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Manicardi - 7 luglio 2013 XIV Tempo Ordinario

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 Fonte: monasterodibose
domenica 7 luglio 2013
Anno C
Is 66,10-14c; Sal 65; Gal 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20


L’annuncio che Dio, tramite il profeta, fa giungere al popolo ritornato dall’esilio babilonese è annuncio di pace (prosperità, shalom: Is 66,12), di salvezza e di giustizia che in una Sion immaginata come madre trova la sua manifestazione: Gerusalemme diviene luogo di consolazione (I lettura);
l’annuncio che Gesù, tramite i settanta (o settantadue) discepoli, fa giungere alle città e villaggi nelle quali si sarebbe recato nel suo cammino verso Gerusalemme, è annuncio di pace, è proclamazione che il Regno di Dio si è fatto vicino. Pace e Regno di Dio sono manifesti in Gesù stesso (vangelo).

Il testo evangelico contiene un ricco insegnamento sulla missione. I discepoli sono inviati per preparare la strada a Gesù (“li inviò avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi”: Lc 10,1). La missione è ancillare nei confronti del Signore, è annuncio e preparazione della sua venuta. Per questo i discepoli sono inviati a due a due: perché la loro comunione e fraternità è già annuncio del Regno, perché il Vangelo, che nell’amore trova il suo centro, è testimoniato adeguatamente da vite in relazione, da uomini che si aiutano e sostengono vicendevolmente, da persone che si amano. Gli inviati sono pochi rispetto alla smisuratezza delle messe, sono dotati di pochi mezzi e di ancor meno certezze: povertà, minoranza, precarietà non sono deprecabili ostacoli che impediscono l’efficacia della missione, ma sono le condizioni poste da Gesù per la missione evangelica. La povertà degli inviati deve far risaltare il fatto che la missione è svolta dalla persona nella sua interezza. Non basta avere pochi mezzi, occorre essere poveri, non basta proclamare il Regno di Dio, occorre essere uomini di Dio, non basta annunciare la pace, occorre essere operatori di pace. Così gli inviati possono davvero essere “agnelli” (Lc 10,3) che seguono l’Agnello, Gesù Cristo. La missione, infatti, non è altra cosa rispetto alla sequela, non è una realtà a parte, ma ha senso proprio e solo come sequela Christi.

In questo affidamento radicale al suo Signore, l’inviato potrà sperimentare la protezione che il Signore gli accorda: “Nulla potrà farvi del male” (Lc 10,19). Inviato in mezzo a lupi, senza alcuna assicurazione del successo della sua missione, anzi, essendo stato prevenuto dal Signore sulla possibile non accoglienza (cf. Lc 10,10), l’inviato potrà tuttavia conoscere in queste tribolazioni la certezza di fede di essere sulle tracce del Signore che conobbe la non accoglienza, il rifiuto, e non vi si ribellò. Come il suo Signore, l’inviato cristiano è chiamato ad accogliere la non accoglienza che gli uomini possono riservargli e ad annunciare a tutti che il Regno di Dio è vicino.

La povertà e inermità dell’inviato è anche il luogo in cui può manifestarsi la potenza dello Spirito di Dio: “I demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (Lc 10,17). Vi è una forza straordinaria nell’estrema povertà, nel rifuggire tutto ciò che è potere e affermazione da parte dell’inviato di Cristo: anzitutto perché sempre la potenza di Dio si manifesta nella debolezza del credente, ma anche perché la piccolezza degli inviati viene sentita dai destinatari della missione come non minacciosa e perciò crea fiducia e rende possibile il miracolo dell’incontro tra diversi, tra lontani, che grazie proprio alla povertà possono avvicinarsi gli uni agli altri senza diffidenze e timori.

Per questo Gesù non invia missionari a portare cibo, abiti e denaro a bisognosi, ma invia uomini senza denaro, senza provviste di cibo e “spogli”: “Non portate borsa, né bisaccia, né sandali” (Lc 10,4; in Lc 9,3 aggiunge: “Non portate due tuniche per ciascuno”). Ciò che devono portare è l’annuncio della vicinanza del Regno e dunque la necessità della conversione: per questo occorre non perdere tempo, non fermarsi a salutare nessuno per strada (cf. Lc 10,4), bruciare le parole cortesi per non ritardare l’annuncio essenziale. La povertà degli inviati è segno e testimonianza credibile di un Regno che essi stessi attendono come vitale. E questo atteggiamento dice la verità del loro annuncio.

LUCIANO MANICARDI
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