e attualizzato per il momento presente. Quindi chiunque legge la Bibbia attentamente trova queste due dimensioni: cose antiche e cose nuove.

A partire da questo breve testo vorrei porvi una domanda e darvi stasera alcune indicazioni di risposta: cosa significa leggere?

Non intendo cosa sia la lettura della Bibbia in particolare, ma cosa significhi leggere. Un grande amico maestro che si chiamava Louis Alonso Schoekel che ha fatto la sua ultima conferenza al primo seminario biblico a Roma nel ’98, morto proprio a luglio di quell’anno, aveva fatto la sua conferenza a marzo. Schoekel diceva: “Il problema non è leggere la Bibbia, è leggere, reimparare a leggere“.

Cosa significa prendere un libro, aprirlo e percorrerlo dall’inizio alla fine, o prendere una pagina e leggere una pagina o un brano? Userò alcune immagini per semplificare la cosa e renderla forse anche più appetibile. Prenderò alcune serie di immagini: un libro può essere un documento, può essere un monumento può essere anche un avvenimento. Tre modi diversi di vedere un libro o di entrare in un libro qualsiasi.

Leggiamo molto spesso un libro, anche la Bibbia, come un documento che parla di altre cose. La leggiamo per sapere. Per esempio leggiamo il Vangelo per sapere di Gesù Cristo, che cosa ha fatto, cosa ha detto, qual’è la sua personalità, quali sono le sue qualità, da dove viene e dove va, quale è il senso della sua missione. Vogliamo che sia documentato sulla sua volontà, su quelle che sono le sue esigenze, su quello che ci chiede oggi, quello che ha detto ai suoi discepoli. C’è tutta una vena che ci consente di vedere in un libro un documento. Possiamo leggere l’Antico Testamento come un documento sulla storia di Israele: come è nato il popolo di Israele, dove è andato, come si è formato, quali sono le sue vicende, quali sono le peripezie della sua storia. Vediamo in che modo sia stato schiavo in Egitto, ve ne quindi uscito per poi vivere nel deserto. Vediamo come questo popolo abbia conquistato una terra, ed abbia instaurato una monarchia. Possiamo quindi leggere tutte le tappe della storia di Israele.

Nel libro dei Re per esempio vediamo come questo popolo finisca male, con l’esilio, ma come in seguito una minoranza riesca infine a tornare e ad avviare una ricostruzione. Abbiamo una documentazione, un libro che ci da’ informazioni su una storia: la storia d’Israele. Il Nuovo Testamento ci informa sulla nascita di un movimento iniziato da Gesù Cristo e perpetrato dai suoi discepoli, con il nome di Chiesa. Questo mi rappresenta il documento in sè .

Leggere i libri come documenti significa già leggere non superficialmente. Si può vedere una documentazione anche su tutto un ambiente.

Prendo un esempio molto semplice per dimostrare che è sempre possibile approfondire una lettura, persino secondo questo semplice aspetto di documento. Prendiamo il Pinocchio di Collodi, è la bella storia di un burattino, che attraverso varie vicende riesce alla fine a mutarsi in bambino. Leggendolo attentamente noteremo che anche questo libro, in sè, è il documento di un mondo ben particolare, rappresentativo di un epoca importante della storia dell’Italia e della mentalità dell’epoca.

[…]

Questa è quindi la dimostrazione che un libro così bello e semplice come Pinocchio può essere affrontato con diverse chiavi di lettura: chiave sociale, chiave psicologica, chiave educativa . Cerca infatti di trasmettere valori, e la lezione è semplice: andate a scuola. Da questo dipende il vostro avvenire e l’avvenire del paese.

Possiamo prendere in considerazione anche un altro libro molto famoso: il libro Cuore, di De Amicis. Anche in quest’ultimo si cerca di inculcare valori, per mezzo di storie tenere, un po’ strappalacrime. Si trasmettono ideali di patriottismo, senso civico, senso del lavoro dell’ubbidienza, e così via.. Quindi ogni libro può essere letto come documento. Ci fornisce una documentazione, non solo sulle informazioni dateci, ma anche sui valori trasmessi attraverso quello che viene raccontato nella narrativa. Quello che è importante vedere sono dunque i valori, gli ideali e le informazioni che sono trasmesse. Nessun libro, nessuna forma di narrazione può considerarsi completamente “innocente”, poiché cerca di convincere di una qualche cosa.

Dal vangelo di Giovanni si legge: “Tutto ciò ho scritto affinché voi crediate.” Da questa frase si capisce che è ben chiaro lo scopo. Non racconta solo per il gusto di raccontare , o per divertire, o magari per avere successo come narratore. Il suo interesse è di far credere. Tutto quello che ha scelto Giovanni nello scrivere il suo Vangelo è quello di trasmettere un messaggio, che è quello di far credere che Gesù Cristo sia proprio il Messia.

San Luca non lo dice alla fine, ma all’inizio del suo vangelo, rivolgendosi ad un teofilo : ” Quello che ti scriverò adesso non è per informarti, perché lo sai già. Sono tanti quello che lo hanno scritto. Ti scrivo per mostrarti che tutto quello che è stato detto è sicuro, è solido e così potrai verificare la solidità di quello che è già stato raccontato su Gesù Cristo. Non sono fiabe, leggende, sono sicure.”

Quando uno legge un libro considerandolo solo come un documento è chiaro che va a cercare un’altra cosa, e alcuni critici ritengono che questo modo di leggere sia troppo riduttivo. Il libro ha un valore in se stesso, non soltanto perché informa su delle cose, perché rispecchia i valori di un’epoca e permette di capire meglio un personaggio dell’autore, l’autore stesso o l’epoca a cui appartiene.

Torniamo a vedere cosa significa vedere in un libro un monumento. I veri valori importanti del racconto vanno ricercati all’interno, non all’esterno. Come disse uno di questi critici “la narrazione è il messaggio”, e quindi il messaggio non è da ricercare nella storia, nel contesto, nell’origine del libro o altrove. Il vero messaggio sta dentro la storia, nel percorso che si fa quando si legge. Ci sono diverse tappe, diversi momenti, e i veri valori da ricercare sono proprio all’interno di queste tappe.

Riprendo l’immagine molto bella di padre Alonso Schoekel del quale abbiamo già parlato, il quale paragona il racconto ad uno spartito da cantare, o suonare. Il messaggio sta dentro e da tutto quello che sta dentro possiamo capirne il significato. Il significato è il percorso che si fa leggendo: accumulare le immagini, mettere assieme le parole e le ripetizioni vedendo come si costruisce il significato.

San Matteo inizia con l’infanzia di Gesù, e poi costruisce il suo vangelo inserendo cinque grandi discorsi, tra i quali notiamo una progressione.

Il primo grande discorso è quello delle beatitudini; il secondo (capitolo dieci) è il discorso delle missioni, il terzo è quello delle parabole, il quarto è (nel capitolo diciotto) sulla vita comunitaria e infine (nel 24,25imo capitolo) un discorso sugli ultimi tempi.

Questi discorsi sono come cinque pilastri di un portico del quale formano l’architettura. E’ importante vedere come ogni racconto abbia una sua architettura, e questa immagine ci suggerisce che dovremmo affrontare un racconto come se percorressimo un palazzo. Attraversando le diverse sale, salendo un piano dopo l’altro fino all’ultimo, dal quale avremo una panoramica più ampia e completa, scopriremo così a poco a poco l’insieme del libro comprendendo al meglio il suo significato.

Non dimentichiamoci tuttavia che la vera importanza risiederà nel monumento, nell’insieme, nell’unità: ogni racconto, ogni libro e quindi ogni vangelo allo stesso modo è un monumento. Noi possiamo accumulare diverse informazioni sull’ambiente di questo racconto, le circostanze della sua nascita, le sue origini, sul contesto, sulla lingua e sulla cultura del tempo, ma tutto questo non ci dà il suo significato vero, la chiave. La chiave è solo al suo interno.

Possiamo leggere molte cose sul vangelo e possiamo leggerlo molte volte, ma se non ci entriamo dentro non capiremo cosa sia realmente il vangelo e di cosa parli. Il vangelo rimane sempre un documento, è vero, essendo stato scritto ben venti secoli fa, e non possiamo ignorare il fatto che vada letto secondo i contesti dell’epoca. Ma proprio per questo possiamo dire che è un monumento antico, adatto al ritmo antico, che segue le regole e le convenzioni antiche, costruito secondo criteri dell’architettura antica. Per quanto riguarda il monumento, mi torna ancora in mente il libro di De Amicis: il significato vero dei suoi racconti risiede nel mondo dei sentimenti che l’autore riesce a destare in tutti noi. Nel momento in cui si legge del piccolo genovese ci si mette a piangere, ed è proprio questo lo scopo: svegliare sentimenti nel cuore del lettore e fargli percorrere un viaggio interiore.

Consideriamo ora il terzo punto, la terza tappa: l’avvenimento.

Riprendo l’immagine di padre Alonso: ogni racconto è come uno spartito di musica.

Non possiamo dire che lo spartito sia musica, perché c’è musica solo quando uno suona o canta. Allo stesso modo il libro esiste solo nel momento in cui uno lo apre e lo percorre, e non certo quando lo lascia chiuso lì su uno scaffale di biblioteca. Il significato esiste solo nel momento della lettura, altrimenti è solo potenziale: nonostante permanga la sua fisicità un libro esiste realmente se è percorso da qualcuno che lo legge. Non esiste libro senza lettore come non esiste musica senza interprete. Senza contributo del lettore non c’è significato.

E allora come c’è chi suona bene o chi stona per mancanza di pratica, anche nella lettura ci vuole esercizio; e non ci sono molti mezzi per imparare a leggere se non leggendo.

