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Enzo Bianchi Etica cristiana e malattia

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XX congresso nazionale FADOI
9 maggio 2015
di Enzo Bianchi
dal sito del Monastero di Bose

Introduzione

Ringrazio il dr. Mauro Campanini, presidente del FADOI, per l’invito rivoltomi ad aprire questo XX congresso nazionale della vostra associazione con una relazione su “Etica cristiana e malattia”. Mi sento onorato della presenza del sindaco Piero Fassino, non solo per la carica istituzionale che riveste, ma anche per il suo alto impegno in favore della cultura e per la solidarietà alla quale sa richiamare la città di Torino.


Il mio intervento sarà necessariamente una sintesi o, meglio ancora, la presentazione dei fondamenti e delle espressioni maggiori, in relazione a questa tematica: vi presenterò alcuni punti che vorrei fossero costruttivi, nel nostro contesto occidentale, per la qualità della vita personale e della convivenza sociale. Parlare a voi medici, credenti in Dio o non credenti, cristiani o non cristiani, può essere un’operazione difficile, ma personalmente ritengo sia possibile e utile, perché i vostri pazienti appartengono a questa nostra società le cui componenti oggi sono contrassegnate da diverse credenze, spiritualità, religioni, tendenze agnostiche, ma restano pur sempre costituite da uomini e donne appartenenti all’unica umanità che noi siamo. Per parlarvi dell’etica cristiana nei confronti dei malati vorrei seguire due itinerari:

Enunciare alcuni punti che esprimano ciò che l’etica cristiana non è oggi.

Mettere in relazione etica cristiana e cammino di umanizzazione – che riguarda tutti –, con particolare attenzione ai risvolti medici.

Che cosa l’etica cristiana non è oggi

Perché partire dalla pars destruens? Perché, soprattutto in Italia, ce n’è ancora bisogno, avendo alle spalle un’eredità culturale essenzialmente cristiana che, di fatto, influenza ancora malati e medici, ispira ancora molti comportamenti e, più in generale, è una sorta di spirito che domina in alcune istituzioni mediche. L’etica o, se si vuole, la morale, è il tentativo di rispondere alla domanda: “Che cosa devo fare?”, dunque è una questione di dovere, di responsabilità. Ma in vista di che cosa? Della realizzazione umana, della felicità, del gusto del vivere. L’etica è una via per diventare uomo o donna, in particolare di fronte alla sofferenza, alla malattia, alla morte.

La via etica è stata percorsa anche dalle diverse religioni: dal buddhismo, che cerca di eliminare la sofferenza assumendola, liberando il malato dall’ignoranza attraverso l’illuminazione e vivendola nella compassione; dal cristianesimo, che ha sempre combattuto la sofferenza, magari considerandola una strada redentiva, meritoria, con derive doloriste che hanno significato molto nel cammino della medicina all’interno della nostra cultura. Basterebbe pensare, al riguardo, che fino alla metà del secolo scorso la lotta contro il dolore non era considerata necessaria e quindi non era un obbligo per la medicina, nonostante la scoperta degli anestetici, dei narcotici e dei calmanti fosse ben anteriore. Credo inoltre che non sia un caso che in Italia, soprattutto in certe istituzioni, fanno fatica ad aprirsi una strada la cultura del dolore e, di conseguenza, il trattamento del dolore.

Ma in modo sintetico che cosa dobbiamo dire dell’etica cristiana oggi? Oggi, preciso, perché l’etica cristiana ha subito e subisce evoluzioni. Su questo punto nessuna illusione: essa non è data una volta per sempre, non è cristallizzata in formule dogmatiche, ma cresce e si evolve nel cammino dell’umanizzazione, contribuendo a formarlo. Innanzitutto occorre affermare che l’etica cristiana non dà alcuna spiegazione al problema del male, della malattia e della morte. A lungo nei secoli ha regnato un mito, cioè un immaginario proposto come una storia che pretendeva di spiegare l’origine del male: il mito che il male, la malattia e la morte derivino da una colpa dei primi esseri umani. Si voleva spiegare ciò che non è spiegabile, e oggi, con la consapevolezza scientifica del divenire dell’uomo e delle sue origini nel frattempo intervenuta, non accettiamo più che il nostro soffrire “derivi” dalla colpa di qualcuno che ci ha preceduto e che, di conseguenza, ci sia stato dato in eredità. Diciamo la verità: per essere a favore di Dio si è finito per incolpare l’umanità…

