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Rosanna Virgili Profumo di donna

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(fonte) La presenza delle donne e di diversi testi in cui esse sono coinvolte con le loro personalità, i volti, i discorsi e i gesti, costituisce uno degli indici più preziosi per cogliere l’importanza della figura femminile nei vangeli che, tuttavia, va valutata insieme a tanti altri fattori i quali, anche se indirettamente, contribuiscono ad illuminarla. Benché grandi appaiano le differenze tra i quattro scritti, si può dire, innanzitutto, che indiscutibile sia, per tutti loro, l’importanza della donna nel mattino di Pasqua: è lei la prima a credere nel Signore risorto. Una fede concreta, poiché fattasi subito annuncio. Una fede che si incarna come parola e, dalla vista del sepolcro, proietta la visione del Risorto. Non è dalla tomba vuota, ma dalla loro parola che nasce la fede cristiana. Questo è un elemento decisivo nei vangeli che, in sostanza, non sono altro che l’annuncio della fede nel Signore Risorto.


La donna è la roccia della fede, matrice da cui tutti i cristiani caveranno la loro fede. Come a dire che, nell’economia evangelica, la fede di Maria di Magdala partorisce anche la fede di Maria, la Madre (Marzotto). Per usare una metafora giovannea, dalla fede della madre, Gesù nasce “dal basso”, mentre da quella di Maddalena, egli nasce dall’alto (Gv 3,3). La madre non è solo la «Figlia del tuo Figlio», come scriveva Dante, ma anche la “figlia della sua figlia”! Nei vangeli tutto nasce la mattina di Pasqua e l’esperienza della Pasqua è l’oggetto della fede cristiana, di cui “sacerdoti” e profetesse, cioè canali di trasmissione e grido di gioia, sono le donne.

Questo dato primario è di un’importanza teologica fortissima e condiziona, originariamente, l’ecclesiologia. Testimone della risurrezione, la donna diventa apostola e poi simbolo della chiesa. Difatti le chiese saranno le case delle donne (cf At 12,12ss; 16,15ss; 18,3ss; Rm 16,1.3-7.12.16; ecc.) e nel libro dell’Apocalisse sarà ancora una donna a simbolo della chiesa che resta nel deserto (= sulla terra), mentre il Figlio è rapito in Cielo (cf Ap 12,5-6).

Un ruolo teologico siffatto, viene introdotto già nel Magnificat, dove in Maria si realizzano le promesse fatte ad Abramo (cf 1,55). Il capovolgimento avviene nel messaggio del canto di Maria che opera un passaggio del testimone, da Abramo “padre” di un popolo eletto, circonciso, identitario ed esclusivo, a Maria, madre di una famiglia universale, dove gli umili e gli affamati diventano il nuovo Israele, soccorso da Dio. Perché questo elemento che segna il passaggio dalla fede giudaica a quella cristiana non poteva essere interpretato da un uomo? Certamente per un valore simbolico, ma non solo. Il valore simbolico è legato alla figura femminile della madre che può dare alla luce figli di diverse identità, mentre il maschio/padre non può fare altrettanto. Perciò è la donna che può significare la fede che Gesù verrà ad annunciare: fede che affratellerà nell’amicizia, giudei e greci, schiavi e liberi, maschi e femmine (cf Gal 3,28). Farisei e pubblicani, profetesse e prostitute.

E ancora: se quella di Abramo è una religione che – nell’attualità del NT – è ancorata e controllata dal sacerdozio del tempio, difensore di un’ortodossia condizionata dalle esigenze di una purità cultuale ed esteriore, in Maria, giovane donna, laica di Galilea, si radicherà una fede dove l’amore dei nemici e il contatto e l’impasto con tutto ciò che è profano costituirà l’autentico “culto” spirituale.

Ma l’uso della figura femminile come simbolo teologico è anche l’effetto, in campo religioso, di una vera e propria rivoluzione che il cristianesimo promuove e realizza, intercettando il clima culturale, sociale, politico che si stava diffondendo nel bacino del Mediterraneo, nei primi decenni dell’impero romano. I vari popoli e culture sottomessi via via all’impero, si trovavano forzatamente a contatto con Roma, ed erano coinvolti in una realtà che apriva un orizzonte universale. Di fronte a ciò essi potevano reagire in due modi: chiudendosi, erigendo dei muri di difesa e creando movimenti di resistenza e irredentismo dagli occupanti; oppure potevano aprirsi verso gli stessi, cercare un’integrazione, approfittare dei vantaggi e delle potenzialità che tale rapporto potesse prospettare. Nel caso della reazione conservatrice i paletti di difesa erano specialmente di carattere politico/religioso e le identità di fede diventavano le patenti occasioni di conflitto. Il giudaismo conservatore declina la reazione di chiusura contro l’impero e il suo orizzonte universale, ponendo come insormontabile confine la legge di Mosè e la purità esteriore basata sulla separazione dagli impuri (Gentili). La fede cristiana incarna, al contrario, la reazione aperta all’integrazione, dove l’accoglienza dei “peccatori” nel popolo di Mosè, costituisce il fondamento di una purità interiore spirituale.
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