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Enzo Bianchi Cibo e sapienza del vivere

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Festival Filosofi lungo l'Oglio X edizione
7 giugno 2015
di Enzo Bianchi
dal sito del Monastero di Bose






Introduzione

Vorrei collocare questa mia meditazione nell’attualità che stiamo vivendo. Mi riferisco alla leggerezza con cui tanti battezzati e tante realtà cristiane partecipano all’evento di Expo 2015. Troppa leggerezza in questa partecipazione, che per alcuni si fa addirittura entusiasta: leggerezza dovuta a una mancanza di discernimento di cosa realmente questo evento vuole essere, leggerezza dovuta a una “mondanità” che – dice papa Francesco – abita facilmente anche tra i cristiani. La mia riflessione vorrebbe dunque anche essere un richiamo alle responsabilità dei cristiani e della chiesa, affinché la speranza di cui sono portatori non sia mai annacquata, non sia contraddetta a causa del suo farsi mondana, non perda il sale che contiene e non diventi così degna solo di essere buttata via e calpestata dagli uomini (cf. Mt 5,13).


Papa Francesco, questo cristiano che sta sulla cattedra di Pietro, nel messaggio inviato ai partecipanti all’incontro “Le idee dell’Expo” (7 febbraio 2015), ha avuto la parrhesía di mettere in guardia da una lettura meramente economica di questo evento, una lettura che guarda soltanto ai risultati economici, che ha come idolo il mercato e che, di conseguenza, chiede solo competitività, senza guardare all’esclusione e alle inequità, accettando la logica dello sfruttamento e dello scontro. Per questo ha ricordato la realtà: “C’è cibo per tutti, ma non tutti possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e l’uso di alimenti per altri fini del cibo sono davanti ai nostri occhi”. E la settimana scorsa è tornato sull’argomento con queste parole: “Il pianeta ha cibo per tutti, ma sembra che manchi la volontà di condividere con tutti. [Bisogna] preparare la tavola per tutti, e chiedere che ci sia una tavola per tutti” (Omelia nella messa per l’apertura della 20a assemblea generale della Caritas internationalis, 12 maggio 2015).

Proprio alla luce di queste urgenze dettate da papa Francesco tenterò ora di riflettere sul cibo, in uno spazio delineato da due parole della Bibbia.

La prima è tratta dal libro di Qohelet:
Mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto.
(Qo 9,7)

La seconda è una parola di Gesù (citazione di Dt 8,3), che troviamo nei vangeli secondo Matteo e Luca:
Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
(Mt 4,4; Lc 4,4)

Cos’è il cibo?

Dai vocabolari impariamo che il cibo è tutto ciò che si mangia e serve per la nutrizione, per mantenere in vita un essere vivente: uomini, animali, piante. Cibo è nutrimento, e forse questo secondo termine ci dice molto più che “cibo”, pur essendo equivalente. Infatti, quando dico “nutrimento”, dico che per l’uomo si tratta innanzitutto di qualcosa che è dato, donato da altri non appena si viene al mondo: ecco allora che si evoca la nutrice, chi svezza i neonati (in francese i “nourrissons”, quelli che devono essere nutriti!).

Sì, la prima cosa di cui abbiamo bisogno non appena venuti al mondo è il cibo, che in realtà già ci nutriva nell’utero della madre; ma una volta usciti dal grembo, il cibo ci è donato da qualcuno che ce lo offre: la madre offre il seno con il cibo del latte. Questo cibo verrà poi preparato per noi finché, crescendo, diventeremo capaci di prendere noi il cibo e di andare a tavola. Da quel momento cresce il nostro apprendimento sul rapporto tra noi e il cibo, di cui abbiamo bisogno non solo per vivere ma per tutto lo sviluppo del nostro essere: il cibo è un bisogno fondamentale dell’organismo, dal quale l’uomo non riesce a distogliersi, ma è anche molto più del nutrimento. Assumere il cibo, infatti, da atto di nutrimento diventa il gesto sociale per eccellenza, il segno della comunità nel suo ritrovarsi, fare memoria, fare festa; la tavola diventa il luogo di comunicazione, scambio, comunione. È per questo che mangiare è molto più che nutrirsi, bere è molto più che dissetarsi, a tal punto che l’arte del vivere, la sapienza può essere riassunta e simboleggiata dall’arte del mangiare e bere.

Non è un caso che l’azione del nutrirsi abbia sovente acquisito un valore simbolico tale da rivestire addirittura un carattere sacro. I pasti sacri dell’antichità ce lo testimoniano, come pure i sacrifici nei templi: non si dimentichi che questi ultimi erano dei pasti nei quali il cibo era offerto alla divinità, che però non consumava la vittima, sicché le sue carni erano poi condivise tra offerenti e sacrificatori. Il mangiare quindi è un’azione al contempo naturale e culturale: naturale perché la natura offre gli elementi, culturale perché gli alimenti sono scelti, preparati, cucinati. Finita l’età in cui l’uomo si nutriva dei frutti come li trovava in natura, nel cibo è sempre presente la cultura e, attraverso di essa, aderiscono al cibo connotazioni simboliche. Sì, la fame dice molto più che la fame, la sete dice molto più che la sete.

Prima di essere messo in tavola, il cibo è pensato, ricercato, apprestato fin nei dettagli; poi è benedetto, offerto, cantato, celebrato prima di essere condiviso. Azione eminentemente propria all’umanità, il cibarsi diventa azione spirituale, carica di significato, strumento ed epifania di una grande comunione. Ecco cos’è il cibo: nutrimento per la convivialità! Per questo non si può parlare di cibo senza parlare di tavola, seppur diversa nelle differenti culture: un tappeto steso a terra per i nomadi del deserto, una tavola bassa accanto alla quale ci si distende per i greci e i romani, una tavola – per noi oggi – alla quale “passiamo”: “Passiamo a tavola!” è l’invito a prendere posto per il pasto. Così interrompiamo il nostro lavoro, i nostri impegni, per passare a cibarci insieme, esercitando fiducia nel cibo che ci viene portato, accogliendo la cura di chi lo ha preparato, condividendolo con chi si siede a tavola con noi e, se siamo cristiani, mostrando la nostra capacità di ringraziamento a Dio per i doni che ci ha fatto: il cibo, infatti, non è solo qualcosa che ci guadagniamo, ma è anche dono che riceviamo, sempre. Il cibo fa la tavola e la tavola celebra il cibo.

