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Ludwig Monti La forza del desiderio

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📖 Quaresima, tempo di penitenza, di pianto per i propri peccati e di ritorno al Signore, attraverso l’amore fraterno. Scegliamo di accompagnare questo cammino con il commento ai sette salmi penitenziali, uno per ogni venerdì di Quaresima: giorno particolarmente simbolico, nel quale, anche grazie alla pratica intelligente del digiuno a cui la chiesa ci invita, possiamo conoscere meglio il nostro cuore e disporci ad accogliere la chiamata del Signore a fare ritorno a lui.

Questi sette salmi non sono una raccolta messa in evidenza dal Salterio con qualche titolo specifico, non appartengono neanche a un determinato genere letterario. È la sapienza della grande tradizione cristiana ad averli costituiti in un settenario glorioso, da leggere, meditare e pregare per accompagnare il proprio pentimento. Tracce di tale raggruppamento sono già presenti in Origene (185-254) e in Agostino (354-430; il suo biografo scrive che egli amava e meditava con particolare intensità una collezione di “pochissimi salmi di penitenza”); ma il primo a collegare esplicitamente tra loro questi sette salmi è Cassiodoro (485-580): “Nel libro del Salterio, secondo l’uso recepito dalle chiese, i penitenti vengono ammaestrati da sette particolari insegnamenti, utilissimi a chi vuole chiedere perdono al Signore … Questi salmi sono gli strumenti più efficaci per la purificazione del nostro cuore, per rinascere dalla morte dei peccati e passare dal pianto alla gioia nel Signore”.

Intraprendiamo dunque questo itinerario dal pianto alla gioia, percorrendo le sette tappe indicate dalla sapienza di questi salmi.

I sette salmi penitenziali: 
3) Salmo 38

TERZA TAPPA: IL DESIDERIO



1 Salmo. Di David. Per fare memoria.

2 Signore, non rimproverarmi con sdegno
non correggermi con furore,
3 le tue frecce penetrano in me
e pesa su di me la tua mano
4 per la tua collera nulla è sano nella mia carne
per il mio peccato neppure un osso è intatto.

5 Le mie colpe ricadono sul mio capo
sono un peso superiore alle mie forze
6 le mie piaghe sono infiammate e purulente
ecco come pago la mia stoltezza.

7 Schiacciato e curvato all’estremo
oscuro mi aggiro tutto il giorno
8 fino alle midolla mi brucia la febbre
nella mia carne non c’è più nulla di sano.

9 Sfinito e indebolito all’estremo
ruggisco per il fremito del mio cuore
10 tutto il mio desiderio è davanti a te,
Signore il mio gemito a te non è nascosto.

11 Mi batte il cuore e le forze mi abbandonano
viene meno la luce dei miei occhi
12 amici e compagni stanno a distanza
i miei vicini lontano dalle mie piaghe.

13 Tendono lacci e attentano alla mia vita
coloro che cercano la mia rovina
essi pronunciano malefiche parole
e tutto il giorno progettano inganni.

14 Ma io come un sordo non ascolto
come un muto non apro la bocca
15 sì, come un uomo che non sente
con una bocca incapace di replicare.

16 È in te che io spero, Signore
mi risponderai, Signore mio Dio
17 io dico: «Non gioiscano alle mie spalle
non si innalzino se il mio piede vacilla!».

18 Ma ora io sto per cadere
e il mio dolore mi è sempre presente
19 ecco, io confesso la mia colpa
sono turbato a causa del mio peccato.

20 I miei nemici sono forti e vigorosi
numerosi mi avversano con menzogne
21 mi rendono il male per il bene
mi accusano se perseguo il bene.

22 Signore, non abbandonarmi
non stare lontano da me,
23 mio Dio vieni presto in mio aiuto
tu, Signore, mia salvezza.

“Questo salmo dipinge con la massima chiarezza le parole, le opere, i pensieri e i sentimenti di un cuore penitente”. Così Lutero riassume il salmo 38, il terzo dei penitenziali, accomunato al primo (il 6) dal medesimo inizio. “Voce di colui che nella malattia fa penitenza” (titoli antichi, serie II): un uomo accasciato da una durissima malattia descrive accuratamente il suo stato di prostrazione, si lamenta e supplica il Signore di essere liberato, sperando in lui e confidando nel suo aiuto. Il testo presenta gli elementi tradizionali dei salmi di supplica:

il destinatario della preghiera è il Signore, invocato all’inizio (v. 2), al centro (vv. 10 e 16) e alla fine del salmo (vv. 22-23);

quelli che un tempo erano gli amici del malato ora lo sfuggono, quelli che gli erano vicini, forse i parenti, stanno lontani da lui (v. 12); a ciò si aggiunge la classica ostilità dei nemici, che approfittano della situazione per odiare senza ragione il malcapitato (vv. 13.17.20-21); quest’ultimo mette davanti agli occhi del lettore lo sfacelo del suo corpo, senza nascondere alcun particolare (ossa, midolla, carne, cuore, occhi); si trova in una condizione di isolamento, di assenza di relazioni, è come un sordomuto (vv. 14-15).

Questa segregazione è probabilmente dovuta alla lebbra (si parla di “piaga”, termine che per ben 56 volte nel Levitico designa tale malattia), un vero e proprio flagello per la Bibbia: chi ne è colpito è “come uno a cui suo padre ha sputato in faccia” (cf. Nm 12,14), è come morto pur essendo ancora in vita. La lebbra è il caso per eccellenza in cui la mentalità biblica fa valere la teoria della retribuzione: ogni malattia, e questa con particolare evidenza, sarebbe il castigo del peccato commesso; alle sofferenze del lebbroso si aggiunge anche il marchio della colpa.

