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Paolo Ricca Verso una chiesa della misericordia

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1. Introduzione

Grazie dell’invito[1]. Vengo sempre volentieri a «Bibbia Aperta»: sapete perché? Perché una Bibbia aperta è nelle antiche chiese valdesi l’unico oggetto sacro, diciamo così, che c’è, non c’era neppure una croce una volta; adesso nella modernità si dipinge una croce, ma nelle più antiche non c’era nulla tranne una Bibbia aperta, quindi questo nome mi è molto caro, è proprio congeniale anche con la piccola storia della nostra piccola chiesa, e siccome la fede viene dall’udire e l’udire si ha per mezzo della parola di Cristo – come dice l’apostolo Paolo –io credo che la Bibbia aperta dovrebbe essere l’emblema di ogni chiesa, di ogni fede cristiana e tanto più questo se dobbiamo dar credito a quel rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia di cui avant’ieri il giornale «la Repubblica» ha dato conto, un rapporto di 500 pagine, curato da Alberto Melloni e da una trentina di collaboratori esperti in questo campo2[2].

Da questo rapporto risulta che il 70% degli italiani credenti e non credenti non legge mai la Bibbia, che solo il 30% degli italiani è in grado di menzionare i quattro evangelisti e che solo l’1% degli italiani è in grado di enumerare i dieci comandamenti.
Diciamo pure che l’associazione «Bibbia Aperta» ha un grandissimo lavoro da fare in Italia e quindi io sono sempre molto felice quando ricevo il vostro invito.
Ho pensato di suddividere il tema Verso una chiesa della misericordia in due parti: nella prima dirò quali sono le implicazioni di questo tema e soprattutto quali sono le implicazioni della preposizione verso una chiesa della misericordia; nella seconda parte cercherò, per quanto fattibile, sperando contro speranza, come dice l’apostolo Paolo, di tracciare un filo di una possibile «chiesa della misericordia», che indubbiamente ancora non c’è.

2. Implicazioni del tema misericordia

Che cosa vuol dire verso una chiesa della misericordia? Vuol dire che questa chiesa sta oltre la chiesa attuale, una chiesa che non c’è ancora, quindi la chiesa attuale non è una chiesa della misericordia; e questa è una constatazione amarissima perché una domanda sorge spontanea: ma una chiesa che non sia «chiesa della misericordia» che chiesa è? Come può una chiesa non essere «della» misericordia se è «di» misericordia che essa vive e precisamente se è «per» misericordia di Dio che essa esiste e sussiste; di quel Dio che «fa» misericordia (cf. Rm 9), che «usa» misericordia (cf. Lc 1), che si «compiace di usare» misericordia (cf. Mi 7), che dice di se stesso: Io sono misericordioso, la misericordia gli appartiene (cf. Sal 62), è pieno di compassione e di misericordia; come può una chiesa che crede in questo Dio non essere una chiesa «della misericordia»?
Ecco perché questo tema sorprende, cioè il fatto che noi dobbiamo dire verso e dobbiamo dirlo per ragioni autentiche, perché è così, perché il paradosso della chiesa come la conosciamo è che da un lato vive di misericordia, cioè se Dio non avesse misericordia la chiesa scomparirebbe come neve al sole, quindi esiste perché c’è questa misericordia. Perciò non dobbiamo andare verso una chiesa della misericordia, è la misericordia che è venuta verso di noi e da questo movimento della misericordia di Dio è nata, nasce e rinasce ogni giorno la chiesa.
In realtà, il fatto che la chiesa esista è il segno di una misericordia che ogni giorno si rinnova da Dio verso di noi. E il paradosso è appunto questo: com’è possibile che una chiesa che vive unicamente grazie alla misericordia non sia poi de facto chiesa della misericordia? Siamo una chiesa in tutto e per tutto oggetto di misericordia, che non riesce a essere soggetto di misericordia; siamo una chiesa che vive di misericordia, ma che non riesce a vivere la misericordia. Questo è il paradosso implicito nel nostro tema, in questa parolina iniziale verso una chiesa della misericordia.
Ma come mai, che cos’è successo per cui ci troviamo in questo paradosso, che è oggettivamente tanto più misterioso in quanto le premesse per essere chiesa della misericordia c’erano tutte.
Dio è amore, Gesù ha riassunto tutto il Primo Testamento nel doppio comandamento dell’amore. L’apostolo Paolo dice che durano tre cose: fede, speranza e amore, ma l’amore è più grande delle tre. Giovanni, dal canto suo, dichiara che solo se ci amiamo gli uni gli altri Dio rimane in noi.
Cioè sembra quasi impossibile che la chiesa non sia una chiesa della misericordia, dato che l’amore ne è l’elemento costitutivo, qualificante, strutturante, per cui si può dire che la chiesa non sia altro che una comunità di amore ricevuto, creduto e vissuto. Eppure malgrado tutto questo siamo ancora a porci, a muoverci verso una chiesa dell’amore, della misericordia. Uso questi due termini che hanno sfumature diverse, li adopero come sinonimi ma per il nostro obiettivo, per il nostro tema qui le sfumature non sono importanti, non sono rilevanti.
Ora non è che il tema della misericordia, dell’amore sia stato ripudiato o ignorato dalla chiesa, al contrario. Forse nessun’altra istituzione in tutta la storia umana ha dato vita fino a oggi a tantissime attività caritative, assistenziali come la chiesa. La pratica della carità da parte della chiesa ha creato e gestito nei venti secoli della sua esistenza un numero incalcolabile di iniziative diaconali di ogni genere mediante le quali la comunità cristiana ha chiaramente manifestato non solo la sua disponibilità, ma anche la sua capacità di amare il prossimo non con la lingua ma con i fatti e in verità (cf. 1Gv 3,18).
Eppure neanche la storia straordinariamente ricca della diaconia cristiana in tutte le sue forme è sufficiente a caratterizzare la storia della chiesa come storia dell’amore. La chiesa è stata ed è senz’altro, credo come nessun’altra istituzione al mondo, chiesa della beneficenza, nel senso alto e nobile della parola, cioè una chiesa che fa del bene, ma non basta essere chiesa della beneficenza per essere una chiesa dell’amore: non basta.