In realtà oggi sappiamo che non siamo interamente padroni della nostra vita e del nostro destino, a cominciare dalle condizioni della nostra nascita: l’esistenza di ciascuno di noi dipende dalla famiglia, dalle condizioni di vita, di educazione, di cultura, di solidarietà sociale, di storia, ecc. Sappiamo anche di essere abitati da pulsioni non coscienti e di essere determinati dall’imprevedibilità del caso. Siamo fragili, precari, deboli… Anche la nostra responsabilità è limitata: siamo responsabili del male, perché liberi, ma c’è un male di cui noi umani non siamo responsabili. Dunque la fede cristiana non risolve il problema dell’origine del male, del soffrire, non lo spiega! Anche per la visione cristiana il male resta un enigma; anche il cristiano, come l’agnostico, si pone la domanda: “Unde malum? Da dove viene il male? Com’è possibile un Dio buono, vista l’esperienza del soffrire che noi facciamo?”.

Un tempo si era giunti a dire che Dio mandava la malattia e che, in qualche modo, la malattia era per la nostra salvezza, era redentiva, dunque occorreva offrirla a Dio. Senza voler mancare di rispetto a nessuno, anzi inchinandomi davanti a chi si impegna in questo comportamento, come cristiano devo dire che essere “volontari della sofferenza” non è cristiano. Negli scritti di una grande donna caritatevole, diventata recentemente santa, si legge che un giorno disse a un malato di cancro: “Sii contento, perché Dio ti ha baciato donandoti questa malattia”. Ebbene, io vi dico che questa è una bestemmia con la quale si dà a Dio un volto perverso! No, dobbiamo confessarlo con chiarezza: la malattia è una sofferenza che non viene da Dio, viene dalla nostra condizione umana terrestre, finita, perché si nasce per morire, nel ciclo della vita su questo pianeta.

La malattia, la sofferenza non serve per la nostra redenzione. Anzi, possiamo dire che il dolore non ha senso e sovente abbruttisce, chiude il malato in se stesso, lo rende egoista, a volte lo trasforma fino a renderlo irriconoscibile. Del resto, voi avete l’esperienza quotidiana di come il dolore possa disumanizzare. Il cristianesimo chiede una sola cosa a chi è nella malattia: che, attraversando la malattia, continui ad amare gli altri e ad accettare di essere amato, perché neppure questo è facile. La sofferenza non è gradita a Dio, altrimenti egli sarebbe sadico, e purtroppo di immagini perverse ne ha ricevute molte, attraverso le proiezioni dei cristiani e della chiesa su di lui! Il malato ha addirittura il diritto di rivoltarsi, di gridare l’assurdo della morte che gli viene incontro, della depressione che non finisce mai o del cancro che lo consuma giorno dopo giorno. Non si dimentichi che Gesù non è morto nell’atarassia, come Socrate, ma gridando: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,33; Mt 27,46; Sal 22,2).

L’unica cosa che la fede può fare nella malattia – lo ripeto – è ricordare al credente che ciò che conta è amare quelli che gli sono vicini e accettare il loro amore, anche soffrendo, perché solo così si può avere fede nell’amore che vince la morte. La fede, però, non sopprime l’assurdo, non dà neppure senso alla malattia, ma apre alla speranza che l’amore vissuto concretamente è l’unica arma che possediamo per vincere la morte ed essere umani fino alla fine: umani con la nostra grandezza e dignità di uomini e donne, uniche creature che sanno amare e sanno dirlo e giudicarlo, perché per gli umani l’amore non è solo un istinto ma una dotazione specifica. Ecco l’unica etica cristiana, che certo ha come conseguenza il rispetto, l’amore per l’altro: non per la vita in generale, ma per l’altro che vive e che ha come prima vocazione il vivere in questo mondo.