Quello della malattia come castigo di Dio per un peccato commesso – qui espresso attraverso l’immagine delle frecce scagliate da Dio e del peso della sua mano – è un tema delicatissimo e sempre esposto al rischio di grossolani fraintendimenti. Su di esso Gesù ha pronunciato parole risolutive, in risposta alla domanda dei suoi discepoli a proposito di un uomo cieco dalla nascita: “‘Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?’. Rispose Gesù: ‘Né lui ha peccato né i suoi genitori’” (Gv 9,2-3). Ma se n’è già parlato a proposito del salmo 6…

Il dato significativo è che anche in una condizione di estrema sofferenza quest’uomo osi aprire con fiducia il proprio cuore a quello stesso Dio che pure descrive come un implacabile arciere: ecco il paradosso del salmo 38, secondo per intensità espressiva solo al salmo 87 (88). È in questo quadro che si colloca anche la consapevolezza del proprio peccato da parte del salmista (tratto comune al salmo 31 [32], dove la malattia fisica è solo accennata), manifestata a più riprese davanti al Signore: “Per il mio peccato neppure un osso è intatto. Le mie colpe ricadono sul mio capo, sono un peso superiore alle mie forze … Ecco, io confesso la mia colpa, sono turbato a causa del mio peccato”. Anche l’affermazione “il mio dolore mi è sempre davanti” sembra suonare come: “il mio peccato mi è sempre davanti” (Sal 50,5). Quest’uomo non accampa scuse, non si scaglia neppure in modo eccessivo contro i nemici, di cui si limita a riconoscere l’esistenza: confessa con onestà la propria colpevolezza, collegandola forse inconsciamente alla sua prostrazione fisica, e lo fa davanti al Signore.

Il suo atteggiamento è ben riassunto dall’affermazione del v. 10, vertice del salmo: “Tutto il mio desiderio è davanti a te, Signore”; tutta la mia epithymía, traduce la versione greca con un termine ambiguo, che può designare desideri buoni ma anche pulsioni meno nobili, frutto di concupiscenza mondana (cf. 1Gv 2,16-17). Grande insegnamento! Occorre la fatica di discernere tutto il proprio desiderio e tutti i propri desideri, insieme al coraggio di porli davanti a Dio, senza escluderne alcuno: solo così si può fare spazio in sé al desiderio profondo di Dio, quello di purificare e portare a compimento ogni nostro desiderio. Commenta magnificamente Agostino:

“Davanti a te è ogni mio desiderio”. Non davanti agli uomini, che non possono vedere il cuore, ma “davanti a te”. Sia davanti a lui il tuo desiderio; “e il Padre, che vede nel segreto, ti esaudirà” (cf. Mt 6,6). Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Perché non invano ha detto l’Apostolo: “Pregando senza interruzione” (cf. 1Ts 5,17). Forse senza interruzione pieghiamo il ginocchio, prostriamo il corpo, o leviamo le mani? Se intendiamo il pregare in tal modo, non lo possiamo fare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore ininterrotta: il desiderio. E se è davanti a lui il desiderio, non sarà davanti a lui anche il gemito? Come potrebbe non essere così, dal momento che il gemito è la voce del desiderio? Se dentro al cuore c’è il desiderio, c’è anche il gemito; non sempre esso giunge agli orecchi degli uomini, ma mai resta lontano dagli orecchi di Dio.

Balzano agli occhi i parallelismi del nostro salmo con quanto avviene a Gesù durante la passione: il suo essere abbandonato da parte degli amici (cf. Mc 14,50; Mt 26,56); le donne che osservano da lontano la sua crocifissione (cf. Mc 15,40-41 e par.); il suo silenzio davanti agli accusatori (cf. Mc 14,61; 15,5; Mt 26,63; 27,14), lo stesso vissuto dal Servo del Signore (cf. Is 53,7; At 8,32). Nell’ora finale della sua vita, di fronte a quanti lo odiavano senza ragione, Gesù “senza minacciare vendetta si è affidato a colui che giudica con giustizia” (cf. 1P 2,23). In quest’ottica è stata intesa la versione greca del v. 18: “Sono pronto ai colpi dei flagelli”, nonché due interessanti aggiunte presenti in alcuni manoscritti della stessa versione, di probabile origine cristiana: “Io sono stato appeso da loro” (v. 14); “Essi hanno rigettato me, l’amato, come un cadavere aborrito, e hanno inchiodato la mia carne” (v. 21).

Più in generale, però, credo che l’intero salmo possa essere posto sulla bocca di Gesù: nel suo frequente accompagnarsi con malati e peccatori, egli ha finito per identificarsi con essi; ha vissuto la com-passione con loro a tal punto da “aver preso su di sé le loro infermità ed essersi caricato delle loro malattie” (cf. Is 53,4; Mt 8,17). Ecco come bisogna intendere l’ardita affermazione paolina: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2Cor 5,21).

Così la preghiera del malato e del sofferente è diventata la preghiera di Cristo: egli prega questo salmo con noi e per noi, condividendo fino alla fine la nostra condizione umana e insegnandoci a porre davanti a Dio tutto e ogni nostro desiderio, sempre mescolato ai nostri gemiti. Chi non desidera e non geme, non può aprirsi alla comunione con Gesù Cristo.


Signore, davanti a te è ogni nostro desiderio
e il nostro gemito a te non è nascosto:
donaci dunque ciò che desideriamo
e perdona ciò che di male abbiamo fatto,
accorda il frutto ai nostri desideri
e il perdono ai nostri peccati.

(Orazione salmica di tradizione spagnola, fine VII secolo)

Fratel Ludwig Monti
dal sito del Monastero di Bose
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