3. Il divorzio tra verità e amore

Malgrado il fatto che l’amore si sia manifestato e si manifesti ogni giorno, in quanto la caritas è una grossa cosa (dico caritas sia in riferimento all’associazione, alla struttura, che alle persone, ma il fatto caritas nel mondo è enorme). Allora come mai non basta, che cosa c’è che non va, che cosa c’è che manca alla «chiesa della beneficenza» per essere «chiesa dell’amore»?
Non parlo naturalmente dell’altra storia, di quella storia oscura che fa parte anche della storia della chiesa: la storia delle scomuniche, delle crociate, ecc.; speriamo che sia tutto passato. Ma la ragione per cui la chiesa, pur essendo chiesa della beneficenza non è riuscita a diventare chiesa della misericordia, chiesa dell’amore credo che sia dovuto a un evento fatale, antico, molto antico, sicuramente dal secondo secolo, forse persino dal primo secolo della storia cristiana, e che io descrivo come il divorzio tra verità e amore. Nella rivelazione di Gesù erano inseparabilmente congiunti, ma in seguito queste due realtà si sono separate, si sono disgiunte, dissociate: la verità da una parte, l’amore dall’altra, perdendo di vista il loro intreccio vitale con il rischio di non comprendere più bene né l’uno né l’altra.
Così, ad esempio, è potuto accadere che mentre l’apostolo Paolo nella lettera agli Efesini dice che i cristiani devono seguire, devono andar dietro alla verità nell’amore. Cosa vediamo? Vediamo, ad esempio (sono solo esempi ma a mio giudizio molto eloquenti), vediamo che la chiesa antica è riuscita a formulare il suo credo, la sua confessione di fede attraverso il Credo apostolico e il famoso Credo niceno costantinopolitano, detto ecumenico, senza mai menzionare la parola amore. Naturalmente uno dice che è sottintesa, ma è strano confessare la fede in un Dio che è amore senza parlare dell’amore. Pensate come sarebbe diverso il credo se dicesse, ad esempio, più o meno, così:
Credo in Dio che è amore, per amore ha creato i cieli e la terra, per amore ha mandato suo Figlio nel mondo, per amore fa soffiare lo Spirito Santo che ci rende capaci di credere, sperare e amare. Credo nella chiesa, convocata dall’amore di Dio e mandata nel mondo per amare. Nell’amore non c’è paura, chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui...

