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Maria dell’Orto Troppe esperienze da vivere da sole

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Sulla solitudine delle donne, quella non scelta, innanzitutto oso dire una cosa che vale per tutte: non si vive senza un affanno speciale su un pianeta in cui, a ogni latitudine e per millenni, si è deciso che le donne valgano meno degli uomini, e a volte nulla.
E così, alle penose fatiche che toccano a tutti sotto il sole, c’è sempre per loro quest’aggiunta: il dover dimostrare a priori di valere, di essere adeguate, affidabili. E oggi devono difendersi anche dal mito fasullo e faticoso della giovinezza che impone loro ansie e spese assurde: la pubblicità usa ancora le donne giovani e patinate come réclame!

Ancora oggi, in Italia, per le donne affermare la propria soggettività fuori dallo schema di coppia e di figli è andare controcorrente, una fatica vissuta in solitudine anche rispetto alla cerchia dei propri cari; ciò che fino a ieri era condizione umiliante di zitella, oggi è sospettata di egoismo. Ma spesso c’è solitudine anche nel vissuto più normale, quello della maternità.

C’è una parola di Gesù che mostra la sua attenzione, del tutto controcorrente, verso le donne. Quando parla della sciagura che avrebbe colpito Gerusalemme, dice «guai alle donne incinte e che allattano in quei giorni» (Luca 21, 23); e «beate le sterili» e «piangete su di voi e sui vostri figli». Gesù pensava la Pietà al contrario: la madre oggetto del compianto amoroso. L’attenzione compassionevole di Gesù trovava sempre i più poveri, i più soli tra i soli: e per lui sono le donne, prime quelle incinte o che allattano. Nel disastro generale, a loro è riservato il doppio del terrore e del dolore: per l’altro e per se stesse, così indispensabili all’altro. Parole di un’attualità sconvolgente: ogni giorno vediamo le spaventose tribolazioni delle popolazioni in fuga, e che le donne sono ancora le più povere, oggetto di torture e umiliazioni supplementari, spesso incinte e allattanti, e con piccoli da salvare. Ma ciò che le catastrofi aumentano esponenzialmente avviene già, nascosto, nella vita ordinaria.

La maternità, fino a poco tempo fa considerata l’unica grandezza e dovere delle donne anche in occidente, loro unica identità e ruolo, è ancora avvolta di una retorica che le rende afone. E così le donne vivono in solitudine tutto ciò che comporta: il turbamento della perdita della propria identità e libertà precedente, della responsabilità tremenda della vita di un altro, il risveglio dei propri vissuti di figlia, e la fatica di una cura senza esoneri.

In una società che usa il lavoro per dividere la maggioranza delle persone in esuberi o semi-schiavi sottopagati ricattati dalla precarietà, le donne sono ancora le più svantaggiate. In Italia, la retorica sulla maternità non è accompagnata da nessun aiuto che la tuteli, e combinare lavoro e maternità spesso è impossibile. Sempre, un’impresa. Come generare creature che non possono mantenere se, al 95 per cento di probabilità, le madri perderanno il lavoro in caso di maternità? La riprova di ciò è il caso che è andato su tutti i giornali italiani: un datore di lavoro che assume una donna al nono mese di gravidanza! È proprio l’eccezione che conferma la regola. E che fatica quando il lavoro c’è e i figli pure. E se il lavoro è di un certo tenore, e chiede viaggi e convegni, le donne sono sole più che mai nelle esigenze contrapposte della carriera e della maternità. Questa solitudine è piena di dubbi e di scrupoli nel sentirsi, per forza di cose, mai adeguate all’una e all’altra realtà: troppo poco tempo a casa, troppo poca disponibilità al lavoro rispetto ai colleghi maschi. E occorrerà che siano tre volte migliori di loro per procedere! Questo conflitto interiore che affligge ed estenua le donne che hanno un lavoro, e il cui prezzo sono sole a pagare, gli uomini non lo conoscono né poco né tanto.