Ma su questa azione fondamentale del cibarsi possiamo ricevere qualche luce dalla parola di Dio contenuta nelle sante Scritture? In verità la Bibbia è racconto di umanità, di storia di un popolo, ma anche di storie personali e quindi, dovendo narrare l’uomo e la donna nel loro vivere e nel loro tentativo di salvare la propria vita, ci parla sovente di pranzi, cene, banchetti e convivi, dalle prime pagine fino alle ultime. Sarebbe impossibile anche soltanto nominare i diversi racconti riguardanti il cibarsi: dal pasto di pane e vino offerto da Melchisedek ad Abramo (cf. Gen 14,18-20) ai pasti del popolo d’Israele nel deserto, ai pasti di Gesù, a quelli da lui evocati nei vangeli, ai pasti dei cristiani narrati nel Nuovo Testamento. Non voglio però percorrere una strada descrittiva che risulterebbe ricca di racconti ma, alla fin fine, noiosa: vorrei piuttosto mettere in evidenza come la Bibbia guarda al cibo, al nutrimento, in modo che anche noi possiamo guardarlo con gli occhi di Dio, muniti cioè di una sapienza nutrita dalla fede.

La creaturalità del cibo

Dio ha voluto creare un mondo in cui i viventi potessero, appunto, vivere, e quindi potessero nutrirsi. Nelle prime pagine della Genesi, dove in una sinfonia si tenta di raccontare la creazione, Dio affida all’umanità, nella polarità uomo-donna, il cibo:

Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero che dà frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo … E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto bella e buona (tov me’od). (Gen 1,29-31)

Tutti i frutti della terra sono donati all’uomo ma – avrete notato – c’è un’insistenza sull’erba e sugli alberi che fanno seme, rivelando subito che quel seme non è destinato solo a essere mangiato con il frutto, ma può cadere a terra. E questa è anche un’azione umana: la semina richiede la cura, la cultura da parte dell’uomo. Ecco la verità grande di questa pagina: la terra è madre, ci nutre, ma noi dobbiamo esercitare una “cultura” nel senso più vero, cioè coltivarla (un dato straordinario nel mio dialetto è che “cutura” indica il lavoro iniziale sulla terra, prima di seminare e di piantare). La terra madre ci è data come un giardino da coltivare e, infatti, sta scritto: “Il Signore Dio prese l’umanità e la fece riposare nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). Natura e cultura hanno qui la celebrazione del loro legame, per sempre indissolubile: un legame nella custodia che è rispetto, protezione, cura intelligente e amorosa. Sì, madre terra! Qui io avverto la presenza, anche se non espressa, di un comandamento: “Ama la terra come te stesso!”. Questa terra va lavorata con il sudore della fronte, ma da essa l’uomo trae il cibo, è terra madre che genera cibo e vita, è terra che accoglierà alla fine i nostri corpi mortali, perché dalla terra siamo stati tratti (cf. Gen 3,17-19).

Il cibo è innanzitutto voluto da Dio, è cosa buona e bella, è ciò che l’uomo si guadagna con il lavoro, è ciò che l’uomo renderà sempre più capace di nutrirlo e di renderlo più uomo! Non a caso l’inizio della cultura si registra nello spazio del mangiare, non a caso il linguaggio è nato intorno a una pietra che come tavola radunava attorno a sé gli uomini e le donne che avevano deciso di mangiare insieme e non più come gli animali. Proprio nell’atto del nutrirsi, che instaura un giusto rapporto tra bisogno-desiderio-soddisfazione, viene impressa la giusta relazione tra l’umano e le altre creature: relazione fondata sul riconoscimento, sul rispetto della loro alterità, sul valore e sulla dignità di ogni alimento. Il modo di vivere l’azione del mangiare ne determina il senso e fissa il ruolo, la funzione del cibo. Si può usare il cibo come cosa da consumare, si può fare del cibo un idolo per la sola soddisfazione dei bisogni individuali e delle proprie voglie, oppure si può vedere nel cibo un dono della terra destinato a tutti – dunque non una preda – e trasformare il pasto in luogo di condivisione con gli altri e di grande comunione con la natura.

Nel libro della Sapienza sta scritto: “Dio ha creato tutto per l’esistenza: le creature del mondo sono apportatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte” (Sap 1,14). E ancora, in un’altra contemplazione della Sapienza sulle opere di Dio: “Tu ami tutte le cose esistenti e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato. Se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu salvi tutte le cose perché sono tue, Signore, amante della vita” (Sap 11,24-26). Dunque, tutti i cibi sono buoni e, solo più tardi, gli uomini hanno introdotto su di essi la categoria della purità e dell’impurità, fino a farne un muro di separazione tra popolo santo e popoli impuri, i gojim, i pagani. Se la Legge diventa un’ossessiva separazione tra cibi che si possono mangiare e cibi vietati – come ancora nell’ebraismo e nell’islam –, non dimentichiamo che Gesù ha potuto dire anche a questo proposito: “Avete udito che fu detto … ma io vi dico” (cf. Mt 5,21-48), appellandosi all’autorità di nuovo legislatore conferitagli da Dio. Marco ci testimonia come proprio Gesù, impegnato in una discussione sul puro e sull’impuro, proclami:

Tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma compie la sua funzione fisiologica. Così rendeva puri tutti gli alimenti. Ciò che esce dall’uomo, è quello che rende impuro l’uomo. (Mc 7,18-20)