Non credete che un credo di questo genere avrebbe potuto cambiare qualche cosa nella storia della chiesa? Non credete che la storia della chiesa, se avesse confessato così la sua fede, non sarebbe stata una storia diversa? Non credete che la chiesa avrebbe potuto integrare nella sua confessione di fede una confessione d’amore?
Ma questa confessione di amore non c’è stata; e a livello ufficiale non c’è neppure oggi. Ed è significativo che per indicare una persona religiosa di qualunque fede essa sia si dica: è un «credente». A nessuno viene in mente di dire che è un «amante». Ma l’apostolo Giovanni dice esattamente questo: che il cristiano è un amante perché è un credente, questo dice il vangelo di Giovanni, che è un po’ la conclusione di tutto il pensiero apostolico. E l’amore non può sostituirsi ad altre cose o faccende: accolto uno nella nostra chiesa, gli si chiede una confessione di fede, ma perché non gli si chiede anche una precisa confessione d’amore?
C’è il divorzio tra verità e amore. Si dice: ma l’amore è implicito nella fede. Ma l’amore non può essere implicito perché la natura propria dell’amore è di essere esplicito, non c’è nulla di più esplicito dell’amore: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). È dunque l’amore che individua il cristiano. Certo, anche la fede, anche la speranza: fede, speranza, amore sono sorelle gemelle, inseparabili e non intercambiabili. La fede non può sostituirsi alla speranza e all’amore, la speranza non può sostituirsi alla fede e all’amore, l’amore non può sostituirsi alla fede e alla speranza: sono inseparabili e insostituibili, ma la più grande delle tre è l’amore.
È questa grandezza maggiore che nella storia e nell’autocoscienza della chiesa mi pare latitante, mi pare assente. Il problema, insomma, è di una chiesa che vive di misericordia e non riesce a esprimerla, a esprimersi come misericordia.

4. Lineamenti di una possibile chiesa della misericordia

Veniamo alla seconda parte di questa esposizione: che cosa può significare chiesa della misericordia.
Articolerò la risposta in quattro punti, ben sapendo che il panorama può essere più ampio; quattro lineamenti possibili di una possibile chiesa dell’amore, della misericordia.
Il primo punto è molto semplice, potrebbe anche essere omesso dato che l’ho già menzionato, ma mi permetto di insistere. Una chiesa della misericordia è anche necessariamente una chiesa della beneficenza, cioè da quel fronte nessuna chiesa dell’amore può andare oltre, non basta, ma è indispensabile.
«Siate misericordiosi come è misericordioso il padre vostro», dice Gesù (Lc 6,36). Quindi una chiesa dell’amore continuerà a essere, potrà anche perfezionare il carattere della sua beneficenza, potrà assumere dei contenuti politici oltre che assistenziali, ecc. Questo è possibile ed è necessario, ma vorrei che questo punto venisse riaffermato. La chiesa ha fatto bene a essere chiesa della beneficenza e deve continuare, secondo me, a esserlo, senza prestare ascolto alle solite critiche che sentiamo: la beneficenza non risolve i problemi, la beneficenza li occulta, ecc. Tutta una serie di cose che abbiamo sentito mille volte, ma che non rispondono a chi è concretamente, in quel momento in pericolo di vita, in quel momento ha fame e non aspetta la soluzione della Fao per avere un piatto di cui vivere, ecc.
Anche nel Nuovo Testamento, nella lettera agli Ebrei, c’è una esplicita indicazione: non dimenticate la beneficenza (cf. Eb 13,16). E l’apostolo Giacomo dice: soccorri gli orfani e le vedove nella loro afflizione, questa è la vera e pura religione davanti a Dio (cf. Gc 1,27).
Quindi – per riprendere un’espressione felice di questo papa, che poi è diventata anche molto diffusa – la chiesa «ospedale da campo» vuol dire la chiesa samaritana, che nella tragedia quotidiana della vicenda umana cura i feriti, anche se non riesce a fare pace tra i contendenti; è la chiesa crocerossina che si è tanto presa in giro: invece va bene, anche se non basta per essere chiesa dell’amore. La chiesa che soccorre le innumerevoli vittime che la storia, con tutte le sue crisi e la storia della natura con tutti i suoi tsunami, suscita, genera ogni giorno.
C’è una parola di Gesù che voglio ricordare in questo contesto e che valorizza simbolicamente al massimo questo fare del bene. Una goccia di bene non toglie il male, ma toglie quel piccolo pezzo di male. Il loghion del bicchier d’acqua è bellissimo:

Chiunque vi avrà dato da bere un bicchier d’acqua nel nome mio perché siete di Cristo, in verità vi dico che non perderà il suo premio (Mc 9,41).

