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Paolo Mieli: Lutero aiutò il papato (e conferenza di Adriano Prosperi)

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di Paolo Mieli

A cinquecento anni dalla pubblicazione delle 95 tesi di Wittenberg contro le indulgenze papali, Adriano Prosperi ha ricordato, nella premessa al suo Lutero. Gli anni della fede e della libertà (Mondadori), la diffusissima convinzione dell’epoca che da quell’evento «cominciasse la nuova storia del mondo», un’idea che prese a circolare già allora, ispirando la prima grande opera storica sull’argomento, i Commentarii de statu religionis et reipublicae, scritti da Johann Sleidan a metà Cinquecento.
Prosperi ricorda altresì che la «religione laica dei centenari» ebbe la propria origine un secolo dopo proprio con la «celebrazione luterana» del 1617, «indetta nella Germania dell’incipiente guerra dei Trent’anni». Ed è perciò naturale che, trascorso mezzo millennio dall’inizio della Riforma di Lutero, ci si interroghi sulla portata e sul senso che quell’evento, nonché il secolo e mezzo che ne seguì, ebbero sull’Europa. E qualcuno lo fa puntando i riflettori sulla parte per così dire conclusiva delle guerre di religione.

La guerra dei Trent’anni (1618-1648) fu per il nostro continente un’esperienza particolarmente traumatica. Addirittura sconvolgente, simile forse a quella percepita, tre secoli dopo, ai tempi della Prima e della Seconda guerra mondiale. Nel 1635, Hans Conrad Lang, un commerciante di stoffe di Costanza, raccontò come, a parer suo, quello a cui gli era dato di assistere fosse qualcosa che non si era mai visto «nella storia». Il 23 gennaio 1643, il predicatore inglese Jeremiah Whitaker dichiarò nel corso di un sermone essere i suoi tempi particolarmente «agitati» e notò come questa agitazione fosse «universale» dal momento che aveva coinvolto il Palatinato, la Boemia, la Germania, la Catalogna, il Portogallo, l’Irlanda oltreché l’Inghilterra. Un anno dopo il diplomatico svedese Johan Salvius osservava: «Sentiamo di rivolte del popolo contro i sovrani ovunque nel mondo». E si chiedeva se tutto ciò non dovesse essere spiegato «con qualche configurazione generale delle stelle in cielo». Il langravio d’Assia nella sua Storia metereologica scrisse che all’origine di quell’immane conflitto doveva esserci il «clima disordinato» provocato da qualche allineamento di pianeti. L’ecclesiastico gallese James Howell diede, per l’accaduto, una spiegazione in più: «Dio Onnipotente ce l’ha da qualche tempo con tutta l’umanità e si è fatto trascinare dal cattivo umore a travolgere tutta la terra… In questi ultimi anni infatti sono accadute le più strane rivoluzioni e, non solo in Europa ma in tutto il mondo, le cose più orrende successe all’umanità in un così breve arco di tempo, oserei dire dalla caduta di Adamo». E potremmo continuare a lungo con citazioni di personaggi di tutte le età e delle più varie estrazioni sociali che dissero o scrissero qualcosa di analogo in quegli anni. Quello a cui stavano assistendo era un cataclisma di proporzioni planetarie.
Gli storici — nota adesso Mark Greengrass in La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648 che Laterza sta per mandare in libreria nell’eccellente traduzione di Michele Sampaolo — sono stati inclini a legare insieme queste ansie nonché le varie rivolte e disordini del periodo finale della guerra dei Trent’anni in una «crisi generale», la prima che veniva largamente percepita come «europea». Probabilmente « i contemporanei avevano ragione a interpretarla come una crisi globale». Quali i motivi? Ci sono certamente «prove per pensare che le turbolenze meteorologiche ebbero un impatto lacerante sulle civiltà insediate nel pianeta verso la metà del XVII secolo». È possibile, prosegue Greengrass, «persino probabile» che questo a sua volta abbia scombussolato «i modelli di commercio mondiale che si stavano profilando, che riguardavano (in particolare) i flussi di metalli preziosi verso l’Europa».
Le varie regioni economiche del mondo globalizzato erano «come stagni di differenti profondità collegati fra loro da canali». E questi canali «facilmente si seccavano o venivano bloccati dalla guerra e altri sconvolgimenti. Sicché Paesi i quali, per i loro mezzi di sussistenza, dipendevano dall’attività economica che si svolgeva fra una regione e l’altra, venivano «lasciati a lamentarsi» dell’impatto distruttivo provocato dal fallimento dei mercati e (in particolare) dalla impossibilità di vendere merci.
Tutte questo provocò un indebolimento della coesione sociale e culturale dell’Europa, crescenti divisioni fra il mondo urbano e quello rurale, una maggiore divergenza economica fra Nord e Sud, «per non parlare del sempre minore consenso intellettuale» alle classi dirigenti. E un’ansia diffusa. Le varie rivolte e sollevazioni della metà del Seicento ebbero alcuni elementi comuni. Si verificarono su scala regionale e nazionale, «il che indica che la natura del localismo d’Europa si era riconfigurata in qualcosa di più ampio, mobilitato da media e forze sociali che erano nuove». Esse furono altresì guidate perlopiù da personaggi conservatori, spinti a mantenere quelle che consideravano come «versioni vernacolari della legge, della tradizione e a volte della religione, contro forze che essi vedevano come aliene (lo Stato), empie o semplicemente poco attendibili». Tutto questo potrebbe indurci a ritenere che la storia di quello che venne dopo sia stato una risoluzione di quella crisi con la transizione a un mondo molto diverso da quello che era venuto prima. «Ma non fu così», afferma Greengrass. L’Europa «non cambiò fondamentalmente». Non ci fu un nuovo ordine internazionale. Eppure, nel secolo che seguì la Riforma protestante, era accaduto qualcosa di fondamentale. Cosa?
Nel primo millennio del cristianesimo occidentale, è la ricostruzione di Greengrass, «la cristianità si era sviluppata senza un’idea elaborata di dove si trovasse il suo centro e quindi dove fossero le sue periferie». Esisteva «una moltitudine di micro-cristianità legate insieme». Poi dopo il 1054, allorché il Papa di Roma e il Patriarca di Costantinopoli si scomunicarono reciprocamente, nella parte centrale del Medioevo e in conseguenza della rottura con l’Oriente, «la cristianità occidentale sviluppò un senso più articolato del centro e della periferia con il pieno emergere di due unità al contempo geografiche e ideologiche: il papato e il Sacro Romano Impero». Le loro rivendicazioni di autorità «furono forgiate, in concorrenza l’una con l’altra, da teologi, giuristi, teorici della politica e intellettuali in un’atmosfera di fiducioso universalismo». Questo ideale «fu favorito dalle trasformazioni economiche del periodo, con la straordinaria crescita dei mercati e del commercio interregionale e internazionale, e da matrimoni e alleanze diplomatiche dell’aristocrazia». «Cristianità» è il termine con cui «gli uomini dotti del XII e XIII secolo designarono il mondo dei cristiani latini dell’Europa occidentale».