Per i discepoli di Gesù tutti i cibi sono puri, mangiabili: non esiste su di loro alcun divieto, perché tutti concorrono alla vita dell’uomo! Questa parola di Gesù che dichiara puri, sani, capaci di dare vita tutti gli alimenti, è una parola decisiva: tutte le cose sono buone, come le aveva dichiarate Dio nella creazione e non diventano mai cattive, neanche quando l’uomo ne fa un uso perverso. Solo se questi le rapisce, le accumula, le tiene per sé, le consuma senza rispetto, le proibisce… ecco allora l’inferno, il male! Non facile da essere accolta, questa parola liberatrice di Gesù! La religione e le sue osservanze, infatti, nutrivano diffidenze verso alcuni cibi. Pietro stesso, vent’anni dopo la morte di Gesù, ormai missionario tra i pagani ad Antiochia, non vuole mangiare con i pagani, diventati peraltro cristiani, a causa del loro mangiare cibi impuri o non kasher, non macellati secondo la legge. Ma in questo sarà rimproverato da Paolo (cf. Gal 2,11-15). Eppure, in una visione avuta mentre era in casa di pagani, aveva ricevuto una parola dal cielo che diceva: “Ciò che Dio ha reso puro, tu non chiamarlo impuro!” (At 10,15). Né alimenti, né persone sono impure, separate, ma tutte sono creature di Dio che le ha volute e le ha giudicate “buone e belle”! Non a caso un discepolo di Paolo dovrà ancora rimproverare i cristiani attratti dalle regole religiose, dicendo: “Perché … lasciarvi imporre precetti quali: ‘Non prendere, non gustare, non toccare’? Sono tutte … prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza, ma sono falsa religiosità, mortificazione inutile del corpo!” (Col 2,20-23).

Gli alimenti, i cibi sono a nostro servizio e sono buoni ma, di fronte a questi doni della terra e del lavoro dell’uomo, sta la nostra responsabilità: abbiamo stupore e meraviglia nel vederli? Sappiamo contemplarli e conoscerli? Sappiamo fare una minima anamnesi del loro nascere, crescere, essere raccolti, preparati e cucinati? Sappiamo rispettarli o li buttiamo facilmente, come le statistiche attestano che avviene, nel nord Italia, per il 30% del pane e del cibo conservato nei nostri frigoriferi e nelle nostre dispense? Sappiamo vedere negli alimenti la fatica della terra che li produce e la fatica umana necessaria perché possano arrivare sulla nostra tavola come cibo? Sappiamo trarre le conseguenze del fatto che gli alimenti sono destinati a tutti e che invece molti esseri umani ne sono privati fino alla fame? Si tratta di un miliardo di persone su sette miliardi: uomini, donne e bambini denutriti e affamati perché noi, loro simili più ricchi, li accaparriamo per noi stessi e li neghiamo a loro.

Il cibo è preparato, è cultura

Ci siamo soffermati sul cibo come insieme di alimenti, creature volute e donateci da Dio ma, come abbiamo detto, il cibo non è solo frutto della terra, bensì anche frutto del lavoro dell’uomo. Per noi umani non c’è natura senza cultura, ed è proprio su questo suo far parte della cultura che ora leggiamo e meditiamo il cibo. Siamo consapevoli che dal III millennio a.C., prima ancora dell’invenzione della scrittura, gli umani hanno iniziato a praticare l’arte della cucina, cioè del preparare, del trasformare gli alimenti in cibo per la tavola. Attorno al fuoco, in una grotta, sotto un albero, attorno a una pietra si è cominciato a mangiare insieme, a consumare cibo preparato da qualcuno: a poco a poco nasceva la cucina, l’arte del cucinare e, contemporaneamente, la festa, il banchetto, il simposio… Consumare lo stesso cibo e la stessa bevanda significa diventare insieme uno, stipulare un contratto, un’alleanza, riconoscere una prossimità, un’accoglienza reciproca, dare origine a una relazione o approfondirla, delineare un abbozzo di communitas.

Cosa evidenziare in quest’arte? Innanzitutto l’acqua: non solo essenziale come bevanda, ma indispensabile per la cucina, per lavare gli alimenti, per cuocerli. L’acqua ha assunto subito un ruolo purificatore e quindi si è imposta come indispensabile. Accanto all’acqua, il fuoco che fa passare l’alimento da crudo a cotto: tutti noi sappiamo come questo processo sia assolutamente determinante. Quello dal crudo al cotto è un passaggio che conferisce un nuovo assetto al cucinare: fare cucina cessa di essere solo preparare e condire un alimento, ma implica il trasformarlo profondamente, con esiti molto diversi a seconda della modalità di cottura e degli ingredienti utilizzati.

Proprio la preparazione culinaria ha creato il pasto come pratica sociale che media il rapporto con il nutrimento. Senza la preparazione, ognuno potrebbe soddisfare da solo e a suo piacimento il bisogno di cibo. La preparazione del pasto, invece, richiede un investimento di tempo, di attenzione e di cura, che costituisce la misura empirica dell’amore di colui che prepara il cibo nei confronti di quello o quelli che devono mangiare o che sono invitati a farlo. Anche presentare un piatto richiede tempo e arte, quindi attenzione verso gli altri e volontà di procurare piacere. Presentare il cibo è la firma del cuoco o della cuoca, è un sorriso che esprime la gioia di offrire ciò che si è preparato per qualcuno.

Avrei molto da dire sull’arte culinaria, anche perché la cosa che so fare meglio è la cucina, ma altri sono i luoghi per sostare su questo tema. Quello che qui mi interessa maggiormente far emergere è come questo “fare da mangiare”, come la cultura del cibo sia il modo di parlare e di comunicare all’altro i propri sentimenti. Chi prepara il cibo, infatti, se è vero che obbedisce a tradizioni culinarie ricevute dalla famiglia o apprese da ricettari – oggi troppo abbondanti e fantasiosi! – è vero anche che pensa al destinatario cui offrirà il cibo. Riflette attentamente se quel cibo può piacere a quella specifica persona, se è compatibile con i suoi gusti e i suoi bisogni alimentari, se può essergli gradito o meno, in che misura va offerto, perché anche la misura del mangiare va considerata con attenzione. Non a caso, i capitoli della regola di san Benedetto riguardanti i pasti (RB 39 e 40) hanno per titolo “De mensura cibus” e “De mensura potus”.