Il bicchier d’acqua non risolverà il problema della sete del mondo, la guerra dell’acqua come viene paventata, ecc., però toglie la sete che hai in quel momento. La chiesa è capace di darti il bicchier d’acqua, e lo fa, e lo deve fare, ed è soltanto se dà il bicchier d’acqua che può con buona coscienza affrontare i problemi più grandi. È la chiesa samaritana, la chiesa crocerossina che può poi cercare di essere anche chiesa dell’amore, trascendendo quella dimensione caritativa, ma non dimenticandola, «non dimenticate di praticare la beneficenza» (Eb 13,16). La chiesa dell’amore non si esaurisce nella chiesa samaritana, ma comincia da questa.

5. La libertà dell’amore

Secondo punto. Qui è la cosa più difficile, cioè la chiesa dell’amore è quella nella quale l’amore non determina solo il suo fare, ma il suo essere, la sua costituzione, le sue relazioni interne; addirittura le sue strutture, se è possibile parlare di strutture dell’amore, il suo modo di ragionare e di parlare, il suo modo di stare nel mondo.
Come possiamo immaginare una chiesa per la quale l’amore non è solo il motore della sua azione, della sua testimonianza, ma è propriamente il suo principio vitale, il cuore della sua autocoscienza, la linfa della sua esistenza, la radice della sua libertà e della sua sapienza; perché non c’è libertà più grande che quella di amare e non c’è sapienza più grande che quella dell’amore. Allora che cosa può essere una chiesa così, dove l’amore è identico alla sua autocoscienza, al suo essere. Io direi così – ma sicuramente sono formulazioni lacunose, provvisorie –: una chiesa in cui c’è poca legge e molta libertà o, meglio, una chiesa nella quale vige quella che l’apostolo Giacomo chiama la legge perfetta, cioè la legge della libertà: dove regna l’amore regna la libertà (cf. Gc 1,25), e quindi una chiesa dell’amore deve essere una chiesa della libertà e della responsabilità.
La chiesa, a mio giudizio, è afflitta da un numero spaventoso di leggi. Se voi pensate che Gesù ha riassunto tutte le leggi in un unico comandamento, che non è una legge perché è la legge dell’amore, che non è una legge; e se considerate quello che è successo nella chiesa, cioè la moltiplicazione delle leggi, che poi sono sovente anche leggi umane, anche buone ma che non hanno l’autorità della volontà di Dio, voi capite come il movimento della chiesa è stato esattamente antitetico a quello di Gesù, che riassume tutte le leggi nell’amore: ama Dio, ama il tuo prossimo; e invece la chiesa ha tradotto l’amore, o quel che è, in un numero spropositato di leggi. La chiesa dell’amore vorrei quasi dire una chiesa senza legge, se non la legge della libertà che è la legge dell’amore. Ti ritrovi sempre lì. Pensate a come l’apostolo Paolo descrive la vita di una comunità cristiana (cf. Gal 5). Lo spirito che anima la comunità cristiana è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, dolcezza, temperanza e, aggiunge, contro queste cose non c’è legge, cioè non è dalla legge che puoi ricavare queste cose. Cioè la vita della chiesa non può venire dalle leggi, non è così che la chiesa di Dio si governa. Quindi il secondo tratto caratteristico della chiesa dell’amore è, appunto, una chiesa della libertà e della responsabilità.

6. Una chiesa senza confini

Terzo lineamento. In un certo senso è più facile da definire: la chiesa dell’amore è una chiesa che ha un centro, ma non ha confini. Qui possiamo ricordare una parola straordinaria dell’apostolo Paolo, una parola che dice: «Dio... ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per fare misericordia a tutti» (Rm 11,32). A tutti, non a qualcuno o a molti. Ecco allora che non sai più dove stanno i confini. Il centro ci vuole: se non c’è un centro non c’è comunità. Il centro – è inutile dirlo – è il Cristo, ma una volta che hai posto saldamente questo centro dove tracci il confine della circonferenza a partire da quel centro? Gesù ha mai tracciato dei confini? Non ha piuttosto cercato sempre di allargare i confini della comunità di cui faceva parte, dicendo, ad esempio, di Zaccheo, il pubblicano escluso dalla comunità israelitica: «Anche questo è figlio di Abramo» (Lc 19,9). Ma non solo. Dice del centurione romano: «In verità vi dico che non ho trovato tanta fede in Israele quanta ne ho trovato in questo pagano» (Lc 7,9). Ma non solo. Dice della prostituta che gli rigava i piedi di lacrime e glieli asciugava con i capelli: «I suoi molti peccati le sono perdonati perché ha molto amato» (Lc 7,47).
Guardate l’«ambiguità» evangelica di Gesù: Ha molto amato! Questi sono fuori? Il centurione pagano, la prostituta, Zaccheo sono fuori? No! Allora dove passano i confini della comunità di Gesù? E, del resto, se dobbiamo tracciare i confini dell’amore, dove li tracciamo? Se ricordiamo che nel sermone sul monte Gesù dice di amare i nemici (cf. Mt 5,44), allora dove passano questi confini? E se non si possono tracciare i confini dell’amore, allora come si potranno tracciare i confini della chiesa dell’amore? Capisco che possa essere difficile immaginare una chiesa senza confini ma, almeno per me, è ancora più difficile immaginare una chiesa dell’amore con dei confini.
Ma oltre ai confini esterni, ci sono i confini interni alla comunità cristiana: ad esempio, il confine tra chierici e laici che fine fa? Oppure il confine tra maschi e femmine che fine fa? Le uniche persone della comunità di Gesù che quanto meno, sia pure da lontano, guardano il Crocifisso, la scena del Golgota, sono le donne mentre tutti gli uomini sono spariti. Allora quel confine lì nella chiesa dell’amore non so bene dove vada a finire. Ci sarebbero tanti altri confini: il confine confessionale, nazionale, razziale, ecc. Dove vanno questi confini nella chiesa dell’amore con un centro saldamente stabilito e fissato ma senza confini?