La Chiesa cattolica romana era il «pilastro centrale» della comunità di fede del cristianesimo latino. Le sue élites intellettuali si erano formate intorno a una lingua internazionale (il latino, in contrapposizione con il greco) e con un percorso di studi (incentrato sulla filosofia e la logica di Aristotele) e indirizzo (la scolastica) comuni. Gli inviati papali condividevano con i consiglieri dei principi «uguali concezioni teocratiche e burocratiche circa l’origine del potere e il modo in cui doveva essere esercitato e legittimato». Le Crociate rappresentarono il progetto più ambizioso della cristianità occidentale. All’epoca il battesimo era considerato un «rito di iniziazione universale». Quelli che non erano cristiani battezzati (gli ebrei, i musulmani) «costituivano, nel Medioevo centrale, una presenza significativa ai margini della cristianità occidentale, tollerata proprio perché non erano parte della comunità di fede». Ma quando «i regni cristiani spinsero le frontiere del cristianesimo latino verso il Sud in Spagna e nell’Italia meridionale segnati dalla presenza araba, la loro rilevanza come rappresentanti di forze straniere non appartenenti alla cristianità sembrò aumentare».
La cristianità era, secondo il libro di Greengrass, una «costruzione ipersensibile» che si sentiva spesso minacciata. A dire il vero «i suoi nemici più pericolosi non erano i non cristiani». La sua gerarchia di potere era «vulnerabile soprattutto agli attacchi di una diversa e variegata categoria di persone»: coloro che «erano legati a particolari realtà locali, per le quali le aspirazioni universalistiche della cristianità significavano poco o niente».
Sparsi in tutta l’area dell’Europa occidentale, al di là e contro i meccanismi dell’ordine universale del Sacro Romano Impero (esteso in tutta l’Europa centrale, e il cui titolo segnalava la pretesa di essere in continuità con l’Impero romano e di dar vita ad una forma temporale di signoria universale) nonché della Chiesa, c’erano migliaia di villaggi e parrocchie i cui abitanti erano quasi sempre gravati dal peso di obblighi verso i loro signori feudali che li «rendevano servi». Queste comunità erano affiancate da città che avevano tratto grande beneficio dalle trasformazioni economiche del Medioevo centrale. E ciò non faceva che aumentare «i sospetti nei confronti delle ambizioni cosmopolite e la burocrazia dell’ordine internazionale».
Quanto più «il senso di centro e periferia all’interno della cristianità» andò accrescendosi, tanto più a livello locale le persone divennero «insofferenti» a causa del tempo che dovevano perdere per ottenere «i permessi dall’alto». Molti ce l’avevano con le tasse che dovevano pagare per sostenere la Chiesa universale e «non si fidavano granché del tanto strombazzato progetto sovranazionale delle Crociate». A partire dal XII secolo, questi sentimenti «cominciarono a straboccare in contestazione o in eresia (che costituì un grave problema epidemico) e in forma anche più minacciosa nella mente di quelli che più avevano a cuore gli ideali proposti dalla cristianità».
La fiducia in questi ideali fu ancora più intaccata dalla Peste Nera del Trecento e dalla crisi economica che ne seguì. La servitù e le prestazioni feudali divennero oggetto di contestazione allorché qua e là si levarono persone ad affermare che quanto esse rivendicavano non erano altro che «diritti di cui avevano goduto in passato». Fu qui che la credibilità della Chiesa a livello locale entrò in discussione. Lo scisma avignonese (1378-1417) fece il resto: «L’esistenza di due linee di Papi divise i cristiani fra quelli fedeli a Roma e quelli che sostenevano il Papa di Avignone, stigmatizzato dai suoi nemici come burattino nelle mani di una disgregante monarchia francese». Fu qui che la cristianità iniziò ad andare in frantumi e a poco a poco nacque l’Europa.
Ma cosa era la cristianità? Ci sono, risponde Greengrass «molti miti a proposito del Medioevo». La maggior parte di essi ebbe origine tra XVI e inizio XVII secolo, quando per la prima volta cominciò a profilarsi l’idea di un «Evo di mezzo». La cristianità non era fra questi miti. Anzi, al contrario, «essa era una mito creato dal Medioevo riguardo sé stesso». L’idea di cristianità «descriveva il progetto (e il connesso apparato intellettuale e istituzionale) che univa il cristianesimo occidentale». Il periodo successivo alla Riforma protestante «conobbe la progressiva e infine totale disintegrazione di quel progetto, e del mito che gli stava dietro». Nel 1650, al termine di questo tragitto, la cristianità si ritrovò «ormai devastata ed estenuata, ridotta in pezzi». L’Europa, «che somiglia sempre di più a ciò che un tempo era stata la cristianità quale allora veniva concepita», non costituì più un progetto, ma «una semplice proiezione geografica, una mappa su cui potevano essere tracciate le sue divisioni, un modo per rappresentare la sua frammentazione politica, economica e sociale». E che cosa significò tutto questo per la Chiesa?
Secondo lo storico tedesco, Heinz Schilling, la Chiesa romana dovrebbe ringraziare Martin Lutero per due ragioni che Adriano Prosperi ha riassunto così: «Perché senza di lui non si sarebbe liberata dalla mondanità del papato rinascimentale, e poi perché fu grazie a lui che, in un mondo in rapido allontanamento dalle dimensioni e dalla cultura del Medioevo, la fede tornò in auge come nei secoli antichi».
Un concetto che si trova già, per le linee essenziali, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli, a parere del quale era stata la «rinnovazione», come ritorno ai fondamenti originari, che aveva mantenuto in vita quella religione che per gli italiani non esisteva nemmeno più per colpa dei «costumi rei» della corte papale. E che Prosperi fa suo concludendo il Lutero con queste parole: «Si può dire che la tesi di Schilling è abbastanza condivisibile: Roma può ringraziare Lutero, anzi lo sta già facendo». A dire il vero, Papa Francesco lo ha già fatto.