Condivisione, scambio entrano dunque nella cultura della cucina, del pasto, degli alimenti, e la condivisione del cibo appare sempre segno della condivisione della vita, e così lo scambio. Per questo nella cultura del cibo la relazione ha il suo primato e il cibo è a servizio di questa relazione che può essere tra conoscenti, amici, coniugi, famiglia, vicini, entità territoriali… “L’uomo è ciò che mangia”, diceva Ludwig Feuerbach, ma questa affermazione è riduttiva perché noi dipendiamo più dai criteri orientativi della nostra alimentazione e della nostra capacità di viverne lo spirito che non da quello che mangiamo. Occorre infatti fare del pasto un’occasione di piacere, un rito creatore di senso e di esperienze, anche di esperienze spirituali in cui mangiare in comunione e conoscere Dio diventano la stessa cosa.

Plutarco fa dire a un personaggio delle sue Dispute conviviali: “Noi uomini non ci nutriamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme” (II,10). Tale aspetto è decisivo: per questo il cibo per noi umani è evento culturale che sa soprattutto produrre convivio che, come dice la parola, è “cum vivere”, vivere insieme e quindi “com-munitas”, cioè mettere insieme i doni, il munus che ciascuno ha, oppure il debito (anch’esso munus) che ciascuno ha verso l’altro. Condividere per convivere!

È proprio a causa di questa valenza del cibo che nella Bibbia la pienezza di vita è stata espressa dall’immagine del banchetto. Dal banchetto messianico promesso già dai profeti come banchetto del regno di Dio:

Il Signore dell’universo
preparerà per tutti i popoli
un banchetto di cibi abbondanti,
un banchetto di vini raffinati,
di cibi succulenti, di vini eccellenti
(Is 25,6),

al banchetto promesso da Gesù:

Molti verranno dall’oriente e dall’occidente
e siederanno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe
nel regno dei cieli

(Mt 8,11; cf. Lc 13,29),

fino ai banchetti raccontati da Gesù nelle parabole come immagini, profezie del regno dei cieli (cf., in particolare, Mt 22,1-14; Lc 14,15-24). Dove c’è banchetto, infatti, non c’è solo nutrizione, ma c’è vita piena, condivisione, comunione tra tutti gli esseri umani e tra Dio e l’umanità. La tavola del regno dei cieli ha proprio il Signore Dio come ospite che invita, chiama, offre il banchetto a noi umani, ospiti, invitati, accolti per fare comunione con lui.

Omnia sunt communia: il cibo e la giustizia

Omnia sunt communia: questa affermazione, che risale ai padri della chiesa, è stata la bandiera della rivoluzione di Thomas Müntzer (1489-1525), la “rivoluzione dei contadini”. Dal ’68 in poi appare come segno scritto lasciato da manifestanti che protestano, com’è accaduto poche settimane fa a Milano, in occasione dell’inaugurazione di Expo 2015. Si può essere sorpresi dalla predicazione ecclesiastica degli ultimi decenni, muta sui temi della giustizia e dell’equità, ma in verità noi troviamo questa affermazione nella costituzione Gaudium et spes del concilio Vaticano II:

Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità … L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni … Il concilio richiama urgentemente tutti … affinché – memori della sentenza dei padri: “Dà da mangiare a colui che è moribondo per fame, perché se non gli avrai dato da mangiare, lo avrai ucciso” realmente mettano a disposizione e impieghino utilmente i propri beni, ciascuno secondo le proprie risorse, specialmente fornendo ai singoli e ai popoli i mezzi con cui essi possano provvedere a se stessi e svilupparsi.

(Gaudium et spes 69)

Ora, il cibo, che ci dà la vita e senza il quale moriamo, è la prima realtà che va necessariamente condivisa. Oggi siamo consapevoli dell’ingiustizia regnante, dell’assoluta mancanza di equità nella distribuzione delle risorse del pianeta. Si pensi solo che il 20% della popolazione possiede l’86% della ricchezza mondiale. La diseguaglianza planetaria, a partire dall’ingiusta ripartizione del cibo, dovrebbe farci provare vergogna. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri dai ricchi dovrebbe inquietarci, perché una tale situazione può solo preparare una rivolta dei poveri, una guerra dai nuovi connotati, ma sempre guerra, tra i privilegiati e i bisognosi che ricevono sempre meno aiuti e sono sempre più abbandonati a se stessi, alla miseria, all’ignoranza, alle regressioni tribali che generano violenza tra gli stesi poveri. I ricchi oggi diventano più ricchi e i poveri più poveri, cresce il numero delle persone obese nel ricco occidente, mentre gli abitanti dell’emisfero sud, dell’Africa, continuano a morire di fame o di malnutrizione. Purtroppo negli ultimi venticinque anni si sono imposti e regnano “dogmi economici” che favoriscono i ricchi e aumentano l’ingiustizia nella società. L’idolo della crescita economica che deve essere inarrestabile ascesa; il consumo, anch’esso pensato sempre in crescita per la soddisfazione della ricerca di felicità; la concezione della naturalità della diseguaglianza, che sarebbe vantaggiosa per tutti: questi sono diventati dogmi poco contraddetti e invece sempre capaci di rendere idolatre e alienate le masse.

