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Pietro Citati La luce del primo monachesimo

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I monasteri cristiani nacquero tra terzo e quarto secolo in Egitto, dove Pacomio inventò la vita cenobitica: a questo tema è dedicato un libro pubblicato dalla comunità di Bose.

di PIETRO CITATI

Il monachesimo cristiano nacque in Egitto durante il terzo e quarto secolo, nelle sue due forme, anacoretica e cenobitica. Antonio, di cui Atanasio scrisse la mirabile Vita (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori), si inoltrò, solo, nel deserto, abbandonando le cose e le apparenze umane, e combattendo contro tutto ciò che era demoniaco. Pacomio nacque, nel 291, da genitori pagani della Tebaide. Venne battezzato: diventò cristiano: la stessa notte ebbe una visione: si vide irrorato di rugiada che scendeva dal cielo e si raccolse a terra alla sua destra, coagulandosi in miele: e udì una voce che gli diceva: «Comprendi ciò che avviene, perché è ciò che ti accadrà più tardi».
Pacomio cercò di diventare monaco, e gli fu indicato un anacoreta, di nome Palamone, il quale gli disse: «La mia ascesi è dura: d’estate digiuno ogni giorno, d’inverno mangio ogni due giorni, soltanto pane e sale. Veglio sempre per metà della notte, spesso per tutta la notte». Pacomio entrò nella caverna di Palamone, e insieme praticavano l’ascesi e si dedicavano alla preghiera. Così raccontano la Prima vita greca di Pacomio, i Paralipomeni e l’Epistola di Ammone, che sono stati da poco pubblicati dalla comunità di Bose: Pacomio, servo di Dio e degli uomini: introduzione di William Harmless, a cura di Luigi d’Ayala Valva.
Chi scrisse la Prima vita greca, era un monaco pacomiano entrato in monastero dopo la morte di Pacomio: se non lo aveva conosciuto, aveva conosciuto alcuni «padri anziani», che erano stati suoi compagni fin dalla prima ora. Egli aveva l’acuta sensazione di vivere in un tempo di decadenza: fra poco — egli pensava — i monaci malvagi si sarebbero imposti ai confratelli buoni, i giusti sarebbero stati perseguitati. Pieno di angoscia e quasi di disperazione, comprese che, scrivendo, doveva raccontare ed esaltare Pacomio e il suo tempo, sperando di richiamare la luce sulla vita dell’Egitto e di tutto il mondo cristiano. Pacomio inventò la vita cenobitica: se Antonio si era inoltrato, solo, nel deserto, egli non amava la religione solitaria, quelle caverne nelle quali ogni monaco inseguiva isolatamente la salvezza.
Raccolse comunità di cristiani, anche non sacerdoti: fondò monasteri maschili e femminili; acquistò terreni e imbarcazioni, fino a quando i monasteri pacomiani raccolsero settemila monaci. Chi aveva scelto di vivere da solo, decise di vivere insieme a dei confratelli. «È meglio, disse Pacomio, vivere in mezzo a migliaia di uomini in tutta umiltà piuttosto che solo, nella tana di una iena, con orgoglio». Non rinnegò l’ascesi: ma doveva essere sottomessa ai valori della vita comune; obbedienza, rifiuto della propria volontà, senso della misura, soprattutto umiltà, la virtù suprema del monachesimo. Il monaco doveva essere «mite ed umile di cuore», come i Vangeli dicevano di Cristo: non si faceva servire ma serviva i fratelli, e dava la sua vita per loro.
Pacomio aveva un grande talento spirituale e organizzativo. Come i suoi successori, era l’occhio: aveva la funzione dell’occhio nel corpo. Guardava: contemplava tutti i monaci, uno per uno, nel profondo del cuore: aveva uno straordinario discernimento, che gli consentiva di entrare in tutti i cuori e di distinguere gli spiriti buoni e quelli malvagi, i santi e i demòni, portando alla luce ciò che stava nascosto. Sapeva benissimo che questo discernimento non era frutto della sua intelligenza, ma gli veniva da Dio. «Non è quando noi vogliamo conoscere qualcosa delle cose nascoste che le vediamo, ma quando lo vuole la provvidenza di Dio». Il suo potentissimo sguardo scendeva in ogni aspetto della realtà: cancellava i misteri; e dovunque portava ordine, poiché Dio voleva ordine. Leggendo le Regole, restiamo impressionati dalla cura per il buon ordine in ogni cosa, fino ai minimi particolari: le corde intrecciate dovevano essere contate, i frutti che cadevano dagli alberi del frutteto dovevano essere disposti in piccoli mucchi.