Leggere è come suonare: uno comincia con lo studiare le scale e le composizioni esercitandosi fino a che non gli viene naturale. E l’ideale è suonare senza far sentire lo sforzo, altrimenti si suona male. Questo comporterà tanto esercizio, l’esercizio di una vita.

La vera interpretazione la viviamo ogni giorno e la Bibbia la dobbiamo quindi interpretare con la nostra vita. gli interpreti siamo noi, i lettori, la comunità cristiana che vive assieme e legge assieme il messaggio evangelico.

L’elemento importante in questa terza linea di interpretazione è il contributo attivo del lettore o dei lettori.

E’ importante notare che non siamo mai soli nella lettura (benchè ci capiti spesso di leggere la Bibbia da soli): tanti l’hanno letta prima di noi, tanti la leggono con noi, in comunità, in tante parti del mondo. E a questo punto non si tratta più di un’esecuzione da solista ma di un grande concerto, di un grande coro: leggiamo insieme, cantiamo insieme, interpretiamo insieme aiutandoci l’un l’altro nella lettura. Ciascuno darà il proprio contributo personale ed unico, ciascuno darà un angolo di visione del monumento che gli altri non hanno. Ognuno di noi è lo strumento unico che fa parte di quella grande orchestra che è la comunità cristiana.

Riassumendo dalla prima tappa: abbiamo in un libro un documento che ci informa di tante cose, abbiamo un monumento che è il valore in se stesso, abbiamo un avvenimento, o un evento, perché la lettura non può avvenire senza il nostro contributo. C’è sempre qualcosa di noi nella lettura, la lettura non può mai essere soggettiva, perché ci sono sempre lettori che intervengono e aprono prospettive diverse.

Passo alla seconda tappa e utilizzo tre immagini diverse per fare di nuovo un percorso attraverso l’atto della lettura e le possibilità di interpretazione. Il libro può essere considerato come uno specchio, una lampada od una finestra.

Lo specchio: un’immagine molto antica, citata per esempio nella Repubblica di Platone o nella Poetica di Aristotele. Spiego brevemente la visione avuta da Platone, visto che era stato lui ad avere l’intuizione e Aristotele ne aveva solo ripreso l’idea.

Platone, come sappiamo, divideva la realtà in diversi piani, aveva una visione gerarchica della realtà. In cima a questa scala gerarchica c’era il mondo delle Idee, subito sotto c’era il mondo sensibile, il mondo in cui viviamo. Quest’ultimo era il mondo effimero, il mondo della storia, il mondo instabile e quindi mortale; il primo al contrario era caratterizzato dalla stabilità, dall’eternità, dall’immutabilità, dall’immortalità.

Il livello ancora inferiore, il terzo, un po’ meno conosciuto dei primi due, è il mondo della letteratura e dell’arte.

La letteratura e l’arte stessa secondo Platone è come l’immagine di uno specchio. Infatti la realtà vera è del mondo delle Idee (o dello spirito), in seguito vi è il mondo effimero dei sensi e quindi per ultimo l’immagine delle realtà del mondo dei sensi (l’immagine dello specchio, appunto).

Dunque le statue greche, per esempio, non sono che riproduzioni di una realtà, una realtà fatta di uomini e donne, la realtà sensibile.

Per Platone, come per Aristotele, l’arte rispecchia una certa realtà in modo fedele; l’arte è realistica e riproduce ciò che si vede e si sente.

Questo ideale dell’arte classica è rimasto immutato per secoli, fino all’età romantica circa.

Quando leggiamo un romanzo sappiamo che è un’opera di immaginazione, tuttavia ricerchiamo comunque la verosimiglianza, dev’essere simile al vero! Apprezziamo i romanzi quando ci fanno vivere esperienze che siano verosimili e che siano vicine alla realtà.

Quando leggiamo la Bibbia forse la affrontiamo anch’essa seguendo i parametri dell’arte classica e vogliamo ritrovarci una riproduzione della realtà. Molto spesso ripeto che leggiamo i vangeli come guardiamo la televisione: vediamo il susseguirsi davanti a noi di immagini e pensiamo che siano fotografie della realtà. Quello che ci descrive il vangelo sarebbe, per esempio, il filmato della vita di Gesù Cristo. Come se i discepoli o gli evangelisti avessero seguito con una macchina fotografica od una telecamera Gesù, come se fossero stati giornalisti moderni, filmando tutto quello che facevano.

Tuttavia, considerando i filmati e le riproduzioni attuali della vita di Gesù, ci accorgiamo che sono stati comunque montati per mezzo dell’immaginazione umana, e con l’intento di trasmettere un determinato messaggio. Così anche gli evangelisti non possono essere considerati giornalisti, non possono rappresentare fedelmente la realtà come specchi. O forse specchi solo di una certa realtà, la realtà che ci vuole trasmettere l’evangelista.

Un esempio è, come ho detto prima, San Giovanni : dice chiaramente che il suo proposito è quello di farci credere, quindi non rimane alla superficie, ma sceglie e “disegna” bene le sue immagini. Mette in risalto alcuni aspetti e non considera altri che non ritiene utili. Non è una fotografia, ma una pittura. La pittura come sappiamo mette in risalto dettagli che non sono sempre visibili, rappresenta una realtà interpretata e letta in un certo modo.

Un’altro esempio molto semplice lo possiamo trarre dalla Divina Commedia di Dante: non abbiamo un filmato del medioevo, o della storia di Firenze all’epoca di Dante, ma è un’interpretazione della storia, ovvero mette in risalto quello che, secondo lui, rimane per l’eternità. La personalità di ogni figura che appare nella Divina Commedia è fissata nella sua eternità. Fa apparire nella storia di questi personaggi quello che per lui rimane nell’eternità. Non rimane certo alla superficie: le sue fantastiche descrizioni riportano piccoli particolari che fanno vedere qual’è la profondità di ciascuna persona o di ciascun avvenimento.

Questo lo ritroviamo anche nel vangelo. Il vangelo non è semplice filmato di quello che è accaduto – e spesso è evidente che i fatti non possono essere stati riportati in modo giornalistico in passi dove si dice per esempio “gli scribi pensavano in se stessi che..”- E’ l’evangelista che interpreta il comportamento di Gesù in certe circostanze per far capire quale sia il suo messaggio.

Non possiamo semplicemente leggere la Bibbia o il vangelo soltanto come specchio di una certa realtà. O almeno è possibile secondo un certo aspetto che hanno riportato gli scrittori e critici romantici.

Secondo questi il libro ci permette di ritrovare la luce di una lampada, oppure il fiume che esce da una sorgente. Queste due immagini le ritroviamo spesso nell’età romantica per descrivere l’attività letteraria. Si riconduceva l’opera al suo autore e l’autore ad una personalità eccezionale, fonte di luce, sorgente di valori, di arte, di immagini, di significati nuovi. Nell’età romantica si esaltava la personalità del genio letterario.

Il modo di molti di leggere la Bibbia si rifà spesso a quella critica romantica, infatti quello che ricerchiamo spesso nel vangelo è la personalità dell’evangelista.

Per esempio in Luca si descrive Luca l’evangelista, Luca che si interessa molto delle donne, Luca che mette in risalto l’aspetto misericordioso di Gesù, che sottolinea tutti gli episodi dove vi è uno scoppio di gioia per la salvezza, che sottolinea tutti gli episodi dove la salvezza si manifesta “oggi” -il famoso “oggi” di San Luca: “oggi è nato il Salvatore”, “oggi sarai in Paradiso con me”, “oggi la salvezza è entrata in questa casa”, etc.. – .

San Giovanni invece è il mistico. Vede in trasparenza in ogni evento della vita di Gesù la gloria del Figlio di Dio, la gloria del risorto. Nei racconti delle nozze di Cana, nella chiamata dei discepoli, nella conversazione con la samaritana, la moltiplicazione dei pani, la resurrezione di Lazzaro, etc.. appare il Gesù, non quello che gli ebrei o i romani hanno visto camminare per le vie di Gerusalemme, di Nazareth o di Cafarnao, o sulle strade della terra promessa ma il Figlio di Dio, il Verbo incarnato.

Nel vangelo di Giovanni abbiamo diversi registri, e quello è il genio di Giovanni (o dell’autore di questo vangelo). Questo autore, o la scuola giovannea, mette in risalto una dimensione particolare di Gesù; questo lo dobbiamo non alla realtà come tale, ma a chi fa vedere la realtà secondo un certo angolo.

Senza Giovanni, Luca, Marco, Paolo e senza gli autori dell’Antico Testamento non potremmo leggere la storia dell’antico Israele, la storia della Chiesa primitiva e di Gesù Cristo come le leggiamo. Ci vuole qualcuno per illuminare la storia, ci vuole una lampada, altrimenti saremmo nel buio. Dunque possiamo dire che ognuno di questi autori sia una lampada che illumina gli eventi e fa apparire un messaggio.

Abbiamo nei documenti lo specchio di una certa realtà, una realtà illuminata dall’autore. Senza autore non c’è opera, non c’è realtà significativa.

Ci sono eventi, significativi e non, tutti i giorni. Questo perché c’è qualcuno che scopre e legge il significato del messaggio. Quindi gli eventi è la realtà non hanno significato se non c’è qualcuno per scoprirlo. Concetto semplice ed elementare: c’è chi vede e chi non vede.

Per prendere un esempio dal vangelo di Luca: nella parabola del buon samaritano tanta gente è passata sulla strada, è passato il sacerdote, è passato il levita è passato il buon samaritano.