Per la fede ebraica e cristiana Dio, in ogni caso, è la presenza che non solo chiede equità, ma la impone, “ricolmando di beni gli affamati e rimandando i ricchi a mani vuote” (cf. Lc 1,53), mentre attualmente si crede alla mano invisibile del mercato, pensata come la presenza che è incaricata del benessere del pianeta: idolatria, avrebbero gridato i profeti e i padri della chiesa! Abbiamo perduto il senso della grande e decisiva nozione cristiana del bene comune e, con essa, ogni urgenza di giustizia e di equità. La terra è di Dio e su di essa noi siamo solo ospiti e pellegrini (cf. Lv 25,23); la terra è stata affidata a tutta l’umanità perché fosse lavorata, custodita e potesse dare le risorse necessarie per la vita di tutti gli abitanti del pianeta, umani e animali. Il cibo, il pane, secondo la metafora che lo rappresenta, è di tutti e per tutti. Diceva il pensiero cristiano:

Il “mio” e il “tuo”, queste fredde parole, introd[usser]o nel mondo infinite guerre … I poveri non invidiavano i ricchi perché non c’erano poveri, essendo tutte le cose comuni.
(Giovanni Crisostomo, Omelia su 1Cor 11,19 2)

Ecco da dove sorgono il contrasto, l’inimicizia, la violenza…
Parole come quelle che seguono erano una sorta di ritornello per i cristiani delle origini:ì

I beni sono comuni, perché il Creatore fece per tutti le viti, le quali non respingono né il passero né il ladro, e così il grano e gli altri prodotti. Fu la violazione della condivisione, della communitas a generare il ladro … Dio, nel creare tutto in comune per gli uomini … ha definito la giustizia una condivisione di tutti i beni nell’equità.

(Clemente Alessandrino, Stromati III,2,8)

Oggi è urgente che gli umani riscoprano la communitas la quale, sola, può aiutare i tentativi di equa redistribuzione delle ricchezze del pianeta; è urgente che ritrovino l’idea di bene comune, per la felicità della convivenza; è urgente che si esercitino alla convivialità (in proposito, si vedano i contributi di Serge Latouche, di Patrick Viveret, di François Flahault), per ritrovare i legami sociali, la possibilità di instaurare una fiducia reciproca che si traduce in responsabilità l’uno verso l’altro, a partire dalla convivialità, dalla condivisione del cibo. Non mi dilungo a declinare l’istanza della condivisione del cibo, ma è facile comprendere che non significa solo l’atto finale dello spezzare il pane insieme, bensì anche il rispetto del lavoro del produttore di alimenti, il riconoscimento del lavoro dei contadini, la sostenibilità sociale ed ecologica, l’instaurazione di un mercato equo e solidale e, all’inizio dei processi, l’affermazione della proprietà comune dei semi e la destinazione della terra a quanti la lavorano.

Il cibo, dunque, è tale quando è condiviso, altrimenti è veleno per chi se lo accaparra e morte per chi non ce l’ha. Il mondo, purtroppo, sembra diviso tra chi non ha fame perché ha troppo cibo e chi ha fame perché non ne ha. In virtù di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… Il paradosso dell’abbondanza in cui credevamo di vivere, con la crisi economica di questi ultimi anni ha mostrato che la miseria può essere tra di noi e colpire qui, nelle nostre terre, uomini e donne che vivono tra la penuria e la fame, faticando ad avere ciò che è necessario per vivere e dovendo così ricorrere all’aiuto di istituzioni caritative. Ripeto, qui in mezzo a noi! Condividere il cibo dovrebbe essere condizione essenziale per poterlo assumere con sapienza e per renderlo causa di festa, trasformandolo da cibo quotidiano in banchetto. Mai senza l’altro, neppure a tavola! Nel Padre nostro non sta scritto: “Dammi oggi il mio pane quotidiano” – suonerebbe come una bestemmia! – ma “Dacci, dà a tutti noi il pane di ogni giorno (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), e così ti potremo chiamare ‘Padre nostro’ e non ‘Padre mio’”! Permettetemi di ricordarlo: se il pane, bisogno comune, pane per tutti, non è condiviso, allora “le pain se lève”, “il pane insorge, si alza in rivolta”. Questo è il grido delle rivoluzioni per la mancanza di pane e la fame dei poveri: lo era nel medioevo ma lo è ancora ai giorni nostri (basta rammentare la rivolta tunisina di qualche anno fa).

Vigiliamo dunque e, soprattutto, decidiamoci a una conversione, a un mutamento dei nostri comportamenti verso il cibo: dobbiamo combattere gli sprechi, sentire come un furto il buttare via il cibo, assumere uno stile di sobrietà, fare le battaglie politiche ed economiche necessarie affinché il cibo sia sempre condiviso E subito, nel quotidiano, dove ci troviamo, dobbiamo dare da mangiare a chi ha fame, aiutandolo con denaro o invitandolo alla nostra tavola. Sulla condivisione del cibo – dice Gesù – saremo giudicati degni di vivere oppure maledetti, consegnati alla morte: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare” (Mt 25,35.42). Il rapporto tra sapienza umana e cibo non può eludere il problema della fame e dunque chiede, anzi reclama con forza la condivisione.

I nove comandamenti “eucaristici”

Quotidianamente abbiamo fame e sete, e per questo mangiamo e beviamo: ma sappiamo trarre insegnamento da queste pulsioni che ci abitano? Fame e sete, infatti, dovrebbero innanzitutto in-segnarci, fornirci sapienza, fare segno, indicarci alcune realtà necessarie per vivere la nostra vita come cammino che ci umanizzi sempre di più. Fame e sete ci fanno sentire la nostra condizione animale: sulla terra siamo una grande comunità che mangia e beve, e per questo vive; siamo molti, siamo co-creature e nessuno di noi è solo sulla terra. Dunque il pianeta, con le sue risorse, è davanti a noi tutti, è una tavola imbandita per tutti. Se ascoltassimo questo insegnamento che ci viene dalla fame e dalla sete, avremmo già fatto un passo decisivo verso l’acquisizione della sapienza nel rapporto con il cibo, non foss’altro perché la presenza degli altri mi dice subito e perentoriamente: “C’è un limite al tuo prendere cibo, il cibo è anche per gli altri. Non tutto è per te, a tua disposizione, e non subito, perché il cibo devi cercartelo, guadagnartelo, raccoglierlo e poi renderlo cibo, cucinarlo e quindi condividerlo”.