7. Una chiesa ecologica

Ultimo lineamento, il quarto: la chiesa dell’amore è una chiesa ecologica – consentitemi questo aggettivo che non va, ma non ne ho trovato un altro –, cioè una chiesa che prende molto più sul serio di quanto non abbia fatto finora la cura della natura e la protezione degli animali. Sembra un discorso alla moda, ma in realtà corrisponde al primo patto di Dio con l’umanità; quindi dovrebbe essere alla moda da centomila anni circa, il patto di Dio con la terra: non con Israele, non con la chiesa, non con i cristiani, neanche con l’uomo, ma con la terra; quel patto che ha segnato quella che possiamo chiamare la «conversione» di Dio, il quale, dopo l’esperienza del diluvio, si è convertito alla non violenza: «Non colpirò più ogni cosa vivente come ho fatto» (cf. Gen 8, 21). Dio non manderà più il diluvio, manderà la sua Parola, il suo Spirito, suo Figlio.
Ma cosa vuol dire questa «conversione» di Dio alla non violenza? Su che cosa punta? Punta sulla conversione dell’uomo. E l’arcobaleno, segno di quel patto, Dio lo ha posto nelle nuvole per ricordarsi lui del suo patto con la terra. «L’arco dunque sarà nelle nuvole e io lo guarderò per ricordarmi del patto perpetuo fra Dio e ogni essere vivente» (Gen 9,16). Notiamo: patto perpetuo. Ci sono stati altri patti: Abramo, Mosè, Gesù, tanti altri patti, ma quello è perpetuo, cioè vale oggi come centomila anni fa. E, grazie all’arcobaleno, Dio si ricorda di ogni creatura vivente e quindi si ricorda anche di te: e tu, guardando l’arcobaleno, ti ricordi di lui che si ricorda di te?
Vedete che cos’è questa chiesa «ecologica»: entrare nel patto di Dio con la terra significa entrare nella «conversione» di Dio alla non violenza e assumerla come modello di vita nel rapporto con la terra e naturalmente curare ciò che vive. L’arcobaleno è diventato bandiera della pace, ma è anche bandiera della cura di ogni essere vivente, cioè amare la vita dell’altro, di ciò che vive, sia persona, sia animale sia pianta.

8. Conclusione

Questi sono lineamenti possibili di una possibile chiesa dell’amore, chiesa che continua a essere quello che è stata finora; e anche a esserlo di più se è necessario. Samaritana e crocerossina, una chiesa che trasforma le sue innumerevoli leggi nell’unica legge della libertà e della responsabilità, una chiesa con un centro ma senza confine, una chiesa che, entrando nel patto di Dio con la terra, si converte alla non violenza e ha cura di tutto ciò che vive.

[1] Testo della relazione tenuta il 27 aprile 2014 a Padova, nel convegno di «Bibbia Aperta». La trascrizione non è stata rivista dall’autore. I titoli dei paragrafi sono un’aggiunta della redazione.

[2] Cf. G. Bosetti, Noi italiani cattolicissimi ma analfabeti in religione, in «La Repubblica» del 25 aprile 2014 che presenta il testo a cura di A. Melloni (ed.), Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, Il Mulino, Bologna 2014.
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