Hanno tutti e tre visto quel poveraccio morente sulla strada, ma c’è chi l’ ha visto ed è passato sull’altro lato della strada e c’è chi si è commosso. Non sono gli stessi occhi, non è lo stesso sguardo.

Allo stesso modo Dante legge la storia della Firenze medievale e fa vedere che c’è un Inferno, un Purgatorio ed un Paradiso.

Passo ora all’immagine della finestra. Questa è un’immagine che possiamo sempre adoperare, infatti è vero che in un libro abbiamo la realtà rispecchiata in un certo modo, ma l’autore quando fa vedere ed illumina non fa altro che aprire una finestra.

Un libro, come un articolo di giornale, è una finestra aperta sul mondo. Aperta, bene o male, o addirittura chiusa, con il vetro più o meno pulito, ma pur sempre finestra.

Mi viene in mente un’immagine di Marcel Proust, tratta da “Alla ricerca del tempo perduto”, in cui descrive la brillante esecuzione di un famoso pianista dell’epoca come “una finestra aperta su di un capolavoro”. Era un interprete trasparente, l’unico scopo di questo pianista era di fare apprezzare l’opera dell’autore, in modo che il pubblico apprezzasse la musica e non il musicista.

Il vero autore non deve attirare l’attenzione su stesso, ma deve fare apprezzare una certa realtà e far fare l’esperienza di aprire la finestra su di un capolavoro.

Il vangelo è proprio una finestra aperta sul capolavoro Gesù Cristo, sulla sua missione, sulla sua vita, sulla sua resurrezione e che mette bene in risalto l’aspetto profondo di questa realtà che non si ferma alla superficie, aprendo la finestra sull’aspetto più importante e più bello.

E ‘ importante avere bene in mente queste immagini, questi percorsi possibili.

Un libro, un racconto, un salmo, rispecchia una certa realtà, illuminata da un autore. I veri autori, quelli più importanti che ci guidano di più sono quelli che aprono finestre sul mondo che conta, che non è quello che passa e finisce, ma quello importante che ci permette di vivere.

Il percorso che faremo in questi giorni sarà basato soprattutto su questo: cercheremo di vedere nelle finestre che San Matteo ci apre.

VANGELO E VANGELI 

Accenno un paragone semplice tra i quattro vangeli.

Ho scelto un testo comune che si trova in ogni vangelo e che permette di vedere come vi siano tra loro delle differenze di taglio, ma non solo, nonostante narrino lo stesso episodio. Questo episodio ci permette di notare anche una certa evoluzione tra un vangelo e l’altro, a partire dal vangelo di Marco, poi quelli di Matteo e Luca, e per ultimo Giovanni.

Nella descrizione della passione di Gesù, la versione di Matteo si accosta un po’ di più rispetto a Marco, la traccia che seguono è la stessa, nonostante Matteo si dimostri un po’ più esplicito. Luca si distacca da questi, ed ancora oltre troviamo la versione di Giovanni.

Conoscete tutti, nella passione di Gesù, la scena dove interviene Simone il Cireneo: ci giunge subito agli occhi l’immagine di Gesù che porta la croce e qualcuno che lo aiuta dietro.

Questo è un bellissimo esempio perché non c’è nessun vangelo che dica questo: nessun vangelo ha mai detto che qualcuno aiutò Gesù a portare la croce, ma è una rappresentazione che troviamo in tutte le chiese, ed è più tardiva.

A questo proposito Marco dice(cap.15) : “Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce di lui.” Quindi è proprio Simone a portare la croce, non Gesù.

Questo fa parte anche della pittura di Marco: Gesù è abbandonato da tutti ed è così debole che devono costringere qualcuno a portare la sua croce, perché non ce la fa più.

Marco ricorda così Simone ed anche i suoi figli, dei quali ricorda i nomi in quanto probabilmente li conosceva, essendo un abitante di Gerusalemme (all’epoca era poco più che un borgo).

“Condussero dunque Gesù al luogo del Golgota, che significa luogo del cranio, e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese”, quindi gli danno una bevanda inebriante, così non avrebbe sofferto, ma egli rifiuta.

“Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere” […] “Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: – Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!- Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: -Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo-. E anche quelli che erano crocifissi con Lui lo insultavano “. Quindi tre gruppi lo schernivano: i passanti, scribi e sacerdoti, e i due ladroni.

“Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lema sabactàni? che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ” Così Gesù sembra abbandonato da tutti, persino da Dio: questa è l’immagine che Marco da’. Descrive la sofferenza del giusto perseguitato e abbandonato da tutti.

E ‘ proprio in questo modo che per Marco Gesù diventa il salvatore, prendendo su di sè tutte le sofferenze.

Questa stessa immagine la ritroviamo nei salmi dei profeti.

Se passiamo a Matteo ritroviamo la traccia e le espressioni di Marco. L’unica differenza è che Matteo esplicita tutto quanto con riferimenti alla scrittura. Quindi il giusto sofferente e innocente diventa il giusto dei salmi (salmo 22).

Matteo riprende Marco, ma formula in modo diverso, la citazione diventa più chiara ed esplicita.

“Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la croce di lui. Giunti a un luogo detto Golgota, che significa cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ” Qua c’è la prima differenza. La scelta del fiele sta nel fatto che Matteo si rifà al salmo 69, che è un salmo recitato da un giusto, innocente, perseguitato, abbandonato e infine salvato da Dio.

Cap.27,35 : “Dopo averlo quindi crocifisso, si spartirono le sue vesti tirandole a sorte”. Una citazione del salmo 22.

Cap.27,43 : “..Ha confidato in Dio: lo liberi lui ora, se gli vuol bene” Cambia nuovamente dalla versione di Marco, per fare una citazione del salmo 22.

E questo salmo, come sappiamo, inizia proprio con le parole “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? “, quindi la terza citazione dal salmo 22.

Passiamo a Luca (cap.23,26).

“Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù”

Vediamo ancora la figura di Simone, che porta la croce al posto di Gesù. Il portarla dietro a Gesù vuole simboleggiare il modello del cristiano. Questo è tipico di Luca: fa di Cristo un modello da seguire; il cristiano è colui che imita Gesù. Leggendo gli Atti ne abbiamo tanti esempi: Santo Stefano muore come Gesù e dice parole simili; Pietro compie miracoli simili; Paolo ha una missione simile a quella di Gesù e anche lui finisce male, perseguito; etc..

Probabilmente l’iconografia cristiana ha ripreso l’immagine, in cui Gesù e Simone portano insieme la croce, proprio dalla lettura del vangelo di Luca.

Da questo punto in poi il racconto si fa già molto diverso. “Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui” Vediamo che qua la folla è come se si fosse già convertita, perché soffre per lui e si batte il petto. Non lo scherniscono, ma sembra che abbiano già capito la grandezza di quell’evento.

Cap.23,34: “Gesù diceva-Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Questo versetto c’è solo in Luca, e qui appare il Cristo misericordioso e del perdono, ed è modello del perdono.

Cap.23,35: “Il popolo stava a guardare,..”.Il popolo di Luca è diverso, non schernisce Gesù, ma lo fanno i capi e i soldati.

Un’altra differenza è nei due ladroni: uno di questi è buono e rimprovera l’altro di non aver timore neanche di Dio.

Cap.24,46: “..-Padre nelle tue mani consegno il mio spirito-..” Questa è una citazione del salmo 31, di abbandono e fiducia in Dio. Gesù non muore più abbandonato come per Matteo e Marco, ma fiducioso in Dio. E ‘ l’esempio di come vivere la sua esperienza.

L’immagine che da’ Luca non è più quella del giusto abbandonato, sofferente, scacciato, e la tragicità della passione sembra superata dalla comunità cristiana, che ne ha compreso il significato.

In Giovanni cap.19,16 “Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò al luogo del Cranio,..”. L’unico vangelo dove Gesù si porta la croce da sè. In tutta questa versione Giovanni mostra un Gesù perfettamente cosciente di quello che gli sta per capitare e si sottomette di sua spontanea volontà, senza esitare.

Basta rileggere il capitolo 18, la scena in cui i soldati vanno a prendere Gesù: non c’è agonia. Addirittura quando Gesù chiede loro chi stessero cercando, questi rispondono indietreggiando e cadendo a terra.

In Giovanni Gesù va liberamente alla passione, rappresenta già il Cristo glorificato. Non ci sono più scene di scherno, e soprattutto appare un discepolo. Mentre negli altri vangeli tutti gli amici erano lontani, in questo ha al suo fianco il discepolo che amava.

Notiamo nella presenza o meno dei discepoli un’evoluzione da un vangelo all’altro: in Marco e Matteo i discepoli erano già fuggiti durante la crocifissione, in Luca guardavano ma da lontano, e solo in Giovanni c’è la loro presenza.

IL GESÙ DELLA STORIA E IL CRISTIANO DELLA COMUNITÀ DI MATTEO

Faccio alcune riflessioni sulla parabola del chicco di senapa e sulla parabola del lievito.

L’immagine dell’albero si trova molto spesso nell’antico testamento, ma per capirla meglio bisogna ricordarsi che la terra di Israele è una terra arida.

Gli alberi sono pochi, dunque quando c’è un albero è segno di qualcosa: è una terra dove c’è acqua, e dove c’è acqua c’è vita. Se c’è un albero grande significa che lì è potuta sopravvivere la vegetazione per molte generazioni, ed è sopravvissuta anche a stagioni difficili.

La figura dell’albero (specialmente se di grandi dimensioni) è un simbolo che parla molto nella cultura del medio oriente antico e della terra di Israele, dove di alberi ne crescono pochi (soprattutto nel sud).

L’albero assume quindi una certa importanza nell’interpretazione della parabola.