Ma ascoltando fame e sete, come ognuno di noi si deve relazionare nei confronti del cibo? A conclusione di questa mia riflessione, vorrei indicare nove “comandamenti” (non ardisco arrivare a dieci!), nove parole, nove urgenze eucaristiche, nel senso che trovano ispirazione dal magistero silenzioso dell’eucaristia, del rendere grazie (eucharisteîn) a Dio, alla terra nostra madre, a tutte le creature e ai nostri fratelli e sorelle in umanità. Il modo di vivere l’azione del mangiare, lo stile del mangiare sono importanti quanto il cibo: non si vive di solo cibo, ma anche di ciò che il pane rappresenta e delle diverse mani che l’hanno preparato, confezionato. Il cibo è segno di comunione, pluralità, trasfigurazione, semplicità e complessità, lavoro e arte. E soprattutto, è segno di amore.

Essere consapevoli di ciò che si mangia

Annotava lo scrittore inglese Charles Lamb (1775-1834): “Detesto l’uomo che inghiotte il cibo senza sapere che cosa mangia. Dubito del suo gusto in cose più importanti”. La consapevolezza di ciò che si mangia è necessaria in primo luogo per le proprie scelte culinarie ma anche per umanizzare gli alimenti. Conoscere gli alimenti, discernerli, sceglierli, sapere da dove vengono è un’operazione che richiede anche la fatica di sapere da dove vengono, la fatica dell’attenzione, ma dà un altro sapore a ciò che si mangia. Oggi, poi, con la globalizzazione, questa consapevolezza non può essere disattesa, perché occorre nutrire il pianeta, non defraudarlo, occorre il rispetto delle stagioni; e per non inseguire ogni nostro desiderio a un costo folle, occorre sapere.

Se uno avesse tale consapevolezza, vedrebbe nella tavola a cui è seduto la convocazione di tutta la terra: caffè dal Brasile, olio dal Mediterraneo, pesce dai mari del nord, carne dalle pianure e dai monti d’Europa, ananas dai paesi tropicali…

Stupirsi e meravigliarsi sempre

Stupirsi e meravigliarsi innanzitutto perché oggi mangiamo e non soffriamo la fame, mentre altri nel mondo non hanno da mangiare. Stupirsi perché c’è una tavola, ci sono altri commensali e insieme condividiamo il cibo: non facciamo come gli animali che si nutrono ciascuno pensando a sé, ma sentiamo il bisogno che la prima azione necessaria per vivere sia la condivisione. Qualcuno ci dà il cibo, ce lo offre, ce lo dona, come la madre ci ha offerto la mammella quando siamo venuti al mondo.

Il mangiare come convivio è un miracolo. Non si può non meravigliarsi del fatto che ogni giorno sulla tavola il cibo è diverso, che a volte ci è dato di scoprire un nuovo piatto, che alla tavola sediamo con qualcuno che non conoscevamo.

Avere rispetto per il cibo

Al riguardo non si può evitare il lamento, in particolare da parte di chi, come me, dopo la guerra ha conosciuto tempi di penuria, scarsità di pane, ed era indotto dall’educazione ricevuta a venerare soprattutto il pane. Si prestava attenzione a che non cadesse per terra e, se succedeva, ci si faceva il segno della croce; non lo si metteva mai in tavola collocandolo in modo non nobile: quante sberle ho ricevuto per aver disposto il pane capovolto o, una volta spezzatolo o tagliatolo, per non averlo tenuto davanti in modo ordinato!

Rispetto per il cibo significa non avanzarne per capriccio o non lasciarne nel piatto, quasi per celebrare l’abbondanza o ostentare la ricchezza. Gli scarti, i cibi che finiscono tra i rifiuti sono una vergogna di tutto l’emisfero nord del pianeta: ciò che si butta basterebbe a sfamare quel miliardo di persone che soffrono fame e miseria. Rispetto per il pane significa dunque lotta contro lo spreco, volontà di utilizzare gli avanzi e, con ulteriori trasformazioni, renderli dei cibi che stupiscono e rallegrano.

Benedire e rendere grazie

Dobbiamo riscoprire in noi, custodire, vivere e accrescere l’atteggiamento di gratitudine. Essere grati fa parte di ogni relazione e, se non si conosce la gratitudine, la relazione stessa è ridotta a scambio e mercato. I credenti in Dio lo benediranno e lo ringrazieranno (eucaristia) per questi doni: lo impone la loro comprensione eucaristica della terra. I non credenti in Dio dovranno anche loro essere grati: si sono guadagnati il cibo lavorando, ma quanti, prima di loro, gli hanno permesso di gustare quel cibo… La gratitudine va sempre a chi ci ha preceduto, poi a quanti nei nostri giorni sono coinvolti nella fatica della produzione di un alimento. Natura, cultura e lavoro di altri ci permettono la varietà e la bontà dei cibi.

Occorre benedire la terra, dunque, questa terra che è nostra madre e ci nutre donandoci frutti, cibo, erba. Ogni sera prima di salire sul letto mi inginocchio a baciare la terra – come mi hanno insegnato –, e più invecchio, più faccio questo gesto con una gratitudine e un amore crescenti, perché dentro di me aumenta la consapevolezza che la lascerò. Madre terra, dico madre terra perché dopo nostra madre c’è la terra: entrambe ci hanno fatto nascere e ci hanno nutrito. La terra ci accoglierà tra le sue braccia, come tante “pietà” scolpite nelle nostre chiese, che ci raccontano come ognuno di noi, morto, desidera stare sulle ginocchia della madre, della terra dunque.

