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Pietro Citati Elogio del cibo: bello, buono, sacro

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“Corriere della Sera” del 9 gennaio 2016

Per Enzo Bianchi, nato nel 1943 nella provincia di Asti, il Concilio Vaticano Secondo fu una grande rivelazione. Altri, come Danielou e de Lubac, scoprirono un nuovo Cristianesimo, che risaliva indietro nei secoli, fino a Clemente Alessandrino e ad Origene. Enzo Bianchi non adottò libri, sia pure capolavori teologici, ma un grandioso evento, che aveva occupato e riempito di sé i primi secoli dell’epoca cristiana: il monachesimo. Egli era un uomo fantastico, immaginoso, attivo; e decise che quel monachesimo l’avrebbe ricreato lui stesso a due passi da casa.

Nella zona di Biella, ai piedi delle Alpi, stava l’altura di Bose, un luogo bellissimo, dove si innalzava una piccola chiesa medioevale. Due generazioni fa, Enzo Bianchi la raggiunse insieme ad alcuni amici. Il monachesimo del Ventesimo secolo cominciò così, senza che quasi nessuno se ne accorgesse. Qualche tempo dopo, gli amici abbandonarono Enzo Bianchi. Egli rimase solo, completamente solo, in una casa di contadini. Lì, lentamente, passo dopo passo, cominciò a creare quella che noi oggi chiamiamo «comunità di Bose». I monaci vennero da tutte le parti dell’Italia e del mondo, fino a raggiungere il numero di un centinaio, tra uomini e donne. Essi non adottavano la qualità di sacerdoti: erano semplicemente monaci, come tanti secoli fa sant’Antonio e san Rufino.
Dovevano seguire una regola, che comprendeva il voto di castità. Come i monaci del Medioevo, lavoravano i campi, foggiavano ceramiche, talvolta curavano gli ammalati negli ospedali.
Ricordavano i loro antenati, che avevano tramandato gli studi classici dall’antichità al Medioevo. Così traducevano antichi scritti, compivano ricerche, pubblicavano libri, raccolti in alcune bellissime collane della casa editrice Qiqajon, la quale divenne in brevissimo tempo la migliore casa editrice di testi religiosi in Italia.
Dalla giovinezza, Enzo Bianchi — ora padre Bianchi, nient’altro che padre Bianchi — leggeva i testi del cristianesimo siriaco e mediorientale: testi che avevano avuto un grande seguito nel Medioevo, raggiungendo attraverso la via della seta la Cina e la Mongolia. Lì conservavano tradizioni cristiane arcaiche, che erano andate perdute. Oggi Qiqajon, soprattutto per mano di un monaco di Bose, Sabino Chialà, pubblica scritti di monaci siriaci, come i capolavori di Isacco di Ninive.

Chi legge l’Antico Testamento sa quanto spesso vi si raccontano pasti, cene, banchetti, feste: quante volte si mangia e si sta a tavola, o si parla di cose che riguardano la nutrizione degli esseri umani. 
Dio, nella Genesi, raccomanda all’uomo: «Tu mangerai, tu puoi mangiare». La stessa forza divina chiede dunque all’uomo di cibarsi: invita a mangiare; mette in guardia dall’astenersi dal cibo, o dal fare cattivo uso del cibo. La tavola, il cibo, il banchetto, il pane, il vino stanno sotto il segno di Dio.
Nei Vangeli, Gesù ama la tavola come luogo di incontro con gli uomini e le donne: occasione di lode, benedizione e ringraziamento a Dio, promessa di vita e di pace per tutti, e quindi come immagine del Regno.
Nel libro che ha da poco pubblicato, Spezzare il pane. Gesù a tavola e la sapienza del vivere (Einaudi), padre Bianchi percorre due strade fondamentali. Da un lato, egli ama il cibo: lo venera, e ne sottolinea il rapporto con i sensi. Tutti e cinque i sensi sono convocati nel cibo: l’odorato, la vista, il tatto, il gusto, perfino l’udito (quando il ragù sobbalza, la patata frigge, il roastbeef rosola).
Mai, come in queste pagine, scritte da un monaco, ci sentiamo immersi nella pienezza gioiosa del mondo vitale e sensuale. Questo mondo immenso viene sacralizzato: tutti i cibi e i banchetti richiamano alla mente passi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Essi ricordano le parabole dei Vangeli: il pane spezzato è quello di Cristo: il vino bevuto è quello di Cristo; il loro ricordo anticipa il salto, alla fine dei tempi, fuori dal tempo.
Dio ama la propria creazione: «Ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero che dà frutti, che produce semi». Come padre Bianchi sottolinea, Egli ama tutta la propria creazione: gli innumerevoli cibi che offre come nutrimento agli uomini, senza scegliere tra loro, senza consigliare cibi puri e sconsigliare quelli impuri. Anche Gesù non sceglie: tutto, per lui, è buono e puro, purché noi siamo buoni e puri. In quest’amore indifferenziato per i cibi, dobbiamo riflettere l’amore e la fiducia vicendevole, che ci lega agli altri, e che conosciamo a tavola, mangiando, bevendo e parlando con i nostri fratelli.
Nel libro di padre Bianchi, che è insieme un testo di teologia e un testo di cucina, vorrei sottolineare una bellissima pagina che egli ha estratto dai propri ricordi. Quando entrava a casa, negli anni dopo la Seconda guerra mondiale, egli guardava sempre, al centro della stanza centrale, una tavola che portava un pane e una bottiglia di vino: era, per lui, «una visione indelebile, magistrale, venerabile».
Sulla tovaglia, sua madre aveva ricamato a punto croce la frase: «Il pane, il vino e l’olio siano lezione e consolazione».
Molti anni più tardi padre Bianchi scoprì con meraviglia nella Bibbia che nel tempio di Gerusalemme, luogo di incontro tra Dio e il suo popolo, proprio davanti al Santo dei Santi, dove la Shekinah , la presenza di Dio, aveva il suo trono, c’era una tavola coperta d’oro splendente. Una tavola per Dio? Certo, Dio non mangia, ma in questo modo gli ebrei ricordavano che ogni tavola può diventare un pasto al quale Dio è presente. Su questa tavola erano collocati i «pani del volto», dodici pani posti l’uno sull’altro, in due pile di sei, che venivano mangiati ogni sabato dai sacerdoti.
Essi stavano dinanzi a Dio, come unica realtà visibile davanti alla tenda che chiudeva il Santo dei Santi, testimoniando la Sua Presenza. Il pane non era Dio, né stava al posto di Dio. I fedeli mangiavano il pane davanti a Dio per sentire la propria comunione con Lui.
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