Leggendo i testi notiamo che ogni qualvolta si parla di un albero grande nei contesti dei racconti, ci si riferisce ad un impero, per esempio l’Egitto o la Babilonia.

Anche Gesù parlando del regno dei cieli riprende l’immagine di un albero, ed insiste sul contrasto tra l’inizio ed il compimento. All’inizio l’albero è piccolissimo, umile, quasi insignificante.

Con questa parabola egli risponde alle critiche nei confronti del cristianesimo, che ai suoi esordi era un movimento limitato, formato da poche persone, da una minoranza del popolo di Israele che era già piccolo di per sè. In questa connotazione il regno dei cieli, il regno di Dio, appare come un chicco, che ha dentro di sè la potenza di crescere, germogliare e diventare grande.

Troviamo questa immagine anche in Ezechiele, dove un ramoscello si tramuta in albero.

La seconda parabola è quella del lievito.

Il pane quotidiano, nella cultura del medio oriente antico, era la preoccupazione per ogni famiglia. Secondo gli studi attuali circa il 90% della popolazione era sotto la soglia di povertà, ovvero sopravviveva, mentre il restante 10% poteva preoccuparsi un po’ meno del giorno dopo. Il pane diveniva l’ossessione per ogni famiglia, ed era proprio la preoccupazione della vedova di Zarepta (libro dei Re 17). Quando le si presentò Elia e le chiese un po’ d’acqua e un pezzo di pane, lei sapeva che l’indomani non avrebbe più avuto di che mangiare.

L’esperienza narrata è quella che fa la vedova di Zarepta, ma possiamo dire che ci sono tante vedove di Zarepta, e ce ne sono state tante nella storia di Israele. Sappiamo che la stagione era lunga, da un periodo di mietitura all’altro (maggio), e se il raccolto non era stato buono era la carestia.

In questi racconti il regno dei cieli è simile al lievito che si mette nella pasta.

Possiamo effettuare un paragone tra le due parabole, tra la piccola quantità di lievito unita ad una grande quantità di farina, e il piccolo granello con l’albero che può raggiungere tre metri.

Nella seconda parabola vediamo che la forza del lievito è capace di trasformare una grande massa, come nella prima avevamo visto che un umile ramoscello era capace di trasformarsi in un grande albero.

Se uno rilegge l’inizio della prima parabola “il regno dei cieli è simile ad un chicco di senapa che un uomo prese e seminò in un campo”; la seconda parabola, versetto 33, inizia con questa frase “è simile, il regno dei cieli, ad un po’ di lievito che una donna prende..”.

Interessante notare in queste due parabole che il regno dei cieli viene paragonato all’attività di un uomo e di una donna.

Torniamo alla riflessione che abbiamo fatto all’inizio, sui testi dell’antico testamento, dove quando si parla di un albero si parla di un impero.

Quando si pensa ad un impero lo si associa a conquiste, grandi costruzioni, all’amministrazione, ad opere grandiose e a un potere grandissimo; il contrasto sta proprio qui: il regno dei cieli non è fatto di conquiste, di prodezze e opere sensazionali, ma è semplicemente piantare una pianta in un orto, oppure fare il pane di ogni giorno.

Coltivare un orto o fare il pane era l’attività più normale e ordinaria per il 90% della popolazione, ed è proprio nelle attività quotidiane che bisogna cercare il regno dei cieli, dove può nascere e crescere.

Riprendo la tesi di Auerbach nel suo libro Mimesis, rappresentazione della realtà nella cultura occidentale. Riassumendo brevemente la sua tesi: le due radici della letteratura occidentale che conosciamo oggi (libro scritto nel ’46) sono la letteratura greco latina, e la Bibbia. Il vero senso del realismo che troviamo nella letteratura odierna (sua contemporanea) viene dalla Bibbia (anche se per vie indirette). Nel mondo antico lo stile della letteratura poteva essere sublime o umile. Lo stile sublime, elevato, è riservato all’epopea,alla tragedia, mentre quello umile è quello della satira. Nello stile elevato non si parla mai della vita quotidiana, ma di battaglie, prodezze e amori.

Un re non si preoccupava tanto dei suoi sudditi o del loro benessere, piuttosto si occupava di fare guerra ad un altro re o di trovare una moglie. Se ci sono descrizioni della vita quotidiana ci sono soltanto nelle descrizioni dell’idillio. Quando si parla della vita quotidiana se ne parla nella commedia o nella satira, ridicolizzando i suoi aspetti. I personaggi della commedia sono tutti schiavi, contadini, mercanti, pastori, artigiani e di loro si può ridere.

Questa divisione tra i due stili è parallela alla divisione della società, tra i livelli dell’aristocrazia ed il popolino. La letteratura nasce dove può nascere, quindi nell’ambiente colto dell’alta borghesia, greca e romana, che descriveva i suoi ideali nella tragedia ed epopea (gli eroi appartengono tutti all’aristocrazia e ai ceti alti, e i servitori non hanno personalità ma sono solo strumenti dei loro padroni). La vita quotidiana è vista dall’alto dall’aristocrazia, che ne ride in quanto appartenente al popolo.

Anche gli storici dell’antichità, più che descrivere gli sviluppi sociali ed economici, sono dei moralisti. Guardano dall’alto e giudicano (Tacito, Sallustio).

Ma se si passa alla Bibbia la questione è diversa perché gli eroi appartengono a tutte le classi. Come troviamo dei re, per esempio Davide o Salomone, troviamo anche gente semplice, specialmente nel vangelo.

Per dare un solo esempio (2 Re, 5) riporto la storia di Naaman, capo dell’esercito del re Aram.

Naaman era un generale (quindi appartenente all’aristocrazia militare), ma era malato di lebbra. Durante una delle sue campagne militari passava per l’Israele, portando con sè molti schiavi, tra cui una fanciulla ebrea, finita al servizio della moglie di Naaman. Questa disse alla sua padrona: “Se il mio signore si rivolgesse al profeta che è in Samaria, certo lo libererebbe dalla lebbra”. Di lì a poco anche Naaman fu informato di questo, e decise di mandare un ministro al re di Israele, che era una persona del suo stesso rango sociale, chiedendogli di essere guarito. Questi lo prese solo come un atto di provocazione, essendo i due paesi in guerra, ma allo stesso tempo Eliseo il profeta venne a sapere della malattia di Naaman. Eliseo dunque mandò un servitore dal generale malato, e gli riferì che se avesse voluto guarire avrebbe dovuto immergersi nelle acque del Giordano.

Il generale si arrabbiò per il modo di procedere di Eliseo, si sentì mancare di rispetto, visto che il profeta aveva mandato solo un servo a parlare a lui, che era un famoso generale siriano. A questo punto intervennero i servitori di Naaman, che lo fecero riflettere sul fatto che per guarire gli sarebbe bastata in fondo un’azione molto semplice. E così Naaman fece, e guarì (alla sua guarigione seguì naturalmente una conversione).

E ‘ interessante notare che in questo racconto assistiamo ad un capovolgimento della gerarchia, in quanto il generale non solo segue il suggerimento dei servitori, ma già la soluzione stessa del suo problema era giunta da una schiava ebrea della signora Naaman.

Questo è un fenomeno del tutto impensabile per quella che era la letteratura greca.

La letteratura biblica cancella la differenza tra lo stile umile e quello elevato, in quanto i personaggi appartengono ad ogni ceto sociale, e la bontà o la malvagità è sia di re che di contadini. La divisione potremmo dire che non è in verticale, quindi per ceti sociali, ma in orizzontale, tra chi sa o non sa comportarsi, chi è o non è saggio.

Normalmente nell’epopea classica le azioni, le imprese, sono eccezionali ed i personaggi sono eroi. Nella Bibbia invece le azioni più semplici della vita possono essere le più serie della vita, quelle più importanti; è nei momenti semplici che si gioca la salvezza, infatti il regno dei cieli viene paragonato ad una donna che impasta il pane.

Quando leggiamo il vangelo e la Bibbia siamo in un mondo diverso, che già per la scelta dei momenti descritti e dei personaggi opera una grande rivoluzione. Abolisce frontiere che sono essenziali per la società e la letteratura antica. Abolisce la differenza tra ceti sociali e popolo, e i grandi eroi, o coloro che hanno condotto Israele alla sua salvezza, non sono necessariamente i re, anzi, viene mostrato come la monarchia abbia fallito in questo, al contrario dei profeti.

Quando entriamo nel vangelo i discepoli stessi sono pescatori, gente comune, persone che fanno parte del popolino.

E ‘ importante notare leggendo il vangelo che c’è già tutta una scuola di vita nella sola scelta dei personaggi, dei momenti, e delle azioni descritte; è una lezione che dice che il regno dei cieli si costruisce ogni giorno e può dipendere da qualsiasi persona e dal lavoro quotidiano di ognuno. Il primo luogo dove si gioca la salvezza è il posto dove si vive, la casa, la famiglia, l’ufficio, e non nel tempo che si pensa di dedicare in più alla vita cristiana, oltre alla vita di ogni giorno.

Questo è uno dei messaggi importanti che si traggono da questi passi del vangelo e da questa parabola del chicco di senapa e della massaia.

Il Gesù del vangelo di Matteo si presenta come un insegnante; il Gesù di questo vangelo è quello che insegna alla comunità dei cristiani, la comunità post-pasquale (quella nata dopo gli eventi della passione e dopo il 70 d.C.).

Potremmo dire che di Gesù abbiamo due immagini che non sempre si scindono, ma si sovrappongono: da una parte c’è il Gesù conosciuto, dall’altra quello riletto dalla comunità post-pasquale. Il Cristo presentato in questo vangelo è il Cristo risorto.

