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Gianfranco Ravasi Sant'Agostino amato da Bob Dylan

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In occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura 2016 a Bob Dylan proponiamo un articolo del Cardinale Gianfranco Ravasi del 10 aprile 2011 sull'artista.

Settant'anni fa, il 24 maggio 1941, a Duluth, porto fluviale che s'affaccia sul lago Superiore, il secondo al mondo dopo il Caspio, nel Minnesota, nasceva Bob Dylan (all'anagrafe Robert Zimmermann).
Questo cantautore divenuto uno dei miti dell'epopea beat degli anni Sessanta, vagabondo e inquieto fino a ripiegare, nell'ultima fase, all'interno del panorama segreto della sua interiorità attraverso esplorazioni dai contorni ora psichedelici ora mistici, trasformatosi persino in scrittore col non memorabile romanzo Tarantula del 1971, noi ora lo dirottiamo nelle nostre righe per una ragione che sorprenderà molti.

Sì, lo coinvolgiamo nientemeno che in una recensione riguardante uno dei massimi Padri della Chiesa, quel sant'Agostino a cui Dylan nell'album John Wesley Harding dedicò nel 1968 una canzone.
Non è che i temi spirituali siano stati alieni a questo personaggio che aveva respirato non solo folk, rock e blues ma anche echi degli spirituals afro-americani: lo ricordo ancora col suo inseparabile cappello mentre cantava e suonava davanti a un (forse perplesso) attento e incuriosito Giovanni Paolo II durante una serata per i giovani in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale il 27 settembre 1997, a Bologna, invitato coraggiosamente dall'allora arcivescovo, il cardinale Giacomo Biffi. Ma ritorniamo alla canzone che inizia così: I dreamed I saw saint Augustine e che ha il suo apice nella ripresa successiva: I dreamed I saw saint Augustine alive with fiery breath! Dunque, Bob aveva sognato di vedere sant'Agostino «in carne e ossa che correva nei nostri quartieri in estrema povertà... e cercava anime che già erano state vendute, gridando forte: Alzatevi, alzatevi! Venite fuori e ascoltate...».

E alla fine, ecco Dylan confessare ancora: «Ho sognato di vedere sant'Agostino, vivo di un respiro di fuoco» per aggiungere in conclusione un apocrifo martirio del santo, in realtà solo un incubo onirico: «Ho sognato di essere tra coloro che lo misero a morte! Oh, mi sono svegliato adirato, solo e terrorizzato..., ho abbassato la testa e ho pianto». Ebbene, proprio questa canzone l'ho ritrovata in apertura a una curiosa e un po' provocatoria biografia di Agostino di Ippona... per chi non ha tempo, tracciata da un professore di scienze religiose di Lancaster in Pennsylvania, tale Stephen A. Cooper, che si è fatto accompagnare dal cartoonist Ron Hill di Cleveland. Un'americanata, direte. Era un po' il sospetto che avevo anch'io quando ho sfogliato queste pagine a prima vista irriverenti.

In verità, andando avanti, di capitolo in capitolo, mi sono riconciliato con Cooper e il suo vignettista un po' esagitato: il ritratto del grande santo e genio dell'umanità è ben abbozzato per un lettore ignaro di temi teologici, anzi, mi è venuto il dubbio che fosse fin troppo impegnativo per «chi non ha tempo» da dedicare a simili argomenti. Certo, l'autore non si inoltra più di tanto nell'oceano testuale agostiniano, ma preferisce attestarsi sulla filigrana delle Confessioni, vera e propria odissea di una conversione e storia di un'anima (giustamente Cooper amerebbe intitolare quell'opera Conversazioni perché, come è noto, il testo è un interrotto dialogo con Dio). Eppure, il lettore frettoloso – ma non troppo – del volume scopre il profilo intimo di una ricerca che intreccia fede e ragione, Bibbia e Plotino, mistica e autocoscienza, conversione esistenziale e riflessione metafisica. In ultima analisi, aveva ragione Dylan, nel vescovo di Ippona, si incrocia un fiery breath, un ardente respiro di amore, con un alito fresco che proviene dai cieli cristallini della teologia, nella ferma convinzione che «la natura umana manca di unitarietà e la può trovare solo alla alla luce dell'unitarietà di Dio e questa dote divina è resa a noi disponibile in una forma umana, prima in Cristo e poi nella Chiesa, poiché la Chiesa è la dimensione sociale dell'esistenza cristiana».

Ma a chi ha tempo e vuole inoltrarsi in quel mare di pensieri, di riflessioni, di invocazioni che sostanziano le pagine agostiniane che cosa possiamo suggerire? Arduo è dare un'indicazione perché statisticamente si dice che ogni giorno appare almeno una pubblicazione su o di Agostino. Scegliamo, allora, uno dei suoi gioielli teologici e letterari, quel Commento al Vangelo di Giovanni che la mai a sufficienza lodata collana «Il pensiero occidentale» di Bompiani ci squaderna davanti sia nell'originale latino coi suoi 124 tractatus, sia nella versione italiana accompagnata da un'ampia esegesi di Giovanni Reale. Siamo in presenza di una serie di discorsi distribuiti in tre fasi storiche differenti (nel 406-407, nel 414 e infine degli anni 419-421) e composti con modalità diverse, alcuni in forma orale trascritta dai tachigrafi, altri dettati dal santo stesso; eppure questa eterogeneità non mina la compattezza dell'opera.

Essa, come suggerisce il curatore, rivela nelle sue pagine non solo un anelito straordinario di spiritualità, di comunicazione e di cultura – tant'è vero che è giusto lamentare che l'opera sia nota soltanto ai teologi e ignota agli uomini di cultura –, ma anche una particolare tessitura "a tarsia" allestita attraverso una fitta trama di citazioni ed evocazioni o ammiccamenti biblici. Centrale, ovviamente, è il tema del l'agápe cristiana che trascende e fin capovolge la concezione platonica dell'eros. Un amore che ha la sua sorgente nell'Incarnazione: Deus homo factus est; quid futurus est homo, propter quem Deus factus est homo? («Dio si è fatto uomo, che cosa dovrà diventare l'uomo, se per lui Dio si è fatto uomo?»). E che dire, poi, della "terza navigazione" agostiniana, condotta sul naviglio del lignum crucis, che travalica la celebre "seconda navigazione" (déuteros plous) del Fedone platonico. Lasciamo, allora, al lettore che ama le profondità abissali o i vertici di luce di imbarcarsi in questa avventura della mente e dell'anima.

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