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Timothy Radcliffe Pietà e perdono

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Nella bolla d’indizione del Giubileo della misericordia, Papa Francesco sottolineava che la misericordia è la via che unisce Dio e l’uomo «perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato». Inoltre, nella preghiera che ha appositamente composto, ci invitava a chiedere al Signore che la Chiesa «con rinnovato entusiasmo possa portare ai poveri il lieto messaggio, proclamare ai prigionieri e agli oppressi la libertà e ai ciechi restituire la vista». Si vede che il termine misericordia è usato in due sensi. In primo luogo significa pietà per i poveri e per gli ammalati. Due ciechi gridano a Gesù: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi» (Matteo, 9, 27). Qui la misericordia è rivolta a persone che sono portatrici di una disabilità. Inoltre, il Vangelo parla anche di misericordia verso i peccatori, ovvero di perdono.
Ma che cosa c’entra la misericordia verso i peccatori con la misericordia verso le persone che senza colpa hanno una disabilità? Misericordia è essere toccati dal dolore di un’altra persona. Quando Gesù ha misericordia, la parola significa letteralmente che egli si sente commosso nelle viscere, si sente rimescolare gli organi interni. La parola latina significa letteralmente che la miseria di qualcuno (miser) tocca il cuore (cor). Non importa se quella persona è nel dolore a causa dei suoi peccati o a causa di ingiustizia o malattia. Siamo presi dal suo dolore, dalla sua sofferenza. Il motivo è irrilevante. La parola ebraica per indicare la misericordia, ra h a m i m , viene dalla stessa radice di «utero» ( re h e m ).
Misericordia significa che si condivide il dolore di un altro, come fa una madre. Non vi è alcuna distinzione tra la compassione per un figlio povero e affamato e la compassione per un figlio peccatore che è scappato con il bottino. Ciò che conta è che quel figlio sta soffrendo. Milioni di persone si sono commosse profondamente, nel settembre del 2015, quando hanno visto il corpo morto di quel bambino di tre anni, Aylan Kurdi, lambito dalle onde su una spiaggia turca. La sofferenza di suo padre, profugo siriano, ha toccato i nostri cuori. Spesso le persone sono cieche alle sofferenze degli stranieri. Dopo tutto, dicono, sono forestieri, non sono come noi. Il filosofo australiano Raimond Gaita racconta di aver parlato con una donna che aveva perso un figlio. Stavano guardando un documentario sulle madri vietnamite i cui figli erano stati uccisi durante la guerra. Inizialmente la donna era rimasta colpita e si era identificata con quelle madri, ma poi aveva detto: «Per loro è diverso. Basta che facciano altri figli». Secondo lei quelle donne vietnamite erano incapaci di soffrire come noi. «Possono sostituire i loro figli più o meno come noi sostituiamo gli animali domestici». Quando il telegiornale trasmette immagini di persone con la pancia gonfia che muoiono di fame in Darfur, li vediamo come nostri simili? Forse no, perché pochi di noi hanno davvero conosciuto la fame. Misericordia, nel senso cristiano, non è fare un po’ di carità in maniera paternalistica, mandando ai bisognosi qualche patata fredda o una pentola di zuppa. È cercare un mondo più giusto in cui la loro dignità sia riconosciuta, perché fanno parte di ciò che siamo, sono carne della nostra carne. Isaia dice che questa è la volontà del Signore: «Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?» (58, 7). Noi siamo loro. La prima visita del Papa fuori Roma è stata a Lampedusa. Migliaia di migranti provenienti dall’Africa annegano nel tentativo di approdarvi per entrare in Europa. Il Papa ha detto: «Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere». L’altro significato della misericordia è il perdono dei peccati. È fondamentale per la vita cristiana. Chiediamo perdono dei nostri peccati, e perdoniamo gli altri. Il cristianesimo più di ogni altra grande religione mette al centro il perdono dei peccati. Ogni celebrazione della messa comincia con l’invito a ricordare i nostri peccati e a pentirci. Non è un modo molto allegro per iniziare una festa. Quando ero bambino, quasi tutti andavano a confessarsi di frequente. Ora la pratica è in gran parte scomparsa. E molte persone dicono che non ci vanno perché vogliono uscire da questa ossessione del peccato.