Il vangelo di Giovanni andrà ancora più avanti con questa identificazione dell’uno e dell’altro, ma comunque già in Matteo si fa un passo avanti in questa direzione.

Quando Gesù appare nel suo vangelo viene da chiedersi se i discorsi che egli fa siano esattamente corrispondenti a quell’evento o se li abbia fatti in un’altra occasione, e quel discorso sia rivolto ai discepoli di oggi.

La figura importante del vangelo di Giovanni è quella del Cristo rappresentato come insegnante, come maestro.

I primi capitoli del vangelo di Matteo (cap.1 e 2) sono il vangelo dell’infanzia. Abbiamo detto che riprende nella storia della strage degli innocenti una vecchia tematica della favolistica, ma il finale è diverso in quanto Gesù non ucciderà Erode impadronendosi del suo trono.

Una storia molto simile a questa nell’Antico Testamento è proprio quella di Mosè. Il faraone di Egitto voleva ucciderlo, e per salvarsi viene messo in una cesta e affidato alla corrente del fiume. Anche in questo caso il finale della storia è diverso da quello previsto dalla favolistica, perché Mosè non tornerà in Egitto con un esercito per sconfiggere il faraone e prenderne il trono, ma per portare il suo popolo lontano da quelle terre.

Sappiamo che nel deserto Mosè riceverà la legge, la stessa legge che deciderà di seguire il rabbino a Iavnè.

Quindi, se Matteo decide di iniziare il suo vangelo con un episodio simile, alludendo a Mosè e all’Esodo, è per sottolineare il fatto che anche i cristiani sono eredi di Mosè, benchè in maniera un po’ diversa.

Già all’inizio del vangelo Gesù “insegnava nelle loro sinagoghe annunciando il suo regno e guarendo tra il popolo ogni malattia e infermità” (cap.4,23-24), e Matteo insiste molto su questo ruolo di insegnante.

Ma anche alla fine del vangelo, cap.28, proprio nell’ultima pagina, Gesù dice ai suoi discepoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato.”

Gesù risorto chiede ai discepoli di insegnare in una scuola di vita ed insegnare il vangelo come Gesù l’ha vissuto e insegnato. Questo è il compito più importante dei discepoli, ma non solo. Matteo insiste molto anche sulla comprensione dell’insegnamento, non solo con la mente ma anche con l’immaginazione, la sensibilità e la vita stessa.

Un esempio dell’importanza che da’ al capire è quando Gesù racconta la parabola del seminatore (la prima delle parabole). In questa occasione Cristo spiega la parabola ai discepoli che gli chiedevano chiarimenti.

Vale la pena paragonare questa spiegazione nei diversi vangeli.

Nel vangelo di Matteo, cap.13, 23, quando parla del terreno buono, dove il grano cresce e arriva alla maturità, portando il frutto, dice: “Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta la parola e la comprende; questi da’ il frutto e rende dove cento, dove sessanta, dove trenta”.

Anche Luca da’ importanza alla comprensione, ma non lo sottolinea come Matteo. Vediamo in Luca cap.8, 15 : “Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza”. Piuttosto appare anche in questa parabola l’importanza che Luca da’ alla perseveranza e alla pazienza.

In Marco una parte della spiegazione alla parabola è la seguente (Mc 4,20): “Quelli poi che ricevono il seme su un terreno buono, sono coloro che ascoltano la parola, l’accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno”.

C’è un altro elemento nel versetto 16, proprio solo di Marco, che dice per quanto riguarda quelli che ricevono il seme sulle pietre: “Questi quando odono la parola subito l’accolgono con gioia, ma siccome non hanno radici in se stessi, perché sono instabili, quando sorge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si scandalizzano”. Si scandalizzano alle prime difficoltà, si scoraggiano, e questo è proprio rappresentativo “dell’alunno” Marco.

Marco e Luca li ho citati proprio per far notare le possibili differenze tra i vangeli, e sottolineare l’importanza che Matteo da’ alla comprensione.

Prendo un altro testo di Matteo che è tipico, dove appare chiaramente la sua impostazione. La tempesta calmata, cap.8, 23-27: “Essendo poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: “Salvaci, Signore, siamo perduti!”. Ed egli disse loro: “Perché avete paura, uomini di poca fede?”. Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: “Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?”.

Se andate a vedere in Marco e Luca noterete una differenza, forse poco importante per chi legge, ma significativa nell’interpretazione dei vangeli: la sequenza degli eventi è diversa.

Sia in Marco che in Luca il rimprovero di Gesù verso i discepoli segue il miracolo della tempesta, non lo precede. La spiegazione a questa inversione di eventi è che in Marco e in Luca l’attenzione è concentrata sulla persona di Gesù e sul miracolo che compie, mentre per Matteo è importante insegnare prima di tutto che non bisogna perdere la fiducia in Gesù, e i discepoli devono credere in lui prima di avere qualsiasi prova. In questo passo si vede proprio la differenza tra il Gesù conosciuto dai discepoli ed il Cristo risorto.

Nella narrazione di Matteo la barca può facilmente essere interpretata come simbolo della chiesa cristiana, luogo dove Cristo fa capire ai suoi discepoli che sarebbe bastata la loro fede per andare avanti, e il suo dormire è simbolico della sua presenza invisibile all’interno della chiesa.

Se prendiamo il cap.10 troviamo una grande discorso di Gesù sulla missione.

Anche qua si osserva che quando Gesù parla delle persecuzioni (e ne parla con dovizia di particolari), non si riferisce tanto alle persecuzioni che sono state inflitte ai discepoli durante la sua vita, ma anticipa quelle che avvennero dopo la sua morte,e quindi si rivolge a tutti i discepoli, ad una chiesa perseguitata ed in minoranza.

Descrive una Chiesa in difficoltà, una Chiesa dove ci sono defezioni, perché la gente è spaventata e ha paura.

Alla fine del capitolo nove: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnava nelle loro sinagoghe, annunciava il vangelo del Regno e curava ogni malattia e infermità. Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!” ” Subito dopo Gesù “chiamati a sè i suoi dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità”; quindi da’ loro molti consigli e li istruisce sul modo di agire.

A questo punto, visto che Gesù aveva chiamato a sè i discepoli e li aveva educati, perché lo aiutassero nel suo compito e a trasmettere il suo messaggio alla gente, ci si chiede per quale motivo alla fine di questo capitolo Matteo dica: “Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città”(Mt 11,1).

Quello che Matteo vuole dire in questo capitolo è che gli avvenimenti che lui presenta della vita di Gesù sono rivolti ai discepoli che vengono dopo la morte di Cristo. In questo modo crea un parallelismo tra l’insegnamento di Gesù e l’insegnamento dei discepoli, che avverrà solo dopo la morte di Cristo. Così si capisce anche quello che dice Gesù: chi ascolta voi ascolta me, e chi ascolta me ascolta il padre.

L’inizio della vita di Gesù,(o di Mosè) non si può dire che sia quello del capo politico, o del rivale di un regnante come Erode (o del Faraone) ; entrambi sono delle autorità, ma non sotto forma di potenza, ma di competenza.

E ‘ questa la via scelta anche dal vangelo: la vera autorità di Gesù è nella sua competenza in materie esistenziali. I discepoli saranno fedeli a Gesù se continueranno su questa via, non cercando la potenza ma la competenza nelle materie che spettano loro, ovvero la salvezza, la saggezza e il modo di vivere al meglio gli ideali del vangelo.

La manna del deserto o le pentole d’Egitto 

Riallacciandomi un po’ al discorso che ho fatto all’inizio di questo seminario, vi riporto una leggenda narrata da un filosofo persiano.

Il re di Persia voleva avere un ritratto suo e aveva invitato al palazzo i più grandi artisti del mondo conosciuto per chiedere loro una sua rappresentazione.

Aveva invitato artisti dall’India, dall’Armenia, dall’Egitto e dalla Grecia. Secondo le leggende gli indiani erano molto abili a tessere, ed il colore azzurro dei loro tessuti era unico al mondo; gli armeni erano famosi per le loro ceramiche, quindi portarono con sé molta creta; gli egiziani avevano la fama di essere abili scultori, e portarono con sé diversi tipi di marmo; i greci invece arrivarono dal re di Persia con dei sacchi pieni di una polvere biancastra. Una volta arrivati il re diede a disposizione a ognuno di loro una stanza dove potere lavorare: alla fine avrebbe scelto la più bella delle loro opere.

Gli indiani fecero un arazzo, gli armeni una terracotta, gli egiziani una statua. I greci invece strofinarono le pareti con la polvere dei loro sacchi, finchè non le fecero diventare lisce e lucide come specchi.

Passato un po’ di tempo il re volle vedere le loro opere. Restò meravigliato di fronte alle creazioni degli indiani, degli armeni e degli egiziani; ma quando entrò nella stanza dei greci capì che erano loro ad aver vinto, perché nulla come uno specchio poteva rappresentare meglio la sua immagine.

Con questa leggenda, questo grande filosofo persiano voleva insegnare, riguardo il modo di parlare di Dio, di Allah, che il modo migliore non è il provare a riprodurre con le nostre opere, ma di essere trasparenti, di fornire specchi.

Così come ho detto qualche giorno fa, le opere letterarie dovrebbero essere proprio come specchi, o come lampade, o finestre. Purtroppo il nostro sbaglio è che tendiamo a metterci un po’ troppo “di mezzo”: vorremmo noi fornire le prove, i mezzi, le argomentazioni, preparare le vie, per condurre a quello che è il messaggio del vangelo.

