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Enzo Bianchi L’arte del discernimento spirituale

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01 settembre 2017

Nella storia della spiritualità cristiana il discernimento spirituale è sempre stato ritenuto il dono assolutamente necessario per conoscere la volontà di Dio.
Così ne parla Antonio, il padre dei monaci: «La via più adatta per essere condotti a Dio è il discernimento, chiamato nel vangelo occhio e lampada del corpo (cfr. Matteo 6, 22-23). Esso infatti discerne tutti i pensieri dell’uomo e i suoi atti, esamina e vede nella luce ciò che noi dobbiamo compiere» (Cassiano, Conferenze ii, 2). E i padri del deserto proclamano che «il discernimento è la madre e la custode di tutte le virtù» (ivi ii, 4), perciò dedicano a esso ricerca e meditazione, fino a farne l’oggetto principale del loro insegnamento ai discepoli. Sono noti i testi della grande tradizione al riguardo: Origene, Antonio e i padri del deserto, Evagrio, Giovanni Climaco, in occidente Cassiano, più tardi Ignazio di Loyola e, nel secolo scorso, Karl Rahner. Costruendo su queste fondamenta, possiamo noi oggi fornire umilmente alcune tracce per chi vuole esercitarsi in quest’arte essenziale alla vita cristiana nello Spirito? Possiamo delineare alcuni criteri che guidino il discernimento spirituale?

Innanzitutto, il discernimento è un dono dello Spirito di Dio che si unisce al nostro spirito, e come tale va desiderato e invocato dal cristiano. È lo Spirito santo che svolge un ruolo decisivo in tutto il processo del discernimento, e chi vuole intraprendere tale cammino deve predisporre tutto in sé affinché lo Spirito possa agire con la sua forza. Per ogni cristiano l’epiclesi, o invocazione dello Spirito, è il preambolo a ogni preghiera e azione, nella consapevolezza che la domanda dello Spirito è sempre esaudita da Dio, come Gesù ci ha assicurato: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono!» (Luca 11, 13).

Certamente la capacità di discernimento, di scelta, è in dotazione a ogni persona venuta al mondo: è il discernimento umano che procede dalla ragione e dall’intelletto. Ma il discernimento spirituale, che non viene da «carne e sangue» (cfr. Giovanni 1, 13), è un’operazione che ha come protagonista lo Spirito. Nel battesimo il cristiano riceve il dono dello Spirito santo, e questa ricezione consapevole gli permette di conoscere ciò che viene da Dio, che umanamente può sembrare follia o essere scandalo, ma che alla luce dello Spirito appare sapienza e potenza di Dio (cfr. 1 Corinzi 1, 22-25). Afferma Paolo: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano (...) e le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio (...) Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato» (1 Corinzi 2, 9-10.12).

In questo modo, lo Spirito santo che scende nel cuore dei credenti li abilita a chiamare Dio “Abba” (cfr. Romani 8, 15; Galati 4, 6) e ad avere il noùs, la mentalità, il pensiero di Cristo (cfr. 1 Corinzi 2, 16). Grazie alla sua «unzione» (i Giovanni 2, 20.27) — che la tradizione latina ha definito unctio magistra — si è in grado di discernere la volontà di Dio, ciò che a lui è gradito, il suo disegno su di noi, e di conoscere il suo amore gratuito che non va mai meritato, ma solo accolto.

L’epiclesi e la conseguente discesa dello Spirito santo ci portano, come primo frutto, al discernimento di Gesù Cristo quale Signore e Salvatore. Nella sua umanità Gesù ha narrato il Dio invisibile (cfr. Giovanni 1, 18): egli è «l’immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1, 15; cfr. 2 Corinzi 4, 4), del Dio che nessuno ha mai visto né può vedere (cfr. 1 Timoteo 6, 16), ma per riconoscerlo bisogna accogliere l’operazione con cui Dio alza il velo su di lui e ci permette di discernere nella sua carne fragile e mortale il Figlio di Dio, la Parola eterna di Dio. I nostri occhi, infatti, potrebbero restare velati, sui nostri cuori potrebbe permanere un velo, anche se ascoltiamo la parola di Dio contenuta nelle Scritture (cfr. 2 Corinzi 3, 12-17), e Gesù potrebbe essere per noi quel segno di contraddizione posto per la caduta e la risurrezione delle moltitudini (cfr. Luca 2, 34). A questa operazione di discernimento di Gesù quale Figlio di Dio sono abilitati in particolare i piccoli, gli ultimi, come Gesù stesso ha esclamato con gioia e stupore: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intellettuali e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così a te è piaciuto!» (Matteo 11, 25-26; Luca 10, 21).

Se queste sono le basi teologiche e rivelative del discernimento, come esercitare concretamente tale arte? Se infatti il discernimento spirituale è un dono dello Spirito che opera in noi, ogni persona ha però in sé delle facoltà umane che devono collaborare con esso. Lo Spirito santo agisce attraverso le nostre qualità intellettuali, perciò queste vanno riconosciute con docilità e messe in atto, affinché il credente sia abilitato alla ricezione di tale dono.