Etica cristiana e cammino di umanizzazione, in chiave medica

Quanto ai medici, che cosa chiede l’etica cristiana? Perdonatemi se sarò breve, ma voglio rispettare il tempo a mia disposizione. In ogni caso, sono convinto che l’essenziale possa essere sempre contenuto nel minimo. Per questo, scelgo di procedere attraverso brevi punti specifici.

Ogni paziente è una persona intera

L’azione della cura deve riguardare tutta la persona e curare significa sollevare dalla sofferenza, anche quando non si può guarire. La medicina non deve dimenticare questa dimensione di accompagnamento propriamente umano, interessandosi solo alla guarigione corporale e non anche alla guarigione psichica. Nella pratica della cura bisogna imparare cosa significa “persona intera” o, come dicono i francesi, “personne totale”. Attenzione: ciò non consiste nel conoscere il paziente in tutte le sue dimensioni biologiche, psicologiche, sociali, spirituali. Una tale pretesa sarà fallimentare e il paziente la vivrà come intrusiva. Quando il paziente consulta il medico, non cerca in lui una combinazione di biologo, psicologo, guida spirituale: si attende di trovare chi lo cura dal punto di vista medico ma lo considera come una persona intera.

In questo senso, non deve essere all’opera solo la competenza scientifica dei medici, ma anche la loro capacità di essere persone accanto a un’altra persona; è determinante non solo ciò che sanno fare, ma ciò che sanno essere! Jeanne Garnier, Cicely Saunders, Elisabeth Kübler-Ross, Marie de Hennezel hanno tracciato le linee essenziali di questa humanitas o pietas da esercitarsi nei confronti dei pazienti. Colui che sa deve rispondere alla volontà di colui che soffre, come dimostrano e testimoniano tante unità di cure palliative. La cura globale della persona contribuisce a “une morte apaisée”, a un “morire meglio che si può”.

La dignità dell’essere umano è imperitura

La grandezza e la dignità di ogni persona si devono imporre al medico come una richiesta di responsabilità. Si vive una volta sola e la vita è l’unica di cui ciascuno di noi dispone: non ce ne sono altre! In ogni cultura della terra questa grandezza della persona umana è affermata, fino a legiferare che nessuna persona può perdere la sua dignità. Oggi questo principio è contestato da una situazione che può venirsi a creare: perdere la capacità di fare le scelte che si desiderano, non avendo più l’autonomia, significherebbe non essere più degni. E se la dignità è fondata sul riconoscimento dell’umanità da parte degli umani, chi non è più riconosciuto sufficientemente umano avrebbe perso la dignità.

Ma la dignità dell’essere umano è imperitura, perché la sua psiche e il suo corpo, la sua persona intera, resta sempre persona che richiede rispetto integrale, in qualunque circostanza. Un vivente non può essere trattato come un morto!

Le cure palliative

Non può regnare l’aforisma: “Finché c’è vita, c’è speranza”, detto della sapienza popolare che induce all’accanimento terapeutico, come atteggiamento e pratica che vuole mantenere in vita una persona con tutti i mezzi resi possibili dalla tecnica. Il curante deve sforzarsi in tutte le circostanze di sollevare dalla sofferenza il malato e deve astenersi da ogni irragionevole ostinazione nell’investigazione e nella terapia: si devono tralasciare trattamenti inutili, sproporzionati, che non hanno altro effetto che il mantenimento artificiale della vita. Sappiamo che, a questo proposito, il medico deve tenere conto di un aspetto etico e di uno giuridico, sul quale in Italia continuano vergognosamente a regnare, da parte della politica, la latitanza e la dilazione! Purtroppo si dibatte ancora sull’alternativa tra le cure palliative e un certo dolorismo che a volte si vuole cattolico. Ma il dolorismo – va detto a chi non vuole sentirlo – è già stato condannato in modo ufficiale dalla chiesa fin dalla metà del secolo scorso, da parte di Pio XII.

Si tratta dunque di stabilire un patto di fiducia tra medico e paziente. Attraverso le cure palliative, sempre da sviluppare mediante la ricerca medica; le direttive anticipate redatte dal paziente, che non obbligano il medico ma gli chiedono di tenerne conto; la conoscenza e il rispetto della volontà del paziente nel preciso momento dell’incontro con il medico, si deve giungere ad alleviare le sofferenze, fino alla sedazione, che può intervenire quando i sintomi della malattia sono refrattari a qualsiasi trattamento. Sì, c’è diritto alla sedazione profonda e continua, fino alla morte; nessun tentativo di conservare artificialmente la vita: occorre, infatti, evitare ogni sofferenza e non prolungare inutilmente la vita!