Molto semplicemente: dietro il messaggio del vangelo sappiamo che c’è qualcuno che lo annuncia, che è Gesù Cristo, e per il cristiano è certamente essenziale; sappiamo che il messaggio del vangelo è una persona.

Prendo come esempio questa storiella per dire due o tre cose molto semplici. La prima è che per leggere e presentare la Bibbia c’è una certa oggettività, e quindi basta presentare le cose come sono, presentando quello che è scritto,quello che c’è nella scrittura e nella tradizione cristiana.

Abbiamo fatto un seminario biblico, quindi abbiamo studiato e letto la Bibbia, e meditata. Nella tradizione cristiana c’è la Bibbia, i commentari ed il commentario vivente della Bibbia, che è la comunità cristiana.

Questi sono i fatti che sono alla base della nostra fede che dovremmo anche ricordare. L’inizio della fede cristiana non dobbiamo dimenticare che si basa su dati oggettivi, che possono essere visti in tanti modi diversi, come abbiamo visto leggendo i vangeli (quattro modi diversi di narrare lo stesso evento).

Forse è utile e persino indispensabile ricordare che all’inizio della nostra fede c’è una certa oggettività,e che il punto di partenza della nostra fede è un’esperienza. Non sono idee, non è una morale, non sono una serie di comandamenti, di verità, di riflessioni di sapienza. Sono una serie di esperienze vissute assieme, e questo vale per l’Antico come per il Nuovo Testamento.

Abbiamo visto, per esempio con la lettura dei vangeli, che non esiste “un’oggettività pura”, ed ogni prospettiva tende a risaltare un aspetto più di un altro. Tuttavia l’esperienza primordiale dei discepoli con Gesù, l’esperienza della vita, della morte, e della resurrezione del Cristo, rimangono comuni al di là di ogni prospettiva, e sono la base da cui partire per comunicare quello che è il messaggio cristiano, ed evangelizzare chi non crede.

Noi proviamo a convincere il prossimo, ma sono i fatti che convincono innanzitutto, le prove; dovremmo fare come i greci, e fare delle pareti che riflettano come specchi, per far apparire bene quella che è la verità del vangelo.

C’è un proverbio tedesco che dice che “il buon vino loda se stesso”. Non c’è bisogno di fare troppa pubblicità a qualcosa che appena si gusta fa sentire la propria qualità.

Per la buona novella del vangelo, o per il messaggio cristiano vale lo stesso: se una è di una certa qualità, se è un vero messaggio di vita ed è attuale, bisogna prima di tutto farlo gustare, non fare pubblicità.

Ho preso questo esempio delle pentole dell’Egitto o della manna del deserto: per tutte le cose vere e solide ci vuole pazienza, perché prendono un certo tempo. Per abituarsi a riscoprire il vangelo e la scrittura, per entrare più a fondo del messaggio cristiano,e per sapere come presentarlo al mondo di oggi che è cambiato molto in pochi anni, ci vuole un certo tempo.

Tutto il Testamento e il messaggio di Gesù insistono su questo aspetto: se per esempio prendiamo la parabola del seminatore, vediamo che il grano migliore è quello che ha impiegato più tempo a crescere. Il nostro compito è quello di seminare, ma non dobbiamo commettere l’errore di voler avere il raccolto subito; se vogliamo vedere risultati subito saremmo come quelli che seminano sul sentiero o sulla terra rocciosa (la pianta germoglia subito ma non da’ risultati).

Questa parabola ci da’ anche un altro insegnamento: il grano non cresce dappertutto, quindi uno non deve stupirsi se in alcuni luoghi non porta frutto, ma cercare il terreno giusto dove il raccolto sarà molto.

Con un po’ di pazienza, di comprensione, di perseveranza, di oggettività, presentiamo il messaggio cristiano e poi aspettiamo che possa crescere.

Le cose salde, le cose vere, di questo mondo crescono lentamente, mentre a volte ciò che cresce troppo rapidamente si secca e appassisce con la stessa velocità.

Per spiegare con altre parole questo concetto, riprendo l’immagine del lievito, che troviamo anche all’inizio del vangelo di Matteo, che dice “siete la luce del mondo” o anche “il lievito nella pasta”. Ci rivolgiamo di nuovo alla situazione della comunità di Matteo: un piccolo gruppo all’interno di una grande massa. Secondo quello che dice il vangelo, questo poco lievito riesce a trasformare tutta la massa di farina.

Ci sono diversi aspetti a livello interpretativo di quest’immagine. Uno di questi ci fa capire che c’è una forza nel vangelo che una volta messa nella “massa di farina”, può trasformarla in “pane”.

Il lievito è necessario ma ne basta poco per trasformare ben tre misure di farina. Ma un altro aspetto di questa parabola ci dice che il lievito è già nella pasta, come il cristiano è nel mondo e partecipa a quello che vive il mondo; non fa parte di un mondo parallelo ma è presente, e anche questa è una cosa che dobbiamo riscoprire.

I cristiani sono l’anima del mondo, diceva un vecchio scritto.

E se sono l’anima del mondo, non possono essere separati da esso, quindi partecipano alla storia del mondo, sono attivi allo sforzo di questo mondo per essere più umano; non siamo atti a costruire la nostra chiesa sempre accanto a quello che si fa altrove, ma siamo il lievito nella pasta contribuendo a modo nostro a trasformare l’umanità.

E’ importante capire l’invito al dialogo trasmessoci dal vangelo come dal Concilio Vaticano secondo, perché spesso l’errore delle piccole comunità è quello di ripiegarsi in se stesse e piangere perché piccole, minacciate e impotenti.

Siamo un po’ nella situazione della moltiplicazione dei pani.

C’è la folla e c’è poco da mangiare: c’è la tentazione di rifugiarsi in un angolino a mangiare quel poco che si ha e tenerselo ben nascosto per non farselo rubare. Vediamo come il messaggio di questa parabola sia tutto l’opposto: se avete poco, datelo.

Per quanto riguarda la fiducia, non bisogna essere timorosi, timidi, timorati, perché siamo troppo pochi e abbiamo troppo poco. Almeno quel poco che abbiamo dobbiamo riuscire a condividerlo nel modo giusto, e parlare di quello che si trova nella Bibbia rappresenta quella che è stata l’esperienza di venti secoli.

Posso concludere questo discorso trovando un appiglio nel famoso programma che ha fatto Benigni su Dante. Lui non ha fatto una professione di fede, ma ha parlato del Dio di cui parla Dante, e il messaggio è passato sia per cristiani che per non cristiani.

A mio parere, certo non siamo come Roberto Benigni, ma qualcosa di simile possiamo farlo. Non dobbiamo parlare della Bibbia come del mio Gesù Cristo o del mio Dio, ma dobbiamo parlare di quello dell’esperienza della Chiesa, della comunità cristiana.

Questo può interessare, come il Dio nell’arte, o il Dio di Dante; anche san Francesco fa parte della cultura italiana ed europea, e lo si può presentare come la figura avvincente qual è.

Ci vuole un certo distacco ed oggettività; non dobbiamo portare il nostro intelocutore a scegliere immediatamente se credere o meno, ma dobbiamo fare in modo di interessarlo. Dobbiamo scegliere una via un po’ più larga, più progressiva, e cercare di far capire che il messaggio cristiano va oltre a tutto quello che posso dire o cercar di spiegare.

L’importante è trovare una via più oggettiva che permetta al mondo di oggi di sapere che cosa c’è nel messaggio cristiano, anche perché questo ormai fa parte della cultura occidentale (e quindi potremmo anche dire universale).

Il messaggio cristiano da’ un contributo a quella che è la nostra cultura e i nostri valori, e possiamo dire che non è solo la comunità cristiana, ma tutta l’umanità che è minacciata dalla violenza e dal caos, è a rischio della propria salvezza. Noi ci salveremo solo se l’umanità si salverà, e il compito del cristiano è proprio quello di salvarla. Gesù in persona ci ha dato l’esempio, dicendo “questa è la mia carne per la salvezza del mondo”.

Abbiamo nella Bibbia valori fondamentali sui quali costruire l’umanità, ovvero la dignità della persona, la responsabilità, la libertà,etc.., e questi valori sono stati vissuti dai cristiani, primo tra tutti Gesù Cristo. Molti nella Bibbia ci mostrano la loro esperienza di vita secondo questi valori, e sono esemplari in quanto le loro sono esperienze vincenti. Chi fonda la propria vita su questi valori, fonda la propria vita su di una roccia (la famosa casa costruita su una roccia).

Sarebbe un’esperienza anche entusiasmante poter presentare al mondo di oggi quelli che sono i valori che permettono all’umanità di salvarsi perché si è già salvata in passato in questo modo. Sono esperienze riuscite e vincenti.

Matteo lettore della scrittura 

Prima di tutto darò una spiegazione sul vangelo di Matteo e sul motivo che lo spinge alla scrittura. Come seconda cosa darò qualche esempio del modo in cui Matteo imposta il suo vangelo e in seguito qualche commento sull’esercizio di lettura di stamane.

Perché Matteo scrive un vangelo?

Chiunque di noi che abbia dovuto scrivere una lettera o qualcosa di importante in vita sua, sa che non è facile scrivere. Ci capita di rimanere per tanto tempo davanti ad una foglio bianco prima di riuscire a scrivere qualcosa.

Se Matteo ha scritto ventotto capitoli doveva avere certamente motivazioni forti; se pensiamo al fatto che non aveva neanche il computer o i mezzi di oggi deve essere stato ancora più faticoso, dovendo scrivere tutto a mano.

Ci chiediamo dunque quali siano state le motivazioni che l’ hanno spinto a scrivere il suo Vangelo.