Lotte spirituali e battaglie degli eserciti tra due secoli
Esce il giovedì 19 ottobre il saggio di Mark Greengrass, La cristianità in frantumi (Laterza, pagine 840, euro 38). Sull’iniziatore della Riforma esce lo stesso 19 ottobre il volume di Silvana Nitti, Lutero (Salerno, pagine 528, euro 29). Altri saggi sul grande riformatore apparsi quest’anno: Adriano Prosperi, Lutero (Mondadori, pagine 580, euro 28); Volker Reinhardt, Lutero l’eretico (traduzione di Claudio Bonaldi ed Elisabetta Tangorra, Marsilio, pagine 432, euro 28). È stato invece pubblicato nel 2016 il libro di Heinz Schilling, Martin Lutero (a cura di Roberto Tresoldi, Claudiana, 2016). Due testi sul conflitto che devastò l’Europa nella prima metà del XVII secolo: Georg Schmidt, La guerra dei Trent’anni (traduzione di Biagio Forino, il Mulino, 2008); Veronica Wedgwood, La guerra dei Trent’anni (traduzione di Antonio Cettuzzi, Res Gestae, 2015).


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Incontro con Adriano Prosperi per la presentazione del suo libro LUTERO. Gli anni della fede e della libertà (Mondadori). Ne parlano con l’autore Padre Giovanni Bertuzzi e Vito Mancuso. Modera Francesco Spada.
Biblioteca dell'Archiginnasio 14 ottobre 2017


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