Si ringrazia anche chi ha preparato la tavola e i cibi. Fare da mangiare è l’atto più elementare di amore: “Ti faccio da mangiare perché tu viva, ti faccio da mangiare bene perché tu viva bene!”.

Abitare la tavola

La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio capace di accogliere una decina di commensali (non un tavolino, magari di formica o di plastica, schiacciato in una piccola cucina!) era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come famiglia o come amici. La tavola, alla quale “passiamo”, non da soli ma con altri, va abitata.

Cosa voglio dire? Che la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola, ma in realtà è altrove. Oggi si sta a tavola con il giornale aperto accanto al piatto, si guarda o si legge il tablet, lo smartphone, e in molte famiglie è accesa la televisione: come siamo imbarbariti… La tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia, dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il luogo della massima estraneità. È vero che normalmente si mangia con gli stessi commensali; è vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al massimo a tre persone, sembra che non ci siano parole da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che l’assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più desiderosi dell’ascolto di chi ci sta davanti.

Stare a tavola, abitarla è un’arte ma è innanzitutto il quotidiano volto contro volto dell’amato/a, del fratello/sorella, dell’amico/a, dell’altro/a che mangiando con me vive un’azione di comunione straordinaria. Si vive dello stesso cibo, ci si nutre nutrendo le relazioni.

Gustare con tutti i sensi

Legato al desiderio e all’oralità, il mangiare investe la sfera affettiva e quella sensoriale, emozionale dell’essere umano: tutti i sensi sono convocati.

Ricordo appena che il cibo lo sentiamo a partire dall’olfatto. Prima di vederlo, prima che giunga in tavola, i profumi che vengono dalla cucina ci avvertono; chi conosce un po’ l’arte della cucina e sa ciò che mangia, riconosce con l’olfatto ciò che gli viene offerto. I profumi del cibo sono essenziali per iniziare a gustare un piatto e le cucine delle diverse culture del mondo si riconoscono dai profumi che emanano: profumo di curry dell’oriente, profumo di pepe del medio oriente, profumo di verza dal nord Europa o dalle cucine dei frati, e si potrebbe continuare all’infinito… Guai a chi si avventa sul cibo senza prima odorarlo! Con il suo profumo, il cibo comincia a entrare in noi, comincia a risvegliare il nostro discernimento e ci spinge al giudizio: buono, meno buono, cattivo. Gli odori si fissano facilmente nella memoria e, quando ritornano, ci rimandano ai ricordi, all’infanzia, alla “nostra” cucina materna. Certi momenti effimeri di un pasto in cui abbiamo sentito profumi che ci hanno fatto trasalire, hanno un profumo di eternità!

Dopo l’olfatto la vista, che può diventare anche contemplazione: a volte si guarda estasiati un peperone nella sua semplicità, a volte si è catturati dalla vista di piatti non solo elaborati, ma cesellati, ricamati. Allora il cibo è celebrato da se stesso, dal modo in cui è presentato dal cuoco e inviato a tavola. Occorre avere il coraggio di denunciare che oggi non si sa più vedere, contemplare il cibo in tavola, mentre si impone il voyeurismo di chi osserva l’arte della cucina sui mass media. Sui canali televisivi o sulla carta patinata quanti piatti si contemplano, dominati come siamo dalla finzione, e poi non sappiamo più guardare un pane nella sua semplice regalità o una testa d’aglio per fare una bruschetta… Certo, a queste condizioni si può mangiare senza vedere ciò che si mangia, ricorrendo al cibo spazzatura (junk food o fast food). Claude Fischer è arrivato a coniare la sigla “OCNI”, cioè oggetti commestibili non identificati, per indicare questi cibi che si mangiano senza guardarli, da parte di molti che “non sanno quello che vedono”. Quanti cenacoli, quante tavole di Emmaus dipinti sulle pareti delle nostre chiese, che certamente insegnavano qualcosa sul vedere. Ma oggi chi insegna l’arte del vedere il cibo? Non certo le trasmissioni televisive di cucina…

Vi è poi il toccare, il tatto, pure questo importante, anche se oggi per molti cibi ci serviamo delle “protesi” del cucchiaio e della forchetta. Ma prima di gustare il cibo, chiudendolo tra lingua e palato, prima di macinarlo con i denti, lo sentiamo tramite l’esperienza tattile. Prendendo in mano una mela oppure una pesca, si hanno esperienze del toccare molto diverse. E certi piatti richiedono che usiamo le mani, sentendo con le dita ciò che mangiamo.

Il tatto diventa poi gusto, ed è proprio il gusto il senso più importante per chi mangia o beve. Ognuno di noi sviluppa sensibilità gustative in modo molto diverso: la cultura, la famiglia, la terra a cui apparteniamo creano in noi preferenze o addirittura rifiuti nei confronti di alcuni cibi. I cibi, con i loro sapori, plasmano il nostro gusto, la vita poi ce li fa interpretare in modo personalissimo, la storia e i legami affettivi vissuti li caricano di significati infiniti. Non è neppure senza importanza l’aver mangiato un cibo in compagnia di qualcuno invece che di qualcun altro: un cibo possiamo sentirlo cattivo perché l’abbiamo scoperto o mangiato con chi preferiamo non ricordare… Quanti figli non sono riusciti a mangiare degli alimenti finché vivevano in casa, solo per il fatto che li mangiava il genitore con cui erano in conflitto? Il cibo, con il suo gusto, può riconciliare, aiutare l’amore e la comunione, ma può anche accendere antipatia, opposizioni e addirittura violenza. Ognuno di noi conosce, perché ne è stato testimone in prima persona, questa possibilità: è sufficiente fare un’anamnesi dei pasti vissuti in famiglia, o in convivenza, o in comunità, per avere questa conoscenza della grazia o della disgrazia del “gustare”!