Del vangelo di Matteo, prima di tutto, notiamo che è caratterizzato da lunghi discorsi. Riprendendo l’idea del cardinale Martini, possiamo dire che il vangelo di Matteo è il vangelo del catechista, del professore. Chi deve insegnare infatti, prende il vangelo di Matteo per la presenza di questi discorsi, che insegnano cosa sia la vita cristiana e sono un esempio di fede.

E’ proprio questa la ragione per cui il vangelo di Matteo è il primo del Nuovo Testamento; possiamo considerarlo il manuale del professore: questo vangelo era il più utilizzato dalla Chiesa primitiva per diffondere il messaggio cristiano. Era il più utile in quanto conteneva tutto l’essenziale della vita cristiana.

Il vangelo di Marco invece, è il vangelo dell’alunno, o del catecumeno.

E ‘ quello che studia e scopre per la prima volta quale sia il messaggio di Cristo; è il vangelo più pimpante, più fresco, più pittoresco. E’ pittoresco per esempio descrivendo la moltiplicazione dei pani :” ..e l’erba era verde ” , oppure quando Gesù guarisce il cieco di Gerico, quest’ultimo sentendo la sua voce corre verso di lui ” lasciando cadere il suo mantello” , o ancora la descrizione di un giovane che durante la passione di Gesù scappa lasciando lì tutti i suoi vestiti.

Il vangelo di Marco è pieno di particolari come questi, del resto il suo è il vangelo che è stato scritto per primo, e dove si sente quindi maggiormente la tragedia che è stata, per tutti i discepoli, la morte di Gesù. In questo vangelo è più che vivo il senso della tragedia e si può dire che siano ancora tutti sotto shock.

Quello di Luca lo possiamo considerare come il vangelo dello storico, dell’intellettuale ma anche del grande scrittore. Le più belle storie, narrate al meglio, le troviamo proprio in questo vangelo. Possiamo dire che sia un grande “romanziere”, e conosca anche bene il greco: il suo greco è il più puro, il più limpido, il più scorrevole.

E’ anche l’evangelista che ha le idee più chiare sulla storia della salvezza. Divide infatti quest’ultima in diversi momenti: l’Antico Testamento, il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa.

Non è un caso che il nostro anno liturgico segua la cronologia di Luca: la Pasqua quaranta giorni dopo l’ascensione, e cinquanta giorni dopo la Pentecoste. E ‘ proprio questo il modo di Luca di presentare la passione, la morte e l’ascensione di Gesù, ed è una cronologia propria solo di Luca, in quanto è il più preciso.

Luca da’ molta importanza alla storia e alla cronologia. Dimostra questo dividendo la storia della salvezza in tre tappe, partendo dall’Antico Testamento, che finisce con Giovanni Battista, l’ultimo profeta, e in seguito narrando la storia di Gesù.

Notiamo perciò che, nel vangelo di Luca, Giovanni Battista e Gesù non si incontrano mai. Il solo incontro è durante la visitazione, ma in quel caso nessuno dei due era ancora nato.

Non si incontrano perché Luca vuole dare una divisione nitida tra Antico e Nuovo Testamento. Benchè Luca sappia benissimo che Gesù sia stato battezzato da Giovanni, addirittura decide di descrivere il battesimo di Gesù subito dopo l’incarcerazione di Giovanni. A rischio di qualche fraintendimento, descrive le due scene in questa sequenza per meglio dividere quelle che sono per lui due diverse epoche della storia della salvezza.

Giovanni, come ho detto ieri, è il mistico. E ‘ colui che vede la luce della resurrezione, la luce della gloria divina in ogni evento della vita di Gesù Cristo.

Torniamo ora al nostro professore, al nostro docente Matteo.

Il vangelo di Matteo è stato scritto, secondo gli studiosi più seri e attendibili, subito dopo la distruzione di Gerusalemme. Questa avvenne nel 70 d.C. quando entrò nella città l’esercito di Tito, che distrusse la città ed il suo tempio. Fu naturalmente un esperienza tragica e traumatica per tutto il popolo di Israele, cristiani compresi, i quali, fino a quel momento, erano quasi tutti ebrei (il movimento cristiano infatti non si era ancora diffuso al di fuori della terra di Israele e al di fuori del mondo ebraico).

Con la presa di Gerusalemme caddero simboli essenziali della vita religiosa del popolo ebraico, ed era persino la seconda volta che accadeva. La prima volta era stata nel 506 a.C. quando l’esercito babilonese era entrato a Gerusalemme dopo un assedio: erano state distrutte le mura della città ed il tempio.

Dopo l’esilio parte del popolo era tornata a Gerusalemme ed aveva ricostruito il tempio, il quale però fu distrutto una seconda volta.

La domanda che si posero in seguito a questo avvenimento era: Israele sopravviverà alla seconda distruzione del suo tempio? Come, avendo perso proprio l’elemento essenziale della sua fede e del suo culto?

A partire dal 70 d.C. si presentarono due soluzioni antitetiche, esclusive l’una rispetto all’altra.

Una fu adottata da un rabbino (..),che riuscì a scappare da Gerusalemme durante l’assedio nascondendosi in una bara e fingendo di essere morto. Questi andò a Iavnè (piccola cittadina a sud di Tel Aviv, lungo la costa del mediterraneo), ove fondò un’accademia.

Nella storia ebraica questa cittadina divenne dunque famosa, in quanto vi fu fondato l’ebraismo, così come lo conosciamo oggi.

In questa accademia si discuteva appunto come affrontare questa catastrofe.

Cominciarono a leggere i libri della tradizione di Israele e a decidere quali libri potessero essere considerati fondamentali e quali no. Proprio qui raccolsero i libri che formano il nostro Antico Testamento, e che formano la Bibbia del popolo ebraico.

Ovvio che le discussioni e le scelte si protrassero per lungo tempo: si cercavano gli elementi essenziali e fondamentali della tradizione ebraica per permettere al popolo di sopravvivere.

Un cambiamento introdotto dal rabbino fu la rinuncia alla pratica dei sacrifici: non avendo più il tempio ritenne che non si potessero più compiere sacrifici e che l’unica cosa giusta da fare fosse semplicemente quella di vivere rettamente.

Il modus vivendi corretto sarebbe stato indicato da Mosè e dalla sua legge. Osservando questa legge sarebbero sopravvissuti, mantenendo l’identità del popolo di Israele ed essendone gli eredi.

La lettera agli ebrei del Nuovo Testamento (poco conosciuta, forse perchè anche poco importante), è stata proprio scritta dopo il 70 d.C., dopo la distruzione del tempio. In questa troviamo l’altra risposta.

Il popolo ebraico, è vero, non ha più un tempio, non può più offrire sacrifici, non ha più il culto del tempio, ma ha Gesù Cristo. Questo sostituisce i sacrifici, e quindi la soluzione per i cristiani non fu Mosè, ma Gesù.

E ‘ in questo momento che hanno effettuato due scelte diverse in merito a che fare.

La domanda che rimaneva a questo punto era stabilire chi fosse, chi rappresentasse meglio il vero Israele.

Il rabbino e i suoi discepoli credevano che la cosa migliore da fare fosse seguire la legge di Mosè, i cristiani ritenevano che fosse quello di Gesù Cristo l’insegnamento da seguire.

La maggior parte del popolo ebraico, come ci insegna la storia,seguì il rabbino ed inoltre accusò i cristiani di non essere solidali e di causare un’ulteriore divisione di Israele. Chiedevano loro di rimanere fedeli alla tradizione e rimanere uniti a loro per la sopravvivenza comune.

In seguito a questa divisione c’è un altro fatto da ricordare. Durante la rivolta contro l’impero romano (all’epoca di Vespasiano e Tito), i cristiani non vollero combattere a fianco degli ebrei, ma si misero da parte. Questo li portò ad essere considerati dei traditori dal popolo ebraico.

Non sappiamo il motivo esatto per cui i cristiani non vollero combattere per la liberazione di Israele dai romani. Ci sono due o tre ipotesi che mi sembrano più attendibili.

La prima di queste la troviamo rileggendo le lettere di San Paolo. La grande speranza di Israele era la fine dei tempi, era la venuta del regno dei cieli: Dio doveva venire ed inaugurare il suo regno. Ma proprio per questo poteva essere solo Dio a portare la liberazione, e non gli uomini. I cristiani aspettavano quindi la fine dei tempi, ritenendo che combattere i romani con un piccolo esercito non avesse grande importanza.

Secondo un’altra ipotesi, simile alla prima, i cristiani avevano un’idea diversa di quella che potesse essere la speranza d’Israele, anche nell’attesa del regno dei cieli. Riprendendo quello che era l’insegnamento di Gesù, ritenevano che la salvezza fosse un momento di tutto l’universo, quindi la speranza doveva essere per il mondo intero: che importanza avrebbe avuto la liberazione di una piccola cittadina come Gerusalemme?

Avevano quindi un’idea più larga della liberazione e della salvezza; la liberazione dal popolo romano non sarebbe bastata per la liberazione del mondo intero.

L’ultima ipotesi che ci spiegherebbe il motivo dell’assenza dei cristiani nella rivolta di Israele è il semplice fatto che seguivano l’insegnamento di Gesù. Imitavano l’esempio che diede loro Gesù: questi infatti, una volta arrestato, non fece alcuna resistenza, non provò a liberarsi, accettando la morte sulla croce senza combattere.

Praticarono la non violenza insegnata loro da Gesù Cristo.

Da quest’ultimo punto colgo l’occasione per spiegare il vangelo di Matteo.

Il vangelo di Matteo è una giustificazione di questa strategia. Matteo vuole giustificare le scelte dei discepoli in questi momenti difficili, sia prima che dopo il 70 d.C. Giustifica il loro comportamento rifacendosi all’insegnamento del Figlio di Dio.

