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Che professione ha esercitato il giovane Gesù?

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Gianfranco Ravasi, (“Questioni di fede” – Mondadori, settembre 2010, pp. 193, 194)

 È da tempo che, accanto alle varie analisi storico-critiche e letterarie, i Vangeli sono sottoposti anche a ricerche di taglio sociologico nel tentativo di definire la figura del Gesù storico nel suo contesto socioeconomico. In questa operazione si è distinto un professore dell’università tedesca di Heidelberg, Gerd Theissen, le cui opere sono state tradotte anche in italiano. Gesù era vissuto in un ambito prevalentemente agricolo che sentiva il peso delle varie oppressioni fiscali (romane e locali: si ricordi della frequente presenza dei “pubblicani”, gli esattori, nei Vangeli) e che era legato a un territorio piuttosto aspro e di scarsa produttività.
Gesù dal punto di vista sociale è presentato da Marco (6,3) come un tékton, qualifica che Matteo (13,55) assegna invece al padre legale, Giuseppe. Che cosa indica quel vocabolo greco? Di per sé rimanda o al falegname e al carpentiere, con prevalenza per la prima accezione, come ha inteso anche la tradizione successiva. In realtà la distinzione tra le due professioni era piuttosto blanda, anche perché, a un livello sociale basso com’era quello della Palestina di allora, le specializzazioni non esistevano. A questo punto, per definire lo statuto socioeconomico di Gesù, bisogna evitare gli eccessi interpretativi ideologici.
Da un lato, c’è chi ha parlato di una povertà estrema: in realtà, lo standard generale di vita era allora modesto e quindi le esigenze erano minime e Gesù era da collocare nella classe comune, piuttosto omogenea, che aveva mezzi di sussistenza sufficienti, anche se scarsi. Naturalmente non mancava una fascia di miseria, come è attestato anche nel racconto dei Vangeli (si pensi al povero Lazzaro della parabola del ricco epulone). D’altro lato, c’è chi ha voluto ricondurre lo statuto di Giuseppe e di Gesù a quello della borghesia: con qualche immaginazione si è pensato a loro come conduttori di un’impresa di costruzioni o di artigianato, ricorrendo a una parola aramaica,
naggara’, che potrebbe essere sottesa al citato tékton. Quel termine semitico, oltre al carpentiere e al falegname, potrebbe indicare anche il capomastro.
In realtà, questa teoria un po’ fantasiosa è smentita proprio dall’ironia dei compaesani di Gesù sul suo stato di tékton, considerato come basso rispetto alla fama che ormai avvolgeva il personaggio (“Non è costui il falegname?”, Mc 6,3). Tenendo conto di quanto si è detto finora, è facile capire che durante il suo ministero pubblico Cristo non aveva particolari capitali che gli permettessero la sopravvivenza, ma si adattava alla prassi dei predicatori ambulanti di allora che potevano usufruire sia della tradizionale norma dell’ospitalità (tant’è vero che ci si stupisce quando si incontrano reazioni di rigetto: si leggano, per contrasto, Mt 10,40-42 e Lc 9,52-55), sia del sostegno dei discepoli.
Pietro e Andrea o Lazzaro, Marta e Maria, ad esempio, offrono accoglienza e sostegno, essendo probabilmente più benestanti degli altri seguaci di Gesù, così come le donne che lo seguivano “assistevano” Gesù e i suoi discepoli “con i loro beni”: non si dimentichi che tra esse c’era anche una nobildonna, “Giovanna, la moglie di Cusa, economo di Erode” (Lc 8,3). D’altronde, come si diceva, il tenore comune di vita era tale da non creare esigenze particolari, così come era stata costante la messa in guardia di Gesù nei confronti della ricchezza e l’esaltazione del distacco dai beni, al punto tale che lo stesso Cristo poteva dichiarare di non possedere neppure una pietra da usare come cuscino per la notte (Mt 8,20).

Gesù vestiva «firmato»
Vittorio Messori, (“La Bussola” - 6 gennaio 2011)
Visto che è l’Epifania vorrei parlare di soldi: un tema che ho affrontato anche nel libro-intervista con il compianto Leonardo Mondadori, cercando di dimostrare come non reggano alla prova dei fatti certi ritratti pauperistici e demagogici che vorrebbero presentarci Gesù come un indigente.
Innanzitutto ricordiamo che Giuseppe e Maria, arrivati in una Betlemme in overbooking a causa della folla venuta per il censimento, non trovano riparo nella dependance dell’albergo non perché sono poveri. «Non c’era posto per loro nell’albergo», sta probabilmente a significare che l’affollamento era tale da sconsigliare a Maria di fermarsi lì per dare alla luce il figlio, preferendo un luogo meno nobile ma più riservato.
In ogni caso, dal vangelo di Matteo apprendiamo che quando arrivano i Magi, la Sacra Famiglia si trova in una casa, che evidentemente Giuseppe aveva preso in affitto, e dunque avevano abbandonato la stalla, la dependance del caravanserraglio di Betlemme. Giuseppe apparteneva alla classe media o agiata ed era - come attestano antiche fonti cristiane - padroncino di una piccola impresa di teknoi, di lavoratori del legno. L’infanzia e la giovinezza di Gesù, dunque, non sono quelle di un povero indigente.
Ricordiamo poi che i Magi a Betlemme aprono i loro «scrigni» o i loro «forzieri» - il termine usato da Matteo ha entrambi i significati – e ciò significa che erano arrivati con una carovana a portare i loro doni. Erano persone autorevoli, offrono oro, incenso e mirra. Giuseppe non li rifiuta. L’oro gli sarà servito per la fuga in Egitto. L’incenso e la mirra, altre sostanze preziose, avrà potuto venderle perché ricercate. L’incenso dai sacerdoti egiziani, la mirra – profumo apprezzato da bruciare – dalle famiglie facoltose.
Non dimentichiamo inoltre che durante il breve periodo della sua vita pubblica Gesù era accompagnato da vedove facoltose che lo mantenevano. E se il gruppo aveva un amministratore, Giuda, il quale poteva rubare, significa che c’erano dei soldi. L’episodio dell’emorroissa che guarisce toccando le frange della veste di Gesù, ci dice che il Nazareno vestiva abiti signorili. Il fatto che la sua tunica, al momento della crocifissione, non venga smembrata in quanto preziosa e senza cuciture, sta a significare che Cristo, possiamo dirlo, aveva abiti «firmati», non indossava stracci.
Tutto questo fa a pugni con l’idea di presentare Gesù come un proletario nullatenente. E quando egli dice che il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo, non si riferisce alla mancanza di denaro, ma al fatto di essere lontano dalla sua terra, quasi in esilio.
Gesù non demonizza il denaro, dice che bisogna essere liberi dal denaro, non diventarne schiavi. Il denaro di per sé non è un male, e può essere usato per fare il bene. Nel Vangelo, non a caso, noi troviamo molti ricchi buoni e molti poveri cattivi.
Con questo non voglio dire che non siano importanti alcune specifiche vocazioni alla povertà, come quella dei francescani. Dico soltanto che certe interpretazioni pauperiste della figura di Gesù non sono fondate sui vangeli.
(testo raccolto dalla redazione e non rivisto dall’autore)

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