Come ogni spirito cristiano, Pacomio conosceva gli angeli. Mentre dormiva, un angelo lo risvegliò dicendo: «Seguimi!»: egli lo seguì: entrò nella chiesa del monastero, e vide che era tutta piena di luce, e che una moltitudine di angeli era raccolta nel luogo dove i sacerdoti officiavano il culto. Ciò era giusto, perché i monaci partecipavano a una condizione angelica superiore al livello umano. Pacomio aveva visioni. Mentre pregava, un giorno entrò in estasi, e vide l’intero mondo sotto il cielo diventare notte, mentre da diverse parti si udiva una voce: «Ecco qui la verità». Nella regione orientale del mondo scorse, in alto, una lampada che risplendeva come la stella del mattino. Un’altra voce diceva: «Non lasciatevi ingannare da coloro che vi attirano verso le tenebre, ma seguite questa luce, perché in essa è verità». Una terza voce aggiungeva: «La lampada che vedi risplendere come la stella del mattino, un giorno risplenderà per te più del sole. Essa è per te la predicazione del Vangelo di Cristo».
Pacomio possedeva altri carismi: guarigioni, profezie, esorcismi, chiaroveggenza, che dipendevano dal possesso della sua vita da parte di Dio. La Prima vita greca è molto sobria nel parlare dei carismi di Pacomio: perché il diavolo era un terribile imitatore, che si nascondeva dietro i carismi e i miracoli. I monaci sopportavano le tentazioni dei demòni, le quali avvenivano con il permesso di Dio, che voleva metterli alla prova. Essi chiedevano spesso a Dio di abolire il sonno, in modo che la loro mente restasse pronta e lucida, ogni minuto, per sconfiggere l’avversario mascherato. Qualche volta, mentre intrecciavano stuoie, appariva loro un demòne, sostenendo di essere il Cristo: ma il loro miracoloso discernimento faceva scoprire ogni traccia o ombra o eco demoniaca.
Quando le tentazioni finivano, i fratelli rivelavano il loro cuore puro: tutti i pensieri impuri erano stati sopraffatti e cancellati, contemplando il timore di Dio, il Giudizio, i tormenti del fuoco eterno. La vigilanza era stata inflessibile. La potenza contemplativa dell’amore aveva reso la loro mente capace di vincere qualsiasi suggestione. Pacomio sosteneva che egli non vedeva il Dio invisibile, ma lo scorgeva riflesso in un uomo visibile, suo tempio. Il vero tempio, il vero riflesso di Dio erano le Scritture, che dominavano la vita quotidiana dei monasteri. Quando mangiavano, i monaci si coprivano la testa con un cappuccio, affinché il fratello non vedesse il fratello masticare: non parlavano; ripetevano fra sé i versetti dei Vangeli, fissando lo sguardo sul piatto e sul tavolo. Tutte le sere si sedevano insieme, dopo il lavoro e il pasto, per scrutare insieme le Scritture. Prima di addormentarsi, ognuno nella sua cella recitava qualche versetto dell’Antico e del Nuovo Testamento, che portavano racchiusi nella memoria e nel corpo, come un tesoro presente e futuro.
Per decine d’anni, i monasteri sorsero, uno dopo l’altro, nella terra d’Egitto. La basilica di Pbow, completata nel 459, era grandissima: trenta metri di larghezza per settantadue di lunghezza. Dietro le alte mura, che limitavano l’accesso dei contadini e tenevano lontani i barbari, c’erano centinaia di celle, ognuna occupata da un monaco, e uno spazio comune, dove essi si raccoglievano per le preghiere, i pasti e l’istruzione cristiana. Un monaco faceva il contadino, un altro lavorava nella fucina, o al forno o nella falegnameria, o nel laboratorio di cardatura, o nella conceria, o nel laboratorio delle calzature, o nello scrittoio. Tutti i monaci erano eguali: avevano un cuore solo e un’anima sola: nessuno considerava sua proprietà quello che gli serviva; ogni cosa era considerata comune. Quando si ammalavano, pensavano che ogni malattia era un dono del Signore. Con la preghiera vincevano l’acoedia, la malattia dei monasteri. Come dicono i Salmi, non c’era traccia di tenebra, né in loro né attorno a loro. Emanavano luce: i comandamenti di Dio realizzati creavano soltanto luce; luce che illuminava il presente e si estendeva illimitatamente nel futuro, in tutti i monasteri della tarda antichità, del Medioevo e dei tempi moderni.
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