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Michele Badino L’accoglienza ha fretta

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Assisi, 29 dicembre 2015

QUANDO LA MEMORIA HA IL FASCINO DELL'UTOPIA

Laici che evangelizzano nella chiesa di papa Francesco

L’accoglienza ha fretta



Questo nostro incontro avviene, forse non a caso, nel tempo di Natale e di per sé ci pone tra due dimensioni: l’attesa e l’accoglienza, in un equilibrio non sempre facile.

Potrà sembrarvi strano ma partirò proprio da esse per condividere con voi alcuni pensieri sul tema al centro dei lavori di stamani.
Nella vita di una comunità monastica l’attesa è ciò che tiene desti, giorno dopo giorno, anno dopo anno e l’accoglienza è espressione della vigilanza che accompagna l’attesa: 

attendere per accogliere e al contempo attendere di essere accolti.

Lo scorrere del tempo permette di capire che l’attesa non è un tempo morto o vuoto o, peggio ancora, assurdo: le dà invece un ricco e fondamentale contenuto.
Vivere l’attesa nella libertà e per amore, comporta assumere la complessità e le contraddizioni della vita, della società che ci circonda, della chiesa e delle vicende dell’umanità tutta, non come ostacoli e pietre d’inciampo ma come possibilità per l’apertura di nuovi itinerari capaci di attraversare il deserto con fiducia, non facendoci sopraffare dalla paura e dall’angoscia, avendo la speranza come bussola per indicarci la via: «Gesù disse: io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
Vivere l’accoglienza nella libertà e nella gioia, chiede di rigettare l’angoscia e la paura del diverso e diviene dimensione non eludibile per noi in occidente all’interno di un cammino cristiano nelle nostre chiese: cattolica e nate dalla riforma.

Oggi attendere e accogliere è divenuto urgente: l’accoglienza ha fretta.

Accogliere, come abbracciare, è un gesto che si compie nel corpo ma è preparato nel cuore, chiede di essere umani: pienamente uomini e donne, nulla più.
Al contempo l’accogliere chiede di non indugiare, non ammette dilazioni, è il nostro oggi, domani potrebbe essere tardi.
Non c’è il tempo per misurare, ponderare o fare programmazioni di bilanci preventivi, no, alla porta hanno già bussato, il tempo è compiuto, occorre rispondere oppure blindare le porte con l’illusione che questo ci permetta di eludere la domanda e zittire il grido di aiuto.

Imparare a vivere l’attesa e l’accoglienza chiede a ognuno di comprendere che:
«Nessuno è escluso dalla speranza della vita, dall’amore di Dio. La Chiesa è inviata a risvegliare dappertutto questa speranza, specialmente dove è soffocata da condizioni esistenziali difficili, a volte disumane, dove la speranza non respira, soffoca. C’è bisogno dell’ossigeno del Vangelo, del soffio dello Spirito di Cristo Risorto, che la riaccenda nei cuori. La Chiesa è la casa in cui le porte sono sempre aperte non solo perché ognuno possa trovarvi accoglienza e respirare amore e speranza, ma anche perché noi possiamo uscire a portare questo amore e questa speranza. Lo Spirito Santo ci spinge ad uscire dal nostro recinto e ci guida fino alle periferie dell’umanità.»

Ci ricorda papa Francesco (papa Francesco, Discorso ai partecipanti alla plenaria del pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, sala clementina, lunedì, 14 ottobre 2013).
Vivere l’accoglienza presuppone l’aver appreso la grammatica dell’attesa: la perseveranza, la sorpresa, lo stupore, la disillusione, lo sgomento,il dubbio, la novità, che può provocarci l’arrivo dell’altro: conosciuto o forestiero, dopo molto tempo o all’improvviso, in modo appunto in-atteso.
Vivere l’accoglienza è divenuto esigenza trasversale, la suddivisione in categorie ecclesiali è forse difficilmente riproponibile: laici e presbiteri, episcopi e catecumeni, coniugati e celibi.
Tutti siamo interpellati a ritornare ad essere nulla più che «Quelli della via» (At 9,2), che per noi monaci è anche ricordare le parole di S. Pacomio, padre di ogni comunità, “Noi monaci siamo solo semplici laici senza importanza”. E’ il superamento delle gerarchie e classi ecclesiali.