Infine, l’ultimo senso coinvolto è l’udito: sembrerebbe il senso meno implicato nell’atto del mangiare, e invece no! Per prima cosa si deve dire che un cuoco è chiamato a esercitare l’udito in modo da memorizzare le diverse cotture dei cibi: dal sobbollire del ragù, al friggere delle patate, al rosolare di un roast beef, quanti suoni, direi musiche diverse, provengono dalle cotture… E quando si annaffia un arrosto con il vino, quello sprigionarsi insieme di vapore, profumo e crepitio dell’olio dà le vertigini. Il vero cuoco, prima di guardare, sente dal suono che viene dalla pentola se è il caso di intervenire per non lasciar bruciare il cibo che vuole preparare. Poi, quando si mangia, il suono dei cibi in bocca ci giunge alle orecchie attraverso i muscoli della faccia, ma in modo diverso: il frantumare un grissino con i denti, il succhiare una mozzarella, il masticare una bruschetta al pomodoro… non danno solo gusti diversi in bocca ma anche suoni diversi per gli orecchi. È significativo – come mi dissero un giorno dei beduini arabi nell’Atlante, in Marocco – che prima di bere guardiamo il vino nel calice, lo annusiamo con cura, lo sentiamo sulle labbra e infine lo gustiamo in modo differente: sulla lingua, o buttandolo verso il palato, o facendolo danzare tra i denti, o tra le guance, o deglutendolo… Solo il senso dell’udito sembrerebbe escluso. E allora – mi dicevano quegli arabi sapienti – prima di bere si battono insieme i calici con l’augurio di salute: il “cin cin” è sonoro, e così anche l’udito è implicato.

Mangiare e bere con tutti i sensi è un’operazione assolutamente necessaria: ne va non solo del gusto, ma anche del senso del mangiare. Tutti i sensi implicano, chiedono di trovare il senso dei sensi, anche in ciò che mangiamo o beviamo.

Mangiare con lentezza

Slow food, espressione che ormai tutto conosciamo: per la nostra salute, per gustare ciò che si mangia, ma anche in vista di una maggior sobrietà, del mangiare secundum mensuram occorre riscoprire la lentezza. Una buona masticazione è dietetica, consente di preparare il cibo a essere introdotto nello stomaco, ma soprattutto diventa necessario per riconoscere ciò che mangiamo e giudicarlo (amaro o acido, dolce o salto, mite o speziato sono i sei sapori che il buddhista impara a riconoscere, mangiando adagio).

Noi umani non siamo più ruminanti, ma per questo dobbiamo trattenere di più il cibo in bocca, perché da ciò dipende la digestione. Mangiando con lentezza si è più facilmente sazi e si impara a non abbuffarsi, a non divorare, ma a fissarsi una misura, un limite, a non abbandonarsi alla vertigine del mangiare. Sì, perché avviene per il mangiare come per il bere: più fretta c’è in questi atti, più la vertigine ci cogli e ci fa dimenticare la misura; c’è un’ubriacatura per il vino, ma ce n’è anche una per il cibo, che si manifesta in sonnolenza postprandiale, in una stanchezza o in un ebetismo da stolti. Non si può mangiare velocemente e praticare la sobrietà né, tanto meno, praticare il digiuno, la sospensione dell’appetito per vari motivi, a volte religiosi, ma che oggi scopriamo necessari alla salute e dietetici.

Condividere il cibo

La condivisione del cibo meriterebbe essa sola un’estesa riflessione. Ricordiamo almeno che questa esigenza di condivisione è inerente alla nostra condizione di ospiti sulla terra. Omnia sunt communia, come già si è detto: le cose e soprattutto i frutti della terra sono di tutti. E la tavola, luogo dove gli uomini e le donne non si pascono ma mangiano, non può che essere il luogo della condivisione. Certo, si tratta di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, perché questa è la responsabilità di ogni persona verso chi non ha né pane né acqua per vivere; ma si tratta anche di avere a tavola l’urgenza, il sentimento di “fare comunione” di ciò che si ha davanti.

Qui si mostra l’ethos eucaristico di cui ciascuno è capace: basta infatti tendere la mano e prendere la mela più grande e bella, lasciando le meno belle agli altri, per dichiarare la propria non volontà di condivisione. Ognuno può consumare ciò che gli spetta, dopo aver condiviso ciò che vi è sulla tavola, altrimenti toglie agli altri, in qualità o quantità, ciò che è destinato a tutti. Non è un caso che i primi cristiani “spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore” (At 2,46). Solo se c’è condivisione, ci possono essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al povero, è una tavola veramente umana. Si può anche mangiare poco, anche solo pane e vino, ma se lo si condivide è grande festa, è vera comunione!

Rallegrarsi, gioire insieme

Infine, proprio perché la tavola è fonte di piacere, il mangiare e il bere procurano gioia, allegria. Quando vogliamo rallegrarci, fare festa, sentiamo il bisogno di celebrare la vita con un pasto, invitando altri alla nostra tavola. Per la nascita di un figlio o di una figlia, per segnare le tappe del loro crescere, per festeggiare un traguardo da loro raggiunto, per celebrare l’amore, si imbandisce la tavola e si fa un banchetto. E più si vuole festeggiare, più il banchetto è abbondante. Anche Gesù, quando voleva consegnare un’immagine eloquente della vita del regno di Dio, dove non ci saranno più la morte né il lutto né il pianto (cf. Is 25,8; 35,10; Ap 21,1), ricorreva all’immagine della tavola e del banchetto.

Un tempo, per gente che pativa la fame la tavola era un sogno; oggi, che si può mangiare con abbondanza, dentro di noi non vi è spazio per un’immagine più evocativa del banchetto, per esprimere una vita bella, buona, felice, una vita piena. La tavola è l’anticamera dell’amore, un luogo e un momento che non assomiglia a nessun altro, una realtà affettiva e simbolica antica come l’umanità, una possibilità di una comunicazione privilegiata e di una trasfigurazione del quotidiano.

Certo, ci vuole sapienza per vivere la tavola, ma la tavola e il cibo hanno la capacità magisteriale di insegnarcela.
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