Spesso la gente pensa che la richiesta di perdono alimenti un complesso di colpa. Questo genere di complesso di colpa è distruttivo. Diventa un peso psicologico che schiaccia le persone. E non ha nulla a che fare con il cristianesimo. Dio si delizia di noi, gli fa piacere che ci siamo. Il padre gesuita Gregory Boyle lavora con i giovani che rischiano di finire nel giro dei trafficanti di droga a Los Angeles. Così presenta loro Dio: «È colui che non riesce a staccarvi gli occhi di dosso, perché vi ha fatti e vi trova bellissimi». Riconoscere di essere peccatori non vuol dire provare disgusto per se stessi. Il peccato, allora, che cosa riguarda? In primo luogo, non si tratta di sentire cose negative in se stessi. Se anche fossimo dei grandissimi santi, sappiamo che siamo stati creati per amare infinitamente e che non possiamo riuscirci da soli. La nostra felicità è essere coinvolti in un amore totale e incondizionato. È una sorta di folle amore assoluto, che supera le nostre capacità naturali. Francis Spufford osserva che il cristianesimo «fa richieste francamente impossibili [...] Ti dice di dar via i tuoi beni, di rifiutarti di difenderti, di amare gli estranei quanto i tuoi parenti, di comportarti come se non ci fosse un domani. Questi principi non costituiscono un programma sostenibile». Gesù ci invita a un amore impossibile, oltre la nostra portata. Questo amore totale senza limiti è la vita stessa di Dio. Non possiamo amare così da noi stessi. Non ce la facciamo. La richiesta di perdono non vuol dire che siamo malvagi. Per lo più non lo siamo. La stragrande maggioranza delle persone è buona, è per bene. Vuol dire che siamo stati creati per amare totalmente, ma che non siamo in grado di farlo da noi stessi. Andare a confessarsi non vuol dire battersi il petto e rimurginare sulla propria malvagità. Significa riconoscere che ognuno di noi è chiamato all’amore totale e incondizionato e che ha bisogno della grazia risanante di Dio per raggiungerlo. Ricordo ancora il funerale del mio amato confratello Pierre Claverie, vescovo in Algeria. È stato assassinato nel 1996 a causa della sua opposizione alla violenza. Ma circa mille musulmani sono venuti al suo funerale. Una giovane donna alla fine ha dato la sua testimonianza. Ha detto che era tornata alla propria fede grazie a Pierre. «È stato anche il vescovo dei musulmani». Lentamente, nella cattedrale ha cominciato a risuonare un mormorio in arabo. Ho chiesto che cosa stessero dicendo. Mille musulmani dicevano: «Era anche il nostro vescovo».
Il terribile atto del suo assassinio ha portato questo frutto inaspettato. Questo è il perdono. Può la grazia di Dio rimediare sempre agli errori della nostra vita? Direi di sì, a patto che ci sia da parte nostra un’ap ertura all’amore, anche minima. Non ha senso chiedere perdono se non si è disposti a perdonare. Se non diventiamo persone che perdonano, non siamo capaci di ricevere questo perdono. Non è sempre facile perdonare gli altri. Che cosa possiamo fare? Prima di tutto, possiamo chiedere a Dio di perdonare. Morendo sulla croce, Gesù non ha detto che perdonava i suoi carnefici. Non era nelle condizioni per farlo. Ma ha detto al Padre: «Perdonali perché non sanno quello che fanno».
Questo può essere il primo passo di fronte a un profondo dolore. Perdonali tu, Padre. Io ancora non ce la faccio. Sono ancora troppo arrabbiato e ferito. Ma tu, nella tua misericordia infinita, puoi. In secondo luogo, facciamo spazio al perdono nel nostro cuore. Impariamo piano piano a non aggrapparci alle ferite e al risentimento. Forse dobbiamo iniziare con i piccoli gesti di perdono, le piccole ferite. E poi un poco alla volta diventeremo capaci di perdonare le cose più serie. Affronteremo le ferite più grosse quando i tempi saranno maturi. Se il perdono è come una piccola pianta che fiorisce nel deserto, è necessario lasciarlo sbocciare quando sarà pronto. Non si fanno crescere le piante tirandole fuori dalla terra. Come ha detto Stephen Cherry, decano del King’s College di Cambridge: «Il perdono emergerà lentamente da un cuore preparato a vivere la tensione tra l’impossibilità e la simultanea necessità di perdonare». È quanto il Papa stesso ha inteso ricapitolare nel simbolo giubilare del «passaggio» dalle Porte della misericordia: «Chiunque [vi] entrerà potrà sperimentare l’amore di Dio che consola, che perdona e dona speranza».

© Osservatore Romano - 16 luglio 2016
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