E’ ciò che Paolo ricorda ai cristiani della Galazia: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

Così il titolo dell’incontro di stamani: Laici che evangelizzano nella chiesa di papa Francesco, mi verrebbe da riformularlo con: Laici o meglio cristiani ri-evangelizzati nella chiesa con papa Francesco.

Trascorso un tempo di chiesa militante, attiva, presente nella società, a tratti troppo presenzialista anche nei luoghi di potere, forse oggi è giunto il tempo di ripartire dalle nostre comunità, dalla nostra vita e percorrere cammini di conversione personali, comunitari ed ecclesiali affinché le nostre chiese di occidente ritornino ad essere comunità vive, magari piccole, minoritarie, ma formate da uomini e donne vivi, capaci di attendere con gioia il ritorno del Signore e di accoglierlo dove e quando ci visiterà: «Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito?» (cfr. Mt 25,38). 

Si, ripartire da tutto e nulla più che dall’Evangelo: la buona notizia.

«La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede» ( At 4,32) «Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo» (At 2,42-43.-46-47).
«Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,44-45)
«Avevano un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno». (At 4,32-35).
E’ la chiesa di Gerusalemme, la chiesa narrata dagli atti degli apostoli: 
è solo paleo-ecclesiologia, archeologia e utopia cristiana o realtà di ekklésia ancora possibile?

La chiesa potrà formulare programmi pastorali, convegni ecclesiali, corsi biblici e teologici, convegni di studio, missioni, raduni, giornate della gioventù, meeting e così via.

Potremo organizzarli, saranno utili ma saranno sempre e solo un supplemento, un di più, il cuore resta sempre e solo l’Evangelo.

Nella chiesa di Gesù Cristo ai tempi di papa Francesco, le sue parole di pastore ci indicano la strada e chiedono a noi di essere cristiani che «rendano visibile agli uomini di oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza per ogni creatura. Sappiamo tutti che la crisi dell’umanità contemporanea non è superficiale, è profonda. Per questo la nuova evangelizzazione, mentre chiama ad avere il coraggio di andare controcorrente, di con-vertirsi dagli idoli all’unico vero Dio, non può che usare il linguaggio della misericordia, fatto di gesti e di atteggiamenti prima ancora che di parole. La Chiesa in mezzo all’umanità di oggi dice: Venite a Gesù, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e troverete ristoro per le vostre anime (cfr Mt 11,28-30). Venite a Gesù. Lui solo ha parole di vita eterna».
Così ancora papa Francesco (papa Francesco, Discorso al pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, 14 ottobre 2013).

Attendere e accogliere.

Tutto ciò partendo dai margini della società, lontano dai palazzi del potere politico e religioso, memori che in un villaggio sperduto, fuori dalle abitazioni, in una stalla, la Parola eterna si è fatta carne, si è manifestata a tutta l’umanità, a tutti non solo a noi.
“Ogni carne”, ogni uomo e ogni donna, ogni essere umano, nel luogo più sperduto, nelle periferie della storia e dell’umanità vedrà la salvezza. Non solo gli eletti per nascita o perché autoproclamatisi tali. Dunque buona notizia, “non è per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti” (papa Francesco Firenze, 10 novembre 2015).

La conversione non avviene nel ritualismo, è un processo interiore che avviene nel cuore e nella concretezza storica.

La conversione è un movimento del cuore che trae origine e forza dalla misericordia di Dio e non da noi. «fammi ritornare Signore ed io ritornerò, convertimi Signore ed io mi convertirò » (Ger 31,18).

Se accoglieremo l’invito a convertici e ad essere ri-evangelizzati potremo forse balbettare qualche parola della buona notizia che è l’evangelo all’umanità che incontreremo nella nostra vita.

Chiudo con un apoftegma contemporaneo:
Un giorno l’abbé Pierre chiese a un giovane mentre raccoglievano stracci insieme ai poveri: “perché sei venuto qui da noi?” “Per portare il Vangelo ai poveri”, rispose il giovane ardente di zelo.
Ah si, sospirò l’abbé Pierre rimase un momento in silenzio e poi gli rispose: “divieni povero e porta l’evangelo a te stesso”.
Michele Badino
monaco di Bose
fraternità di Assisi
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