E la maternità in se stessa pure è una realtà che non va affatto da sé. Occorrerebbero spazi sociali di accoglienza, di ascolto e di confronto dove fosse possibile per ogni madre dire nella libertà la verità della propria fatica e del proprio sgomento. Sebbene le scienze umane ci abbiano avvertiti delle contraddizioni di cui soffre l’amore materno, come d’altronde ogni amore, per una donna è difficile su tale argomento esprimersi liberamente quando i propri sentimenti sono penosamente contrari alla vulgata retorica; e questa afonia è solitudine. E se poi la maternità avviene in situazione di affetti precari, cosa non rara, senza l’aiuto di un partner responsabile, solidale nella cura e non latitante, l’esperienza di madre è penosa e dolorosa. E la consapevolezza ormai diffusa che il proprio bambino crescerà e si svilupperà in modo buono solo grazie al buon attaccamento a una madre accogliente, peggiora la situazione. È inaccettabile che la società lasci le madri nella solitudine senza aiuti, e che la futura salute della società sia così gravata quasi solo sulle loro spalle, senza i necessari sostegni sociali: luoghi di incontro e dialogo, lunghi congedi per maternità, lunga garanzia del posto di lavoro, nidi, e sostegno economico se necessario. Quanto attento ascolto meriterebbero le madri; quante fatiche delle madri che, se trovassero nell’ascolto un aiuto, non dominerebbero come tiranni la vita dei piccoli.

E le donne sarebbero meno sole se la parola pubblica dei media non s’accanisse sulla maternità usando parole di piombo con vergognosa leggerezza. Ogni retorica sulla maternità, che la mistifichi cosificandola o, al contrario, la svaluti e la banalizzi, è loro nemica. Il più triste esempio di parola pubblica irrispettosa delle donne è come viene trattato l’argomento bruciante e doloroso dell’aborto: si pensi a tutto ciò che viene urlato. Una realtà drammatica e intima come questa la si usa addirittura come propaganda politica. Non si rispetta la solitudine che accompagna l’angoscia della donna coinvolta, il tormento della contraddizione intima di tutta se stessa, il dramma desolato di una donna incinta che crede di non poter accogliere e crescere quel nuovo essere che si è annunciato dentro di lei. Pur conoscendo, ognuno, situazioni familiari affettivamente miserabili, non c’è lo sforzo rispettoso e silenzioso di immaginare ciò che induce a impedirsi di generare in tali condizioni per il nuovo essere: perché non basta partorirlo. Che la decisione sia imposta dal partner, dalla famiglia, dal rischio di perdere l’unico lavoro e l’unica entrata economica per sé e la prole, dall’alta probabilità di una malformazione grave del feto, o da un’impotenza affettiva propria o ambientale, è comunque una violenza che ci ferisce anima e corpo, incancellabile dalla nostra memoria affettiva, corporale e morale. E spesso il culmine della solitudine nella quale quasi sempre avviene questo dramma è l’assenza del partner a condividerne lo strazio.

Ma nelle chiese di Dio dovrebbe esserci una coscienza del tutto diversa, una fedeltà fatta di corresponsabilità tra i genitori e una solidarietà di fraternità nella comunità che dovrebbe preservare le donne dai peggiori drammi della maternità in solitudine. Poiché neppure il Signore Dio ha imposto la maternità a Maria, ma le ha chiesto il suo consenso fiducioso, uomini e donne dovrebbero chiedersi l’un l’altro il consenso previo a generare, visto che tentiamo di farci imitatori di Dio. E questo, con l’aiuto di leggi e servizi sociali che aiutino le donne e datori di lavoro che non le ricattino, renderebbe la maternità ben più desiderabile, possibile e umana, e del tutto rara la tragedia dell’aborto.

E c’è la solitudine delle donne entrate nella malattia o debolezza dell’anzianità. Abituate a occuparsi degli altri e non di sé, se in famiglia non scatta l’idea di occuparsi di loro, questa solitudine le rattrista convincendole di essere solo uno strumento per il bene altrui.

di Maria dell’Orto sorella di Bose
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