Da’ quindi le motivazioni che spinsero i cristiani a non ribellarsi ai romani, prima del 70 d.C., e le motivazioni che li hanno spinti dopo la distruzione di Gerusalemme a scegliere il messaggio di Gesù piuttosto che quello di Mosè (pur non togliendo alcuna importanza agli insegnamenti di quest’ultimo, interpretandoli come disse loro Gesù).

Per Matteo scegliere Gesù non significa rigettare la tradizione del popolo ebraico, ma è il modo giusto di essere fedele alla sua eredità. L’interpretazione dell’Antico Testamento data dai cristiani è un’interpretazione autentica, giustificata.

Matteo giustifica quindi non solo Gesù, ma anche il modo di leggere l’Antico Testamento proposto dai cristiani.

Il sottolineare nel suo vangelo l’importanza della lettura e dell’interpretazione stessa dell’Antico Testamento non è una tendenza propria solo di Matteo, ma anche di Luca, Marco e Giovanni. Tuttavia in Matteo la troviamo maggiormente essendo lui un ebreo che discute con ebrei.

Uno degli elementi più controversi nell’interpretazione dell’Antico Testamento era proprio l’esistenza dello Stato di Israele.

Il popolo di Israele nasce con la chiamata di Abramo, continua con Isacco e con Giacobbe, quindi Mosè, che conquista la terra promessa al suo popolo. Nel libro di Samuele, con Saul e Davide, si fonda la monarchia.

Nella concezione del popolo antico avere una terra ed un governo proprio era la situazione ideale, tuttavia dal libro dei re si vede che i sovrani non riuscirono a mantenere l’indipendenza del paese: inizialmente la terra si divise in due regni, di Samaria e di Gerusalemme, rinunciando quindi all’unità del popolo, e in seguito ebbero fine anche questi due regni.

E ‘ proprio a questo punto che ci sono due interpretazioni differenti.

Da una parte c’era la speranza di restaurare la monarchia e quindi ritrovare l’indipendenza anche combattendo con un esercito forte, proprio come aveva fatto Davide sconfiggendo tutti i nemici di Israele. Una frase del libro si Samuele afferma appunto che Davide sconfisse tutti i nemici che si trovavano “attorno ad Israele”.

Dall’altra parte invece si interpreta l’Antico Testamento in questo modo: l’ideale per il popolo di Israele non sta nella terra e nella monarchia perché Israele è nato prima!

E ‘ nato con Mosè nel deserto, è nato in quella che può essere considerata non-terra, prima di Giosuè e della terra promessa.

Nel deserto non c’è niente e nessuno, quindi non regna nessuno, ma solo Dio. Per vivere quindi nel deserto, per sopravvivere, c’è bisogno soprattutto di Dio.

Per Israele dunque il possesso della terra non è essenziale, perché è riuscito a vivere senza la terra. Per Israele non v’è bisogno della monarchia e delle sue istituzioni, perché è nato molto prima.

Uno dei messaggi del Nuovo Testamento è proprio questo: Israele può fare a meno degli ideali di terra e monarchia. Il suo popolo, quindi le sue tradizioni e la sua identità, non avranno bisogno di un esercito potente o di istituzioni per definirsi e raggiungere la salvezza.

Matteo ricorda la fragilità di realtà come la monarchia, l’esercito; la distruzione di Gerusalemme sarà solo un’altra prova da affrontare per i cristiani.

Matteo nei suoi primi due capitoli narra l’infanzia di Gesù: la sua nascita, la visita dei magi, la persecuzione di Erode, Gesù scende e poi risale dall’Egitto.

Ci sono molti elementi interessanti in questo capitolo, ma cercherò in questi il modo in cui si risponde in merito a dove si possa trovare la speranza di Israele.

Matteo per spiegare la nascita di Gesù utilizza un vecchio racconto, che è presente in tutti i folclori del mondo: quello del rivale del re. Quest’ultimo cercherà di eliminare il suo ipotetico rivale ma perderà, e l’eroe andrà a prendere il suo posto.

La stessa vicenda sappiamo che è stata ripresa in leggende come quella di Romolo e Remo, o come quella di Mosè.

Quando nasce Gesù, Erode organizza il massacro degli innocenti per eliminarlo, ma questi riesce a salvarsi. Ci aspetteremmo, come vuole la tradizione, che Gesù una volta cresciuto sconfigga Erode e ne prenda il posto. Ma è proprio in questo punto che la storia è diversa. Gesù non diventa re di Israele al posto di Erode: scende in Egitto e poi si andrà a nascondere a Nazareth, e non a Gerusalemme. Non sarà il rivale di Erode, ma introdurrà un nuovo tipo di regalità, una regalità diversa da quella di Erode.

Dimostrerà che il regno dei cieli è ben diverso, e non dipende dalla fortuna come le dinastie.

Matteo rilegge la storia e ci da’ un orientamento diverso, uscendo dagli schemi conosciuti. Questo modo di operare Matteo lo avrà per tutto il suo vangelo, cercando appunto di far capire che Gesù offre un’interpretazione personale dell’Antico Testamento. Notiamo che quando Gesù racconta le parabole le persone lo ascoltano con la bocca aperta, perché parla con autorità e dice cose nuove, senza citare nessuno,a differenza dei rabbini che citavano spesso delle autorità. Si dimostra quindi radicato all’Antico Testamento ma ne da un’interpretazione nuova e personale, che si identifica con la sua persona.

Un’altra interpretazione molto strana che troviamo alla fine del vangelo di Matteo, è quando si trova a Gerusalemme e si mette a discutere con gli ebrei di Gerusalemme, sostanzialmente con i Farisei e i Sadducei. I Farisei erano l’unico gruppo sopravvissuto alla distruzione di Gerusalemme e che già prima del 70 d.C. vivevano secondo la legge di Mosè, e non secondo il tempio. I Sadducei erano i sacerdoti di Gerusalemme, ed è chiaro che dopo la distruzione del tempio si ritrovarono tutti in “cassaintegrazione”, per dirlo con termini moderni.

I Sadducei avevano interpretazioni un po’ diverse della Bibbia, rispetto ai Farisei. I Sadducei riconoscevano come scrittura importante solo il Pentateuco (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) perché in questi libri trovavano tutti gli elementi del culto di cui avevano bisogno. Nel resto della Bibbia inoltre, per esempio in alcuni testi profetici, ci sono dei passi che potevano essere considerati “pericolosi” (alcuni profeti infatti criticavano il culto di Gerusalemme in modo abbastanza drastico).

In questi primi cinque libri notiamo che non si parla di resurrezione, di salvezza, ma in fondo per questi sacerdoti l’importante era avere dei fedeli che portassero offerte al tempio e facessero sacrifici. Non davano grande importanza alla vita eterna.

Con loro Matteo affronta una discussione, nel cap.22 vers.23-32, in merito ad una signora che aveva avuto sette mariti.

Per un ordine di Mosè infatti se un uomo moriva senza figli, il fratello ne avrebbe sposato la vedova dando al fratello una discendenza (vecchia legge che si trova nel cap.25 del Deuteronomio). E ‘ una legge che difendeva il patrimonio: chi poteva ereditare in Israele erano solo i figli e non le figlie, quindi se una vedova avesse sposato un uomo di un’altra famiglia il patrimonio sarebbe passato ad una famiglia diversa, andando ad indebolire la famiglia originaria.

Questo è un caso un po’ particolare, e la domanda che rivolsero a Gesù era la seguente: avendo avuto sette mariti, questa donna nella vita eterna di chi sarebbe stata moglie?

Gesù rispose loro che erano in errore e che non conoscevano le scritture, nè la potenza di Dio. Nella resurrezione non si prende nè moglie nè marito, ma si è come angeli di Dio in cielo. Nell’aldilà le cose sono ben diverse.

Per quel che riguarda la resurrezione dei morti non avevano letto ciò che disse Dio, perché è scritto: “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Dio non è un Dio dei morti, ma dei viventi. Le folle rimanevano naturalmente stupite per la sua dottrina.

Gesù cita un testo del libro dell’Esodo, cap. 3,14-15, quando Dio si rivela a Mosè nel roveto ardente. Questa scrittura, facendo parte del Pentateuco, era riconosciuta come sacra dai Sadducei e quindi non poterono controbattere.

Dicendo Dio di essere il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, ed usando il tempo presente, benchè questi fossero morti da molto tempo, lascia intendere che in un qualche modo siano ancora vivi, e quindi siano risorti in Dio.

Questa scrittura è un po’ strana ma tipica del tempo: dovendo trovare un argomento convincente per l’interlocutore, si dovrà entrare nella sua mentalità e quindi utilizzare ciò che lui conosce. Non avrebbe portato a niente riportare dei salmi ai Sadducei, quindi citò scritture che per loro erano ispirate.

Riassumendo brevemente: Matteo, nel presentare la vita di Cristo e nel leggere l’Antico Testamento, vuol mostrare che è un modo giustificato, ed è il modo di uscire dal vicolo cieco in cui Israele è entrato nel corso della sua storia, invitandolo a rinunciare definitivamente a certe speranze troppo terrestri, mettendo i suoi ideali altrove, dove”il suo tesoro sarà il suo cuore”.

Mostra che non si può contare su tesori che possono essere distrutti come la città di Gerusalemme ed il suo tempio, perché il rischio è quello di perdere tutto.

Dopo il 70 d.C. il popolo ebreo fa una concreta riflessione sul proprio futuro ed il vangelo di Matteo offre la soluzione mostrando le fondamenta ove ricostruire.

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