Se mi fermo qui e non vado oltre, non è per non entrare in problemi scottanti, ma perché l’etica cristiana si ferma qui. L’etica cristiana non è una casistica morale ma è un orientamento che lascia grande responsabilità al malato, al curante e a quanti sono legati ai malati da relazioni diverse ma comunque significative. Qualunque sia il modo di concepire la morte da parte del paziente, le cure palliative sono un dovere assoluto, perché il morire fa parte della vita e va addolcito per rendere la morte più mansueta e accettabile. L’accompagnamento del malato si carica di una responsabilità e di un’attenzione curativa ancora più grandi proprio quando la speranza di guarire sfuma e viene meno.

Se l’etica cristiana chiede che la morte non sia rimossa, né negata, non è per un’assunzione del dolore o in vista della “redenzione”, ma perché essa sia umanizzata, sia una buona morte, diventi il più possibile sorella, “sora nostra morte corporale”, come osava esprimersi Francesco di Assisi. Il malato spesso dice: “Dottore, sono nelle sue mani”. Si tratta, di fatto, di una chiamata, che dovrebbe essere percepita in questo modo: “Dottore, come vuole il suo bene, così voglia il mio bene”.

La fragilità è un valore

Recentemente Eugenio Borgna ha dedicato alla fragilità un’attenzione che giustamente vuole essere eloquente nel denunciare una deriva individualistica, che vorrebbe il compimento dell’individuo indipendentemente dalle relazioni con gli altri, e nel far emergere come questa condizione umana che lega tra loro le persone debba essere intesa come un valore. La formula di Emmanuel Lévinas è “‘dopo di voi’ piuttosto che ‘prima io”: ovvero, io sono responsabile dell’altro, e la fragilità dell’altro, che ha nella malattia la sua epifania, mi chiede innanzitutto di prendermi cura di lui, di sentire un dovere verso di lui, non solo personalmente ma come soggettività sociale.

Spetta soprattutto ai medici aiutare una cultura della cura nella dimensione dell’etica del care. Certo, questo lo fanno molte istituzioni che si prefiggono fini caritatevoli e di dedizione; ma i medici, terapeuti per vocazione, con il loro fare e il loro essere devono diventare un riferimento esemplare a tale riguardo. Se la “persona fragile” costituisce la pietra angolare dell’etica, il medico ne deve tenere conto per il suo lavoro di ricostruzione dell’identità della persona. Una medicina “olistica” prende in conto la fragilità e sa scorgere in essa anche situazioni positive per il malato, per la sua conoscenza di sé, per la lotta contro il male, per l’accoglienza della malattia e della morte.

Conclusione

Forse qualcuno si attendeva che da questa mia breve esposizione emergessero indicazioni puntuali, “ricette”. Ma l’etica cristiana, se vuole essere umanizzazione e accompagnare gli uomini e le donne verso la qualità della vita e della convivenza, deve riconoscere la coscienza come istanza fondamentale delle scelte, nella vita e di fronte alla morte. Non si deve mai dimenticare che in ogni persona c’è “la coscienza” che – come ha detto il concilio Vaticano II – “è il nucleo più segreto e inviolabile e il sacrario dell’uomo” (Gaudium et spes 16), al quale ognuno di noi, dopo aver ascoltato altre voci ed essersi confrontato con esse, deve obbedire. La coscienza dice a ciascuno di noi, uomo o donna, credente o non credente in Dio: “Diventa conforme a ciò che tu sei, fa’ il bene, ricerca ciò che umanizza ed evita il male”.

Su questo terreno della coscienza, cristiani e non cristiani dovrebbero confrontarsi e ascoltarsi, per camminare insieme. E la coscienza non è mai una voce che ci ricorda una legge già fatta, da applicare in modo meccanico, ma una voce che ci chiede creatività e responsabilità e stimola la nostra capacità di solidarietà e di compassione: la nostra capacità di amore dell’altro.
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