Per questo è innanzitutto necessario esercitarsi a vedere, ascoltare e pensare. Attenzione e vigilanza sono le virtù che ci permettono di entrare in un rapporto di conoscenza con la realtà, gli eventi, le persone. Saper vedere, ascoltare e pensare sono un’unica operazione, fondamentale per la nostra qualità umana e la nostra maturità. Tutto ciò si situa a un livello di attività psicologica; ma nel credente, alla luce della fede e sotto l’egemonia del pensiero di Cristo, questa operazione è più che psicologica: c’è sinergia tra lo Spirito santo e le facoltà umane. Quando entriamo in relazione con le diverse realtà, noi facciamo esperienza di esse, iniziamo un processo di conoscenza e con la nostra intelligenza leggiamo, interpretiamo, riconosciamo il loro significato.

Ma per un credente questa attività umana va necessariamente svolta all’interno di una chiara consapevolezza: l’egemonia, il primato della parola di Dio. «Luce ai miei passi è la tua Parola» (Salmi 119, 105) prega il salmista, luce alla mia intelligenza, al mio pensare e meditare. Il primato e la centralità della parola di Dio nella vita del credente sono oggi una certezza condivisa da tutti i discepoli di Gesù. Se attraverso la Parola è avvenuta la creazione (cfr. Genesi 1; Giovanni 1, 1-3), se attraverso di essa Dio si è rivelato fino a essere tra di noi Parola fatta carne in Gesù Cristo (cfr. Giovanni 1, 14), allora è la Parola stessa, compagna inseparabile dello Spirito (cfr. Basilio di Cesarea, Lo Spirito santo 16), che deve presiedere anche al discernimento.

Grazie all’ascolto della parola di Dio il cristiano accede alla fede (cfr. Romani 10, 17), nella Parola trova il suo cibo quotidiano nel cammino verso il Regno, trova la vita vera (cfr. Giovanni 1, 4), che vince il male e la morte. Chi si impegna nell’operazione del discernimento spirituale deve diventare un ascoltatore assiduo della Parola, un servo della Parola al quale ogni mattino il Signore apre l’orecchio perché ascolti come un discepolo (cfr. Isaia 50, 4); deve esercitarsi a rimanere, a sostare saldamente e con fiducia nella Parola che è Cristo. Per questo occorre essere consapevoli della presenza operante e viva della Parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, e quindi cercarla in esse, leggendole assiduamente, meditandole e conservandole nel cuore, in modo che essa germogli e porti frutto.

Grazie all’esercizio delle facoltà intellettuali e all’ascolto della Parola, si può acquisire una certa capacità, un sentire, un “senso spirituale”. Esso nasce soprattutto dall’ascolto della coscienza, del profondo del cuore, e diventa accoglienza di un’ispirazione, di una mozione interiore, di un “fiuto” che sa riconoscere la presenza del Signore e la manifestazione della sua volontà. Si giunge a questa meta «nutrendo in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (cfr. Filippesi 2, 5), fino ad avere il noi «il pensiero di Cristo» (1 Corinzi 2, 16) stesso. Così si entra in sintonia con il Signore, si condivide con lui lo sguardo e il sentire, e in questo modo si cresce alla statura di Cristo (cfr. Efesini 4, 13). Ecco la sensibilità spirituale allenata al discernimento del bene e del male (cfr. Ebrei 5, 14); ecco la sovraconoscenza (epígnosis) che permette di discernere facilmente ciò che è buono e gradito a Dio (cfr. Romani 12, 2; Filippesi 1, 9-10).

Così può scaturire la decisione, il giudizio secondo lo Spirito, fino a essere una “decisione presa con lui”, perché valutata ed emersa grazie alla sua forza ispiratrice. Decisione che sempre appare una scelta, un amen all’ispirazione del Signore e un rifiuto convinto all’ispirazione del male, del demonio, al fine di compiere la volontà di Dio. Non basta, infatti, dire: «Signore, Signore!», non basta conoscere la sua parola: occorre realizzarla, facendo la volontà del Padre che è nei cieli (cfr. Matteo 7, 21; Luca 6, 46). Si tratta di una decisione di vita, dell’impegno dell’intera persona: la scelta è un’esperienza che richiede di esercitarsi a rinunciare. E la rinuncia e la decisione fattiva sono finalizzate a un solo, semplice scopo: amare un po’ di più, amare un po’ meglio. Lo ha ben ricordato Papa Francesco il 2 marzo 2017 incontrando i parroci di Roma: «Nel momento presente, discerniamo come concretizzare l’amore nel bene possibile, commisurato al bene dell’altro» perché «il discernimento dell’amore reale, concreto e possibile nel momento presente, in favore del prossimo più drammaticamente bisognoso, fa sì che la fede diventi attiva, creativa ed efficace».

Enzo Bianchi
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